Campagne sulla rete e progetti alternativi
di Massimo Gaggi
E un film attacca il fondatore Zuckerberg, che si chiude nella sede californiana per fronteggiare la crisi
NEW YORK — Una marcia trionfale che improvvisamente diventa affannosa difesa di una fortezza assediata. E Mark Zuckerberg, il fondatore e padrone di Facebook, la rete sociale passata in appena cinque anni da zero a oltre 400 milioni di utenti, che cancella la vacanza ai Caraibi con la quale voleva festeggiare il suo 26esimo compleanno e si chiude nella sede californiana della sua azienda: un week end passato saltando da una riunione all’altra, per fronteggiare l’improvvisa crisi.
Quando a gennaio ha decretato la «fine dell’era della privacy» e poi ancora un mese fa, quando ha deciso di rendere pubblici in rete tutti i dati personali dei suoi utenti che non invocano esplicitamente e tempestivamente il diritto alla riservatezza, Zuckerberg era convinto che la filosofia della condivisione fosse penetrata nel mondo di Internet fino al punto di far passare quasi inosservato questo suo ultimo colpo di mano. Invece gli americani — la cui sensibilità per la «privacy» è sicuramente inferiore a quella degli europei — hanno reagito come ad una scossa elettrica, riscoprendo improvvisamente il valore della riservatezza.
Guru della rete e «blogger» sono stati i primi a denunciare che Facebook è stata spinta su questa strada da obiettivi di profitto, più che dalla logica «social» del suo servizio. Poi è arrivato l’intervento dei politici e delle «authority».
Lo stesso Zuckerberg, che non si accontenta di essere il più giovane miliardario d’America, ma — come i fondatori di Google — vuole anche essere amato e considerato una «forza del bene» dal popolo della rete, paga cara la sua spregiudicatezza proprio sul piano della vita privata, della sua « privacy » : in autunno uscirà The Social Network, un film sulla storia di Facebook prodotto da Kevin Spacey, che ritrae Mark come uno studente imbroglione con tendenze all’autismo e ossessionato dal sesso; un genietto che si mette a scrivere i codici-base della nuova rete per cercare di dimenticare una delusione amorosa.
Ma nelle ultime settimane, più che degli attacchi di Hollywood, Zuckerberg ha dovuto preoccuparsi della sollevazione del Congresso Usa e delle «authority» per la tutela dei dati personali di mezzo mondo, Europa in testa, che gli chiedono di fare marcia indietro. E intanto sulla rivista Wired Ryan Singel ha definito Facebook un’«azienda canaglia» che cambia in corsa le regole del gioco per fini di lucro. Ryan si è augurato che venga fuori qualche concorrente, più rispettoso di Facebook dei diritti degli utenti. Detto fatto: quattro studenti della New York University hanno raccolto in pochi giorni 150 mila dollari per il loro «progetto Diaspora » , un nuovo « social network» che nascerà in autunno e che promette di lasciare agli utenti il pieno controllo dei loro dati personali.
Intanto da vari angoli della rete arrivano gli inviti alla rivolta, ad abbandonare la rete sociale: il primo appello l’ha lanciato MoveOn.org, l’associazioni dei militanti della sinistra radicale Usa. Poi è toccato alla campagna di FacebookProtest.com che chiede agli internauti di abbandonare la rete di Zuckerberg entro il 6 giugno. Ora è la volta dell’offensiva di QuitFacebookDay.com: un sito — paradossalmente raggiungibile proprio attraverso Facebook — che invita gli utenti della rete sociale a cancellare il loro «account» il 31 maggio. Alle 22 di ieri (ora italiana) quelli che si erano impegnati a farlo erano 5230. Sono numeri che non dovrebbero preoccupare più di tanto una società che nel solo mese di maggio ha già «arruolato» altri 12 milioni di utenti in tutto il mondo.
Perché, allora, Zuckerberg si sente assediato? Intanto perché imovimenti nel «web» sono sempre imprevedibili. Lo è stata la crescita tumultuosa di Facebook, società creata da uno studente e gestita fino a ieri — come racconta David Kirkpatrick in The Facebook Effect, un libro che uscirà negli Usa ai primi di giugno — con spirito felicemente goliardico. Un’impresa che, tra intuizioni geniali e mosse spregiudicate, è arrivata quasi al punto di lanciare un «takeover» su Internet ai danni di Google e degli altri protagonisti della rete.
Ma i colpi di scena potrebbero non essere finiti. E i prossimi potrebbero andare in un’altra direzione: cinquemila che se ne vanno sono pochi, ma venerdì scorso erano cento e l’altro ieri mille. Tra essi, poi, ci sono molti «blogger» che fanno tendenza come Jason Rojas e Cory Doctorow.
