Il cervello di chi cerca di fare tante cose nello stesso momento lavora male. L'esperimento di Jacobs
di Maria Laura Rodotà
Se avete almeno una volta fatto cadere il cellulare nel water, siete nella fascia alta. Se vi è capitato, è perché siete dei grandi multitasker. Un multitasker è qualcuno che fa molte cose contemporaneamente; secondo l’Urban Dictionary, «qualcuno che riesce ad ascoltare il suo iPod, leggere il giornale e rispondere al telefono mentre è in bagno». Appunto. Se siete Multitasker Supremi e il tuffo del cellulare è stato una conferma e un rito di passaggio, è possibile che siate donne. Le donne, che come è noto cercano di conciliare lavoro-figli-partner e anche senza uno o più tra i tre elementi trovano sempre vari modi di rovinarsi la vita, tendono al multitasking per cultura più che per natura. Attenzione, però: se siete donne e multitasker e vi diranno che siete stupide, non protestate. Secondo un recente studio della Stanford University, chi vi insulta potrebbe avere ragione. I ricercatori, guidati dal sociologo-matematico Clifford Nass, hanno condotto vari esperimenti su 100 studenti, tra multi-attivi e più tranquilli; e hanno concluso che il cervello dell’individuo multitasking lavora male.
Chi è continuamente bombardato da flussi di informazione (da telefono, computer, tv) e cerca di fare tante cose insieme è disattento/a, non riesce a concentrarsi né a utilizzare bene la memoria. E non riesce a distinguere gli elementi rilevanti da quelli rilevanti. Con risultati peggiori di quelli dei posapiano che fanno una cosa alla volta. La ricerca di Stanford sta proseguendo; per stabilire se i multitaskers ci sono o ci fanno. Ovvero: se sono nati con una minore capacità di concentrazione, o se facendo tante cose insieme danneggiano le loro abilità cognitive. Un giornalista-scrittore americano, A.J. Jacobs, ha preso sul serio la seconda ipotesi. Jacobs, noto per aver tratto libri da suo esperimenti estremi (ha letto tutta l’Enciclopedia Britannica; ha provato a vivere seguendo tutti i dettami della Bibbia) per la sua nuova operina in uscita tra qualche giorno, My Experimental Life, ha provato a vivere facendo sul serio una cosa alla volta. Gli umani contemporanei nel mondo avanzato non ci sono più abituati. All’inizio, Jacobs stava impazzendo. Perché per condurre una vita mono-tasking bisogna rinunciare al nostro modo di vivere, quello che ormai ci sembra naturale. Fin dall’inizio della giornata: niente più colazioni brevi e frenetiche, si fa il caffè mentre si accende il computer e si controllano le e-mail sullo smartphone, per dire. Niente cene familiari con la tv accesa. Niente telefonate mentre si legge, si cucina o si lavora. Niente lavoro con Internet acceso. Per settimane Jacobs lo disattivava, e poi si legava alla sedia tipo Vittorio Alfieri, e scriveva. Jacobs è andato oltre. Si è iscritto a un corso di meditazione, e fin qui pazienza. Poi, per focalizzarsi di più sulla mono-attività che stava compiendo, ha cominciato a parlare da solo. Anche nei negozi. In fila dal droghiere, diceva a nessuno in particolare «devo comprare una Diet Coke». E poi, guardandosi intorno, «vedo arance e banane» (Jacobs vive a Manhattan, dove la gente lascia in pace chi parla da solo).
La tecnica, spiega Jacobs, ha seri fondamenti scientifici. E letterari. Scrive Jacobs, «ho letto il discorso di David Foster Wallace (geniale scrittore americano, suicida nel 2008, ndr) al Kenyon College. E’ sul come decidiamo di pensare durante le banali attività di ogni giorno – fare la spesa, stare fermi nel traffico. Possiamo lasciare i nostri pensieri scorrere lasciando il cervello in default, venendo sopraffatti da rabbia, meschinità, orgoglio ferito, fantasie egoistiche. O possiamo coscientemente scegliere di esercitare un qualche controllo su come e cosa pensiamo». Cercando di finire una relazione-facendo i conti di casa-rispondendo al telefono-controllando legumi che cuociono-guardando con la coda dell’occhio la tv accesa sarebbe difficile, in effetti. Alla fine dell’esperimento, Jacobs è stato meglio. Riusciva a giocare con i suoi bambini senza controllare messaggi e e-mail, parlava con la mamma e gli amici tenendo gli occhi chiusi per sentire l’altro e approfondire il contatto, eccetera. Non ha smesso di essere un multitasker, ma «sono come un fumatore che è passato da tre pacchetti al giorno a mezza dozzina di sigarette». E già molto. Verrebbe da provarci, magari si diventa meno stupidi (oddio; questo articolo è stato scritto a tv spenta, con cellulare silenziato e lasciato in un’altra stanza, senza mai cliccare siti di notizie o vedere cosa succedeva su Facebook; ma non mi sembra meglio dei miei soliti, anzi; ci vuol tempo, è probabile).
