Un numero crescente di persone e governi si schiera contro il sito più popolare del mondo. Perché dietro un'apparenza innocua si cela un business miliardario. E c'è chi si chiede se siamo di fronte a un Grande fratello
di Vittorio Zucconi
Ha un volto, anzi, una face, allegro e accattivante il possibile, nuovo “Grande Fratello” orwelliano, ma in molti cominciano a intravedere un ghigno dietro il sorriso innocente e vogliono dichiarargli guerra. Che si tratti di paranoia da complottisti incurabili, di invidia, di semplice effetto collaterale del mostruoso successo di Mark Zuckeberg l’i nventore, il risultato è ormai sotto il miliardo di occhi che nel mondo la guardano: Facebook, la rete sociale che raccoglie almeno 500 milioni di amici virtuali attraverso il pianeta per scambiarsi, tenere foto di neonati, meno tenere immagini di sé ignudi, messaggi di propaganda politica e sempre più commerciali, è in guerra.
È in guerra con sé stessa, con gli utenti agitati dall'invasione massiccia e crescente della loro privacy, con qualche governo suscettibile, come quello pachistano che ora l'ha bloccata per le immancabili "vignette blasfeme" contro il Profeta, con l'universo dei tecchies, dei grandi smanettatori di Internet sui loro blog frementi e ora pure con Hollywood, che sta finendo di produrre il primo kolossal di denuncia e di critica su Facebook: si chiamerà appunto Social Network, ma senza lieto fine. Dal "grande amico di tastiera", qual era ancora cinque anni or sono quando partì il boom, rischia di trasformarsi nella nuova edizione del Big Brother orwelliano.
Il clima giocoso e innocente da scampagnata su banda larga e da riunione fra i diplomati del liceo classe 1990 sta lentamente intossicandosi in un'atmosfera di sospetto reciproco e collettivo, nel dubbio che quell'entusiastica cessione dei particolari privati della propria vita sia il cavallo di Troia attraverso il quale gli "apostoli" della rete sociale invadano l'esistenza dei cosiddetti "amici" per venderli al miglior offerente. Non amici, ma merce di scambio. Facebook, dietro la faccia, è un'impresa commerciale a fini di lucro, di molto lucro, che ha già attirato sostanziosi investimenti anche dai russi, che hanno pagato 200 milioni di dollari per acquistare l'1,9 per cento della società, dopo che Microsoft, il "grande fratello" dei computer d'altri tempi, aveva già staccato un assegno per 240 milioni. Le stime di reddito per l'anno in corso, ancora anno "di crisi", arrivano a un miliardo e mezzo di dollari, mentre il valore complessivo di mercato, quando nel 2011 Zuckerberg la dovrebbe portare a Wall Street, arrivano al totale siderale di 15 miliardi.
Se si leggono gli articoli sui grandi media di carta, anche facendo la tara all'invidia che le testate tradizionali boccheggiati provano per questi nuove onnivore creature, come il New York Times e il Wall Street Journal, ma anche su blog e sulle riviste specializzate nelle nuove tecnologie come PCWorld o sul sito Cnet, si ha l'impressione che Zuckerberg, lo studente di Harvard che inventò il concetto del social network per spezzare la noia mortifera e la solitudine dei dormitori universitari si stia "morfizzando" nella reincarnazione del grande nemico degli anni '80 e '90, Bill Gates. Personaggio non gradevolissimo, e lontano le mille miglia dalla astuta mistica "zen" di Steve Jobs o dalla leggenda di Brin e Page, i due studenti che crearono Google, Zuckerberg è descritto nella biografia non autorizzata e invano aggredita dagli apostoli di Facebook, che ha formato il copione del film in produzione, come un avido, egocentrico, insaziabile affarista teso a sfruttare fino all'ultimo dettaglio il successo della sua creature. Un profilo che si potrebbe facilmente applicare a dozzine di Ceo, di presidenti proprietari di molte aziende di successo, non noti per il loro fraterno ecumenismo. Il motto americano secondo il quale "nice guys finish last", le persone gentili arrivano ultime, non è mai passato di moda.
