Vuol dimostrare che la vocazione cattolica è affermare l’egemonia su tutti gli uomini, non solo sui fedeli Però tace sui contenuti veri del relativismo
di Carlo Cardia
Il saggio di Gustavo Zagrebelsky Scambiarsi la veste (Laterza) è molto colto, e molto «italiano». Molto colto, perché le citazioni sono selezionate e preziose, molto italiano perché non fuoriesce da alcuni stereotipi in auge nel nostro Paese quando si parla di rapporti tra Stato e Chiesa. In un veloce excursus storico, la Chiesa è presentata intenta ad imporsi sugli altri, perché detentrice di una verità che essa reputa universale, quindi egemonica verso tutti gli uomini. L’autore rivela la sua tesi di fondo quando afferma che l’affrancamento delle forme di vita politico-sociale dalle loro originarie matrici religiose sembra (di recente) essersi fermato, e le concezioni dell’uomo metafisicamente orientate, invece di essere relegate nel campo dell’esperienza morale individuale, irrilevante nella sfera pubblica, appaiono oggi protagoniste di una nuova fase nella quale la politica e gli Stati sono alla ricerca di una legittimazione etica più profonda che non sia quella esclusivamente rappresentativa. Il saggio tende a dimostrare che, tranne qualche passaggio storico (l’apertura di Leone XIII sulla questione sociale, il Concilio Vaticano II) con cui la Chiesa si è aperta alla tematica dei diritti e al pluralismo religioso e culturale della modernità, per il resto la vocazione stessa del cattolicesimo è diretta ad affermare l’egemonia su tutti gli uomini, non solo sui suoi fedeli. La caduta più grave della Chiesa, poi, si registrerebbe oggi nel tentativo di identificare il messaggio di fede con la ragione, così riproponendo in altra forma la volontà di vincolare alle proprie direttive tutti gli uomini, in quanto dotati di ragione. Ne deriva l’inevitabilità di nuovi conflitti perché «la ragione pubblica è incompatibile con qualunque posizione particolare che pretenda di possedere a priori l’'intera verità' e quindi d’imporsi a questa. La ragione pubblica è compatibile soltanto con le ragioni che si prestano a essere discusse, confrontate e valutare le une rispetto alle altre». Nei fatti, la denuncia del relativismo spinge la Chiesa addirittura al recupero del «principio dell’extra Ecclesia nulla salus, con tutta la sua portata d’intolleranza e la naturale tendenza della religione a farsi religione di Stato». In un passaggio Zagrebelsky cerca di entrare nel merito del relativismo contemporaneo affermando che questo «non esclude affatto il richiamo alla 'vita buona'. Non significa affatto che 'i relativisti' siano privi di tensione morale e siano esposti alla pura forza delle 'voglie'. Ma la risposta a questo richiamo etico sta per loro nel quadro della libertà e della responsabilità, non in quello dell’obbedienza a qualsivoglia autorità, civile o religiosa». Per il resto, tutto l’argomentare sulla Chiesa e sulla polis si svolge a un livello di astrattezza a-storica ammirevole e inquietante insieme. Da Gelasio I a Gregorio VII, dalla potestas indirecta in temporalibus alla reazione anti-moderna, la storia della Chiesa è sostanzialmente una storia di temporalismo e di sostituzione al ruolo dello Stato (scambiarsi le vesti) per comandare sulle coscienza degli uomini. Così, ogni forma di storicizzazione, che guardi al processo di civilizzazione e spiritualizzazione del cristianesimo verso l’Europa e alla elaborazione di valori che si sono diffusi in tutto il mondo, è semplicemente ignorata. Anche il passo evangelico del «date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio» viene svilito come segmento quasi insignificante, invece che una svolta epocale nei riguardi della società antica in cui sacro e profano era un tutt’uno, nell’orizzonte di un paganesimo nel quale mancava la spinta a guardare in alto e vedere nell’uomo il protagonista del proprio destino. Infine, l’ecclesiologia più recente negherebbe l’autonomia della sfera civile e la libera determinazione della persona, proprio quando la Chiesa offre i fondamenti razionali (e ragionevoli) dei propri orientamenti su questioni essenziali per il futuro dell’uomo. Il relativismo è citato senza dir nulla sui problemi veri che sono oggetto di critica del magistero ecclesiastico: la caduta del valore della vita, nascente e terminale, le legislazioni sul suicidio assistito, la mancanza di sostegno a favore di chi potrebbe rifiutare l’aborto, la legittimazione di forme di convivenza che neanche la classicità ammetteva o ipotizzava, e via di seguito. Sta forse nelle sue reticenze storiche, e nel silenzio sui contenuti veri del relativismo, la debolezza di un saggio che si legge molto bene ma non aiuta a comprendere i termini dell’affascinante rapporto tra religione e storia, diritti individuali e principio di solidarietà, che accompagna il cammino dell’uomo da sempre, con difficoltà, tensioni, anche errori, ma che ha costruito una società tuttora debitrice di quelle radici cristiane che nessuno riesce a scalfire, neanche mettendole tra parentesi.
«Avvenire» del 26 maggio 2010
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