di Massimo Raffaeli
Sebbene amasse definirsi «un politico prestato alla poesia», Sanguineti, scomparso ieri a Genova a 79 anni, è stato tra i protagonisti della vita culturale del '900, con una produzione in cui si alternano versi e prose di invenzione, traduzioni e saggi. E il suo testo di esordio, «Laborintus», rimane uno snodo essenziale della letteratura italiana contemporanea
Non ho creduto in niente. Uno dei suoi versi più celebri, scritto quarant'anni fa e leggibile alla stregua di un virtuale testamento, può davvero colpire se lo si riferisce a quanto Edoardo Sanguineti rappresenta nel senso comune della nostra letteratura: cioè il poeta della Neoavanguardia, l'intellettuale materialista (anzi materialista storico e orgogliosamente comunista) nella cui costellazione si iscrivono da subito non solo i classici (né si dimentichi che Dante è la sua prima stella fissa) ma, appunto, Pound, Brecht e Artaud come Marx, Freud, Groddeck e l'amatissimo Antonio Gramsci, cui ha dedicato alcune delle sue pagine più nette. Quella aperta dichiarazione di miscredenza sembra contraddire, dunque, l'altra non meno celebre dove il poeta rivendica di essere un chierico rosso. Ma si tratta, per lui, di una contraddizione necessaria. Il dato di necessità si deve al fatto che, rigettando la nozione di engagement, egli percepisce appena ventenne qualcosa che i futuri postmodernisti, suoi nemici giurati, avrebbero invece accettato con cinismo e falsa coscienza: sua è da subito la piena consapevolezza che Mercato e Museo alla fine si traguardano e, pertanto, non è più possibile una pratica dell'absolument moderne se non nei modi dello straniamento.
La poesia di Sanguineti si origina da tale gesto primordiale di critica, da una vera e propria tabula rasa il cui residuo è un paesaggio di rovine o insomma lo specchio allegorico del qui-e-ora neocapitalista: è la Palude Putrescente del nudo valore di scambio, l'archeologia che dissimula uno sterminato catalogo di merci. Perciò il suo ostinarsi a «non credere» equivale paradossalmente alla sola certezza tangibile: la parola innocente non esiste, ma può solo riscattarsi nel gesto che la illumina per quello che in effetti essa è, una solenne mistificazione ma, insieme, la chance di una sempre possibile negazione (quella che un tempo si chiamava, nel lessico marxista, la «negazione di una negazione»).
Oggi non occorre sottoscrivere i protocolli del Gruppo 63 per riconoscere tutto il rilievo di Laborintus ('56), poemetto giovanile che, senza essere il suo massimo esito poetico, rimane uno snodo essenziale del nostro Novecento, pari a uno scarto deragliante o a una permuta secca del paradigma. Fausto Curi, un grande studioso e suo compagno di via che gli ha dedicato pagine essenziali, non a caso rileva (in La poesia italiana nel Novecento, Laterza 1999) che Laborintus nella seconda metà del secolo ha una funzione simile a quella, nella prima metà, dell'Allegria ungarettiana. Dall'universo amniotico di Laborintus non è possibile comunque recedere, come fosse una pietra di paragone per i Novissimi e tutta l'area della sperimentazione ma anche una sponda polemica o un bersaglio utile agli autori di parte avversa (su tutti Pier Paolo Pasolini, che mantiene Sanguineti sempre nel suo sguardo e pubblica, ad esempio, Poesia in forma di rosa e Trasumanar e organizzar); scrive Curi, al riguardo: «Sanguineti si rende conto che la questione del rinnovamento della poesia riguarda in primo luogo il linguaggio ma, a differenza di altri, comprende che non di rinnovamento si tratta ma di crisi, e che la crisi è radicale, passa cioè per il linguaggio e in esso si manifesta, ma ha origine da una condizione che è esterna al linguaggio, e dunque esterna alla poesia». Ciò chiarisce l'impronta militante, alla lettera, di una produzione che davvero ha pochi eguali fra partiture saggistiche, prose d'invenzione, traduzioni (si pensi al Satyricon, a Baccanti di Euripide, alla Fedra di Seneca) nonché la lunga lista delle sue collaborazioni artistiche (da Enrico Baj a Luca Ronconi, da Stefano Scodanibbio a Carol Rama di cui è stata ultima testimonianza la splendida mostra genovese, a quattro mani, del 2008).
Ma ciò spiega soprattutto come da quel palinsesto giovanile e nichilista Edoardo Sanguineti abbia poi dedotto la voce che rimane sua e solo sua, la medesima che abita Postkarten ('78) e dintorni, uno dei libri certi del nostro dopoguerra, il diagramma personale di un chierico tardo marxista e inopinatamente gozzaniano alle prese con la normalità omicida del neocapitalismo, il referto lacerato e graffiato di un uomo che si trovi a navigare solo, suo malgrado, e a scontare la qualità dei tempi che gli sono dati.
Lì ci sono i suoi versi più indiziati, tuttora i più amati anche da chi sentiva di ammirarlo da lontano: «... moglie mia, figli miei: / il mio cuore è nero, peso 51 chili// ho messo la mia pelle / sopra i vostri bastoni: e già vi vedo agitarvi come vermi: adesso/ vi lascio cinque parole, e addio:// non ho creduto in niente://».