Ma ai frequentatori e ai fedeli, poco importa, o importava, se il patron della loro chiesa fosse un egolatra antipatico o un piacevole mattacchione. Interessava che Facebook offrisse, al più oscuro adolescente foruncoloso in una roulotte nel Nebraska ai leader politici come Hillary Clinton o Silvio Berlusconi approdato anche lui - almeno in nome - sul libro delle facce, la vertigine della comunicazione e del rapporto con il resto del mondo fisicamente irraggiungibile. Molti, se non tutti, erano disposti a pagare il prezzo di questa rottura dall'assedio dell'isolamento o dalla fatica della comunicazione tradizionale, con quale cessione di riservatezza, sedotti dall'ovvio elemento di esibizionismo e di protagonismo (le migliaia di "amici" che mi cercano) che offriva. Ma è il prezzo che comincia a diventare troppo alto. A pretendere una resa sempre più totale della propria identità, della propria vita, della propria privacy e in un mondo impalpabile, come Internet, ma dotato di una memoria totale.
Nulla sarà mai davvero dimenticato o cancellato, in Rete, non la spiritosa foto dell'orgetta per l'addio al celibato, non la frase audace diretta all'amico di banda larga in India o a Malta. È nato anche l'inevitabile acronimo, vizio americano, il TMI, che sta per "Too Much Information" e su questo eccesso è scoppiata la guerra di Facebook. Pretende troppi dettagli, troppe notizie private, troppe informazioni in cambio della vertigine dell'"amicizia" e della "comunicazione", ha scritto uno dei quotidiani che vegliano sul mondo di chips e bytes, il californiano San Josè Mercury. Troppo ficcanaso questo libro dei volti, dove la sonda scava sempre più in profondità nell'iscritto per mettere sempre meglio a fuoco il cliente, le sue abitudini, i suoi gusti e dunque venderlo a un maggior profitto ai commercianti che vogliono mirare con precisione il proprio messaggio, anziché buttarlo a pioggia. Facebook è un "work in progress", un meccanismo, un programma che evolve ogni giorno e che fa dei propri "amici" di fatto le cavie sulle quali sperimentare i continui cambiamenti, per vedere quali funzionino e quali vadano abbandonati. Tutti sono insieme partecipanti e porcellini d'India, nel più grande laboratorio del mondo.
Quando ha introdotto in questi giorni un nuovo gimmick, chiamato "personalizzazione istantanea" al momento di iscriversi, organizzazioni politicamente influenti come MoveOn, che tanta parte ebbe nel mobilitare gli elettori per Obama nel 2008, e singoli commentatori da Silicon Valley sono scattati in piedi, accusandola di "subdolo attacco alla privacy", dietro le carinerie superficiali e le vanità dei fedeli. La controffensiva di Facebook, dopo alcune repliche stizzite e molto nel carattere del fondatore a chi osava criticare il nuovo Moloch di Internet, si è manifestata nella promessa di rendere più facile la difesa della privacy per gli iscritti e nello sfornare una nuova, gigantesca edizione della propria "politica della riservatezza", che ha raggiunto quest'anno le 5830 parole, 23 pagine, più della Costituzione americana. Promesse abbondano, ora, perché l'armata di Zuckerberg ha paura, sa che questa di passare dal campo dei "buoni", a quello dei "cattivi" è una minaccia seria per la propria chiesa.
Ad ascoltare i portavoce e gli addetti alle pubbliche relazioni di Facebook, che sono moltissimi, forse in proporzione diretta agli attacchi, questa "guerra" è una pura invenzione dei media e del bloggers e degli invidiosi, alla ricerca di qualche incrinatura nella corazza e certamente i casi shock come quelli dell'insegnante inglese Emma Jones, suicida dopo avere scoperto vecchie foto di lei completamente nuda messe in rete dall'ex fidanzato, sono tragedie rare e troppo aneddottiche per tirarne generalizzazioni. Ma il conflitto fra la caccia a sempre maggiori informazioni personali da sfruttare commercialmente e il timore di denudare la propria anima, prima ancora che il proprio corpo, davanti a un miliardi di occhi è inevitabile. Sono nati già almeno tre siti che offrono programmi semplici per limitare l'invadenza di Facebook, ma il vero motore che muove questo nuovo impero sarà difficile da bloccare, perché non è l'ingordigia di Mark o l'invadenza del Grande Fratelli. Sono coloro che si offrono al rischio e misurano il proprio valore dal numero di "amici" che riescono a reclutare. E non esiste un programma di computer che possa proteggere gli uomini da loro stessi.