Chi è continuamente bombardato da flussi di informazione (da telefono, computer, tv) e cerca di fare tante cose insieme è disattento/a, non riesce a concentrarsi né a utilizzare bene la memoria. E non riesce a distinguere gli elementi rilevanti da quelli rilevanti. Con risultati peggiori di quelli dei posapiano che fanno una cosa alla volta. La ricerca di Stanford sta proseguendo; per stabilire se i multitaskers ci sono o ci fanno. Ovvero: se sono nati con una minore capacità di concentrazione, o se facendo tante cose insieme danneggiano le loro abilità cognitive. Un giornalista-scrittore americano, A.J. Jacobs, ha preso sul serio la seconda ipotesi. Jacobs, noto per aver tratto libri da suo esperimenti estremi (ha letto tutta l’Enciclopedia Britannica; ha provato a vivere seguendo tutti i dettami della Bibbia) per la sua nuova operina in uscita tra qualche giorno, My Experimental Life, ha provato a vivere facendo sul serio una cosa alla volta. Gli umani contemporanei nel mondo avanzato non ci sono più abituati. All’inizio, Jacobs stava impazzendo. Perché per condurre una vita mono-tasking bisogna rinunciare al nostro modo di vivere, quello che ormai ci sembra naturale. Fin dall’inizio della giornata: niente più colazioni brevi e frenetiche, si fa il caffè mentre si accende il computer e si controllano le e-mail sullo smartphone, per dire. Niente cene familiari con la tv accesa. Niente telefonate mentre si legge, si cucina o si lavora. Niente lavoro con Internet acceso. Per settimane Jacobs lo disattivava, e poi si legava alla sedia tipo Vittorio Alfieri, e scriveva. Jacobs è andato oltre. Si è iscritto a un corso di meditazione, e fin qui pazienza. Poi, per focalizzarsi di più sulla mono-attività che stava compiendo, ha cominciato a parlare da solo. Anche nei negozi. In fila dal droghiere, diceva a nessuno in particolare «devo comprare una Diet Coke». E poi, guardandosi intorno, «vedo arance e banane» (Jacobs vive a Manhattan, dove la gente lascia in pace chi parla da solo).
La tecnica, spiega Jacobs, ha seri fondamenti scientifici. E letterari. Scrive Jacobs, «ho letto il discorso di David Foster Wallace (geniale scrittore americano, suicida nel 2008, ndr) al Kenyon College. E’ sul come decidiamo di pensare durante le banali attività di ogni giorno – fare la spesa, stare fermi nel traffico. Possiamo lasciare i nostri pensieri scorrere lasciando il cervello in default, venendo sopraffatti da rabbia, meschinità, orgoglio ferito, fantasie egoistiche. O possiamo coscientemente scegliere di esercitare un qualche controllo su come e cosa pensiamo». Cercando di finire una relazione-facendo i conti di casa-rispondendo al telefono-controllando legumi che cuociono-guardando con la coda dell’occhio la tv accesa sarebbe difficile, in effetti. Alla fine dell’esperimento, Jacobs è stato meglio. Riusciva a giocare con i suoi bambini senza controllare messaggi e e-mail, parlava con la mamma e gli amici tenendo gli occhi chiusi per sentire l’altro e approfondire il contatto, eccetera. Non ha smesso di essere un multitasker, ma «sono come un fumatore che è passato da tre pacchetti al giorno a mezza dozzina di sigarette». E già molto. Verrebbe da provarci, magari si diventa meno stupidi (oddio; questo articolo è stato scritto a tv spenta, con cellulare silenziato e lasciato in un’altra stanza, senza mai cliccare siti di notizie o vedere cosa succedeva su Facebook; ma non mi sembra meglio dei miei soliti, anzi; ci vuol tempo, è probabile).
«Corriere della Sera» del 23 maggio 2010
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