Non ho creduto in niente. Uno dei suoi versi più celebri, scritto quarant'anni fa e leggibile alla stregua di un virtuale testamento, può davvero colpire se lo si riferisce a quanto Edoardo Sanguineti rappresenta nel senso comune della nostra letteratura: cioè il poeta della Neoavanguardia, l'intellettuale materialista (anzi materialista storico e orgogliosamente comunista) nella cui costellazione si iscrivono da subito non solo i classici (né si dimentichi che Dante è la sua prima stella fissa) ma, appunto, Pound, Brecht e Artaud come Marx, Freud, Groddeck e l'amatissimo Antonio Gramsci, cui ha dedicato alcune delle sue pagine più nette. Quella aperta dichiarazione di miscredenza sembra contraddire, dunque, l'altra non meno celebre dove il poeta rivendica di essere un chierico rosso. Ma si tratta, per lui, di una contraddizione necessaria. Il dato di necessità si deve al fatto che, rigettando la nozione di engagement, egli percepisce appena ventenne qualcosa che i futuri postmodernisti, suoi nemici giurati, avrebbero invece accettato con cinismo e falsa coscienza: sua è da subito la piena consapevolezza che Mercato e Museo alla fine si traguardano e, pertanto, non è più possibile una pratica dell'absolument moderne se non nei modi dello straniamento.
La poesia di Sanguineti si origina da tale gesto primordiale di critica, da una vera e propria tabula rasa il cui residuo è un paesaggio di rovine o insomma lo specchio allegorico del qui-e-ora neocapitalista: è la Palude Putrescente del nudo valore di scambio, l'archeologia che dissimula uno sterminato catalogo di merci. Perciò il suo ostinarsi a «non credere» equivale paradossalmente alla sola certezza tangibile: la parola innocente non esiste, ma può solo riscattarsi nel gesto che la illumina per quello che in effetti essa è, una solenne mistificazione ma, insieme, la chance di una sempre possibile negazione (quella che un tempo si chiamava, nel lessico marxista, la «negazione di una negazione»).
Oggi non occorre sottoscrivere i protocolli del Gruppo 63 per riconoscere tutto il rilievo di Laborintus ('56), poemetto giovanile che, senza essere il suo massimo esito poetico, rimane uno snodo essenziale del nostro Novecento, pari a uno scarto deragliante o a una permuta secca del paradigma. Fausto Curi, un grande studioso e suo compagno di via che gli ha dedicato pagine essenziali, non a caso rileva (in La poesia italiana nel Novecento, Laterza 1999) che Laborintus nella seconda metà del secolo ha una funzione simile a quella, nella prima metà, dell'Allegria ungarettiana. Dall'universo amniotico di Laborintus non è possibile comunque recedere, come fosse una pietra di paragone per i Novissimi e tutta l'area della sperimentazione ma anche una sponda polemica o un bersaglio utile agli autori di parte avversa (su tutti Pier Paolo Pasolini, che mantiene Sanguineti sempre nel suo sguardo e pubblica, ad esempio, Poesia in forma di rosa e Trasumanar e organizzar); scrive Curi, al riguardo: «Sanguineti si rende conto che la questione del rinnovamento della poesia riguarda in primo luogo il linguaggio ma, a differenza di altri, comprende che non di rinnovamento si tratta ma di crisi, e che la crisi è radicale, passa cioè per il linguaggio e in esso si manifesta, ma ha origine da una condizione che è esterna al linguaggio, e dunque esterna alla poesia». Ciò chiarisce l'impronta militante, alla lettera, di una produzione che davvero ha pochi eguali fra partiture saggistiche, prose d'invenzione, traduzioni (si pensi al Satyricon, a Baccanti di Euripide, alla Fedra di Seneca) nonché la lunga lista delle sue collaborazioni artistiche (da Enrico Baj a Luca Ronconi, da Stefano Scodanibbio a Carol Rama di cui è stata ultima testimonianza la splendida mostra genovese, a quattro mani, del 2008).
Ma ciò spiega soprattutto come da quel palinsesto giovanile e nichilista Edoardo Sanguineti abbia poi dedotto la voce che rimane sua e solo sua, la medesima che abita Postkarten ('78) e dintorni, uno dei libri certi del nostro dopoguerra, il diagramma personale di un chierico tardo marxista e inopinatamente gozzaniano alle prese con la normalità omicida del neocapitalismo, il referto lacerato e graffiato di un uomo che si trovi a navigare solo, suo malgrado, e a scontare la qualità dei tempi che gli sono dati.
Lì ci sono i suoi versi più indiziati, tuttora i più amati anche da chi sentiva di ammirarlo da lontano: «... moglie mia, figli miei: / il mio cuore è nero, peso 51 chili// ho messo la mia pelle / sopra i vostri bastoni: e già vi vedo agitarvi come vermi: adesso/ vi lascio cinque parole, e addio:// non ho creduto in niente://».
«Il Manifesto» del 19 maggio 2010
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