È in guerra con sé stessa, con gli utenti agitati dall'invasione massiccia e crescente della loro privacy, con qualche governo suscettibile, come quello pachistano che ora l'ha bloccata per le immancabili "vignette blasfeme" contro il Profeta, con l'universo dei tecchies, dei grandi smanettatori di Internet sui loro blog frementi e ora pure con Hollywood, che sta finendo di produrre il primo kolossal di denuncia e di critica su Facebook: si chiamerà appunto Social Network, ma senza lieto fine. Dal "grande amico di tastiera", qual era ancora cinque anni or sono quando partì il boom, rischia di trasformarsi nella nuova edizione del Big Brother orwelliano.
Il clima giocoso e innocente da scampagnata su banda larga e da riunione fra i diplomati del liceo classe 1990 sta lentamente intossicandosi in un'atmosfera di sospetto reciproco e collettivo, nel dubbio che quell'entusiastica cessione dei particolari privati della propria vita sia il cavallo di Troia attraverso il quale gli "apostoli" della rete sociale invadano l'esistenza dei cosiddetti "amici" per venderli al miglior offerente. Non amici, ma merce di scambio. Facebook, dietro la faccia, è un'impresa commerciale a fini di lucro, di molto lucro, che ha già attirato sostanziosi investimenti anche dai russi, che hanno pagato 200 milioni di dollari per acquistare l'1,9 per cento della società, dopo che Microsoft, il "grande fratello" dei computer d'altri tempi, aveva già staccato un assegno per 240 milioni. Le stime di reddito per l'anno in corso, ancora anno "di crisi", arrivano a un miliardo e mezzo di dollari, mentre il valore complessivo di mercato, quando nel 2011 Zuckerberg la dovrebbe portare a Wall Street, arrivano al totale siderale di 15 miliardi.
Se si leggono gli articoli sui grandi media di carta, anche facendo la tara all'invidia che le testate tradizionali boccheggiati provano per questi nuove onnivore creature, come il New York Times e il Wall Street Journal, ma anche su blog e sulle riviste specializzate nelle nuove tecnologie come PCWorld o sul sito Cnet, si ha l'impressione che Zuckerberg, lo studente di Harvard che inventò il concetto del social network per spezzare la noia mortifera e la solitudine dei dormitori universitari si stia "morfizzando" nella reincarnazione del grande nemico degli anni '80 e '90, Bill Gates. Personaggio non gradevolissimo, e lontano le mille miglia dalla astuta mistica "zen" di Steve Jobs o dalla leggenda di Brin e Page, i due studenti che crearono Google, Zuckerberg è descritto nella biografia non autorizzata e invano aggredita dagli apostoli di Facebook, che ha formato il copione del film in produzione, come un avido, egocentrico, insaziabile affarista teso a sfruttare fino all'ultimo dettaglio il successo della sua creature. Un profilo che si potrebbe facilmente applicare a dozzine di Ceo, di presidenti proprietari di molte aziende di successo, non noti per il loro fraterno ecumenismo. Il motto americano secondo il quale "nice guys finish last", le persone gentili arrivano ultime, non è mai passato di moda.
Ma ai frequentatori e ai fedeli, poco importa, o importava, se il patron della loro chiesa fosse un egolatra antipatico o un piacevole mattacchione. Interessava che Facebook offrisse, al più oscuro adolescente foruncoloso in una roulotte nel Nebraska ai leader politici come Hillary Clinton o Silvio Berlusconi approdato anche lui - almeno in nome - sul libro delle facce, la vertigine della comunicazione e del rapporto con il resto del mondo fisicamente irraggiungibile. Molti, se non tutti, erano disposti a pagare il prezzo di questa rottura dall'assedio dell'isolamento o dalla fatica della comunicazione tradizionale, con quale cessione di riservatezza, sedotti dall'ovvio elemento di esibizionismo e di protagonismo (le migliaia di "amici" che mi cercano) che offriva. Ma è il prezzo che comincia a diventare troppo alto. A pretendere una resa sempre più totale della propria identità, della propria vita, della propria privacy e in un mondo impalpabile, come Internet, ma dotato di una memoria totale.
