Il sociologo Giuseppe Romano: «Internet e i social network sono spazi concreti, dove avvengono e si dicono cose vere Ecco perché anche lì è urgente educare alla responsabilità»
di Viviana Daloiso
Credere che ciò che accade su Facebook, e in generale in Rete, non sia realtà. Non rendersi conto che tutto quello che viene messo in comune, 'condiviso', diventa pubblico, assumendo un significato diverso e più ampio, sociale. La radice dei due drammatici casi di cronaca di ieri va ricercata nell’inconsapevolezza circa il peso di ciò che avviene online. Un dato che troppo spesso, secondo il sociologo Giuseppe Romano, accomuna giovani e adulti.
Professore, Facebook è entrato – anche se in modi diversi – nei due gesti estremi compiuti dai giovani di Genova e di San Donà di Piave. Una coincidenza?
Ovviamente no. Anzi, a dire il vero mi sembra che i due fatti siano accomunati dalla stessa problematica: non abbiamo ancora capito che ciò che succede in Rete, ciò che si dice, si ascolta, si discute su Facebook – e sui social network in generale – è realtà.
Cosa intende dire esattamente?
Si parla ancora di 'realtà virtuale', come se ciò che accade online fosse astratto, leggero, come se la Rete fosse un luogo sovranazionale in cui non esistono leggi o responsabilità. Il ragazzo di Genova, per esempio, è arrivato a tentare il suicidio perché con evidenza non pensava che il suo gesto, riportato su Facebook, potesse avere simili conseguenze nella realtà. Mentre a San Donà di Piave l’altro ragazzo ha urlato il suo dolore online, ma evidentemente nessuno ha pensato che si trattasse di un grido reale, qualcosa che potesse avere conseguenze vere, nella vita concreta.
È in questo cortocircuito che trovano spazio, dunque, tragedie simili?
Sì. E ovviamente in quello che il cortocircuito genera: se infatti non viene riconosciuta a Internet la sua potenzialità reale, la sua dimensione sociale concreta, non si riconosce nemmeno l’importanza di quelle regole di civiltà e di responsabilità che in ogni contesto sociale e di relazioni debbono esistere. In questo senso, purtroppo, Facebook è rimasto proprio fermo a quello che significa il suo nome: un 'libro-faccia', in cui si spiattellano informazioni, gossip, segreti ma in cui non esiste un’interazione matura, in cui non c’è ombra di umanità e di rispetto.
Cosa fare, dunque, per prevenire gesti estremi?
Capire, noi adulti per primi, che ciò che avviene online ha un’eco reale oltre che tecnologico. E poi insegnarlo ai ragazzi, spiegando anche che non è più 'mio' quello che metto in comune. Anche l’aspetto pubblico di ciò che avviene in Rete troppo spesso viene sottovalutato: con evidenza non esiste più un’area di gioco o di azione privata, ciò che si dice viene ripetuto, tutti ne parlano, tutti lo ascoltano o – come drammaticamente nel caso veneto – nessuno lo ascolta. Ma di nuovo sta lì, nella piazza della realtà, e come tale ha un peso.
Professore, Facebook è entrato – anche se in modi diversi – nei due gesti estremi compiuti dai giovani di Genova e di San Donà di Piave. Una coincidenza?
Ovviamente no. Anzi, a dire il vero mi sembra che i due fatti siano accomunati dalla stessa problematica: non abbiamo ancora capito che ciò che succede in Rete, ciò che si dice, si ascolta, si discute su Facebook – e sui social network in generale – è realtà.
Cosa intende dire esattamente?
Si parla ancora di 'realtà virtuale', come se ciò che accade online fosse astratto, leggero, come se la Rete fosse un luogo sovranazionale in cui non esistono leggi o responsabilità. Il ragazzo di Genova, per esempio, è arrivato a tentare il suicidio perché con evidenza non pensava che il suo gesto, riportato su Facebook, potesse avere simili conseguenze nella realtà. Mentre a San Donà di Piave l’altro ragazzo ha urlato il suo dolore online, ma evidentemente nessuno ha pensato che si trattasse di un grido reale, qualcosa che potesse avere conseguenze vere, nella vita concreta.
È in questo cortocircuito che trovano spazio, dunque, tragedie simili?
Sì. E ovviamente in quello che il cortocircuito genera: se infatti non viene riconosciuta a Internet la sua potenzialità reale, la sua dimensione sociale concreta, non si riconosce nemmeno l’importanza di quelle regole di civiltà e di responsabilità che in ogni contesto sociale e di relazioni debbono esistere. In questo senso, purtroppo, Facebook è rimasto proprio fermo a quello che significa il suo nome: un 'libro-faccia', in cui si spiattellano informazioni, gossip, segreti ma in cui non esiste un’interazione matura, in cui non c’è ombra di umanità e di rispetto.
Cosa fare, dunque, per prevenire gesti estremi?
Capire, noi adulti per primi, che ciò che avviene online ha un’eco reale oltre che tecnologico. E poi insegnarlo ai ragazzi, spiegando anche che non è più 'mio' quello che metto in comune. Anche l’aspetto pubblico di ciò che avviene in Rete troppo spesso viene sottovalutato: con evidenza non esiste più un’area di gioco o di azione privata, ciò che si dice viene ripetuto, tutti ne parlano, tutti lo ascoltano o – come drammaticamente nel caso veneto – nessuno lo ascolta. Ma di nuovo sta lì, nella piazza della realtà, e come tale ha un peso.
«Avvenire» del 22 maggio 2010
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