Per adesso, però, Zuckerberg non molla: la possibilità degli utenti di difendere la propria «privacy» su Facebook rimane legata a laboriose procedure indicate da un regolamento che, come nota ironicamente il New York Times, è più lungo della Costituzione americana. Ieri, però, un portavoce ha detto che la società sta studiando a fondo il problema. Intanto sul mercato arrivano le applicazioni di «softwaristi» indipendenti che semplificano le procedure di tutela della «privacy»: per ora Facebook non le avalla. Ma nemmeno le condanna.
Quando a gennaio ha decretato la «fine dell’era della privacy» e poi ancora un mese fa, quando ha deciso di rendere pubblici in rete tutti i dati personali dei suoi utenti che non invocano esplicitamente e tempestivamente il diritto alla riservatezza, Zuckerberg era convinto che la filosofia della condivisione fosse penetrata nel mondo di Internet fino al punto di far passare quasi inosservato questo suo ultimo colpo di mano. Invece gli americani — la cui sensibilità per la «privacy» è sicuramente inferiore a quella degli europei — hanno reagito come ad una scossa elettrica, riscoprendo improvvisamente il valore della riservatezza.
Guru della rete e «blogger» sono stati i primi a denunciare che Facebook è stata spinta su questa strada da obiettivi di profitto, più che dalla logica «social» del suo servizio. Poi è arrivato l’intervento dei politici e delle «authority».
Lo stesso Zuckerberg, che non si accontenta di essere il più giovane miliardario d’America, ma — come i fondatori di Google — vuole anche essere amato e considerato una «forza del bene» dal popolo della rete, paga cara la sua spregiudicatezza proprio sul piano della vita privata, della sua « privacy » : in autunno uscirà The Social Network, un film sulla storia di Facebook prodotto da Kevin Spacey, che ritrae Mark come uno studente imbroglione con tendenze all’autismo e ossessionato dal sesso; un genietto che si mette a scrivere i codici-base della nuova rete per cercare di dimenticare una delusione amorosa.
Ma nelle ultime settimane, più che degli attacchi di Hollywood, Zuckerberg ha dovuto preoccuparsi della sollevazione del Congresso Usa e delle «authority» per la tutela dei dati personali di mezzo mondo, Europa in testa, che gli chiedono di fare marcia indietro. E intanto sulla rivista Wired Ryan Singel ha definito Facebook un’«azienda canaglia» che cambia in corsa le regole del gioco per fini di lucro. Ryan si è augurato che venga fuori qualche concorrente, più rispettoso di Facebook dei diritti degli utenti. Detto fatto: quattro studenti della New York University hanno raccolto in pochi giorni 150 mila dollari per il loro «progetto Diaspora » , un nuovo « social network» che nascerà in autunno e che promette di lasciare agli utenti il pieno controllo dei loro dati personali.
Intanto da vari angoli della rete arrivano gli inviti alla rivolta, ad abbandonare la rete sociale: il primo appello l’ha lanciato MoveOn.org, l’associazioni dei militanti della sinistra radicale Usa. Poi è toccato alla campagna di FacebookProtest.com che chiede agli internauti di abbandonare la rete di Zuckerberg entro il 6 giugno. Ora è la volta dell’offensiva di QuitFacebookDay.com: un sito — paradossalmente raggiungibile proprio attraverso Facebook — che invita gli utenti della rete sociale a cancellare il loro «account» il 31 maggio. Alle 22 di ieri (ora italiana) quelli che si erano impegnati a farlo erano 5230. Sono numeri che non dovrebbero preoccupare più di tanto una società che nel solo mese di maggio ha già «arruolato» altri 12 milioni di utenti in tutto il mondo.
Perché, allora, Zuckerberg si sente assediato? Intanto perché imovimenti nel «web» sono sempre imprevedibili. Lo è stata la crescita tumultuosa di Facebook, società creata da uno studente e gestita fino a ieri — come racconta David Kirkpatrick in The Facebook Effect, un libro che uscirà negli Usa ai primi di giugno — con spirito felicemente goliardico. Un’impresa che, tra intuizioni geniali e mosse spregiudicate, è arrivata quasi al punto di lanciare un «takeover» su Internet ai danni di Google e degli altri protagonisti della rete.
Ma i colpi di scena potrebbero non essere finiti. E i prossimi potrebbero andare in un’altra direzione: cinquemila che se ne vanno sono pochi, ma venerdì scorso erano cento e l’altro ieri mille. Tra essi, poi, ci sono molti «blogger» che fanno tendenza come Jason Rojas e Cory Doctorow.
Per adesso, però, Zuckerberg non molla: la possibilità degli utenti di difendere la propria «privacy» su Facebook rimane legata a laboriose procedure indicate da un regolamento che, come nota ironicamente il New York Times, è più lungo della Costituzione americana. Ieri, però, un portavoce ha detto che la società sta studiando a fondo il problema. Intanto sul mercato arrivano le applicazioni di «softwaristi» indipendenti che semplificano le procedure di tutela della «privacy»: per ora Facebook non le avalla. Ma nemmeno le condanna.
«Corriere della Sera» del 19 maggio 2010
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