Nulla sarà mai davvero dimenticato o cancellato, in Rete, non la spiritosa foto dell'orgetta per l'addio al celibato, non la frase audace diretta all'amico di banda larga in India o a Malta. È nato anche l'inevitabile acronimo, vizio americano, il TMI, che sta per "Too Much Information" e su questo eccesso è scoppiata la guerra di Facebook. Pretende troppi dettagli, troppe notizie private, troppe informazioni in cambio della vertigine dell'"amicizia" e della "comunicazione", ha scritto uno dei quotidiani che vegliano sul mondo di chips e bytes, il californiano San Josè Mercury. Troppo ficcanaso questo libro dei volti, dove la sonda scava sempre più in profondità nell'iscritto per mettere sempre meglio a fuoco il cliente, le sue abitudini, i suoi gusti e dunque venderlo a un maggior profitto ai commercianti che vogliono mirare con precisione il proprio messaggio, anziché buttarlo a pioggia. Facebook è un "work in progress", un meccanismo, un programma che evolve ogni giorno e che fa dei propri "amici" di fatto le cavie sulle quali sperimentare i continui cambiamenti, per vedere quali funzionino e quali vadano abbandonati. Tutti sono insieme partecipanti e porcellini d'India, nel più grande laboratorio del mondo.
Quando ha introdotto in questi giorni un nuovo gimmick, chiamato "personalizzazione istantanea" al momento di iscriversi, organizzazioni politicamente influenti come MoveOn, che tanta parte ebbe nel mobilitare gli elettori per Obama nel 2008, e singoli commentatori da Silicon Valley sono scattati in piedi, accusandola di "subdolo attacco alla privacy", dietro le carinerie superficiali e le vanità dei fedeli. La controffensiva di Facebook, dopo alcune repliche stizzite e molto nel carattere del fondatore a chi osava criticare il nuovo Moloch di Internet, si è manifestata nella promessa di rendere più facile la difesa della privacy per gli iscritti e nello sfornare una nuova, gigantesca edizione della propria "politica della riservatezza", che ha raggiunto quest'anno le 5830 parole, 23 pagine, più della Costituzione americana. Promesse abbondano, ora, perché l'armata di Zuckerberg ha paura, sa che questa di passare dal campo dei "buoni", a quello dei "cattivi" è una minaccia seria per la propria chiesa.
Ad ascoltare i portavoce e gli addetti alle pubbliche relazioni di Facebook, che sono moltissimi, forse in proporzione diretta agli attacchi, questa "guerra" è una pura invenzione dei media e del bloggers e degli invidiosi, alla ricerca di qualche incrinatura nella corazza e certamente i casi shock come quelli dell'insegnante inglese Emma Jones, suicida dopo avere scoperto vecchie foto di lei completamente nuda messe in rete dall'ex fidanzato, sono tragedie rare e troppo aneddottiche per tirarne generalizzazioni. Ma il conflitto fra la caccia a sempre maggiori informazioni personali da sfruttare commercialmente e il timore di denudare la propria anima, prima ancora che il proprio corpo, davanti a un miliardi di occhi è inevitabile. Sono nati già almeno tre siti che offrono programmi semplici per limitare l'invadenza di Facebook, ma il vero motore che muove questo nuovo impero sarà difficile da bloccare, perché non è l'ingordigia di Mark o l'invadenza del Grande Fratelli. Sono coloro che si offrono al rischio e misurano il proprio valore dal numero di "amici" che riescono a reclutare. E non esiste un programma di computer che possa proteggere gli uomini da loro stessi.
«La repubblica» del 21 maggio 2010
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