di Erri De Luca
Chi legge da cima a fondo la scrittura sacra, Antico e Nuovo Testamento, si accorge di quanti fallimenti affronta la divinità con la creatura umana.
Comincia subito, già dal momento che inventa la formula per fare l’Adàm, una manciata di polvere del suolo e un soffio suo. Il prototipo è instabile, decide di affiancargli una compagnia, estraendogliela dal fianco. È un perfezionamento, come si legge :«E costruì Iod Elohìm il fianco che prese dall’Adàm» (Genesi/Bereshit 3 ,22). Il magnifico verbo costruire dimostra l’intenzione di elaborare la materia imperfetta del corpo di partenza. Fin dall’inizio la donna ha un contrassegno di fabbrica più qualificato. Comincia il primo fiasco, la coppia non si attiene ai limiti, attinge al frutto della conoscenza del bene e del male e si ritrova nuda.
Nessuna specie animale sa di essere nuda, ecco che i due non appartengono più al resto della natura. In cambio della conoscenza si sono snaturati dal resto delle specie viventi. Da loro in poi la divinità si misura con il guazzabuglio di bene e male, nel tentativo di guidare la loro condotta. Fallisce continuamente nell’impresa e con superiore oltranza ci riprova. Tutta la scrittura sacra si può leggere come il resoconto dell’ostinazione divina a correggere la specie umana. Non si rassegna alla slealtà, ai tradimenti, alle abiure. Ogni volta va pescare nel mazzo di una generazione empia, l’unico esempio integro sul quale fondare una nuova alleanza, dopo i frantumi della precedente. È così da Noè in poi. Fossi credente, chiederei alla divinità, napoletanamente: «Chi t’o fa fa’?», chi te lo fa fare? Da non credente posso solo cercare la risposta in qualche rigo della scrittura sacra. Isaia, miglior poeta dei profeti, rinfaccia alla divinità il difetto di fabbrica, del quale è responsabile: «Noi siamo l’argilla e tu il nostro artefice e opera di tua mano tutti noi» (64,7). Lo chiama Padre Nostro ma in senso accusativo, perché porta responsabilità di noi. Gli ricorda con termine legale di essere «nostro riscattatore», che è il membro di una famiglia in dovere di riscattare un parente caduto in schiavitù. Chi legge la scrittura sacra da cima a fondo si accorge dell’intimità brusca, perfino sconveniente, senza cerimonie, tra creatura e creatore. Il pronome 'tu' rimbalza tra loro due, fonda la loro burrascosa relazione sentimentale fondata sulla più potente energia del corpo umano, l’amore. La divinità esige prepotentemente di essere amata: «E amerai Iod tuo Elohìm in tutto il tuo cuore e in tutto il tuo fiato e in tutte le tue forze» (Deuteronomio/Devarìm 6 ,5). Chiede la totalità dell’energia amorosa perché sa che solo il più completo svuotamento, senza risparmio, permette a quell’energia di ricostituirsi e aumentare. Chi trattiene amore lo spreca, come chi conserva la manna, che va consumata in giornata perché il giorno dopo marcisce. Da lettore ho fatto un salto sulla sedia quando Mosè, dopo la fabbrica del vitello d’oro, mette il suo corpo a sbarramento tra lui e l’intenzione della divinità di distruggere Israele: «E adesso solleverai il loro torto o cancellami dal tuo libro che hai scritto» (Esodo/Shmot 32, 32). Il torto commesso è un peso che va sollevato altrimenti schiaccia. E spetta alla divinità l’infinito esercizio di sollevamento pesi dei torti commessi dalla specie umana. Nel tempo narrato dalla scrittura sacra c’era un Mosè che si metteva in mezzo. Ma la scrittura sacra smette e a chi legge resta la curiosità di sapere come va a finire questa partita doppia circa il bene e il male, tra la divinità e la sua creatura snaturata.
Comincia subito, già dal momento che inventa la formula per fare l’Adàm, una manciata di polvere del suolo e un soffio suo. Il prototipo è instabile, decide di affiancargli una compagnia, estraendogliela dal fianco. È un perfezionamento, come si legge :«E costruì Iod Elohìm il fianco che prese dall’Adàm» (Genesi/Bereshit 3 ,22). Il magnifico verbo costruire dimostra l’intenzione di elaborare la materia imperfetta del corpo di partenza. Fin dall’inizio la donna ha un contrassegno di fabbrica più qualificato. Comincia il primo fiasco, la coppia non si attiene ai limiti, attinge al frutto della conoscenza del bene e del male e si ritrova nuda.
Nessuna specie animale sa di essere nuda, ecco che i due non appartengono più al resto della natura. In cambio della conoscenza si sono snaturati dal resto delle specie viventi. Da loro in poi la divinità si misura con il guazzabuglio di bene e male, nel tentativo di guidare la loro condotta. Fallisce continuamente nell’impresa e con superiore oltranza ci riprova. Tutta la scrittura sacra si può leggere come il resoconto dell’ostinazione divina a correggere la specie umana. Non si rassegna alla slealtà, ai tradimenti, alle abiure. Ogni volta va pescare nel mazzo di una generazione empia, l’unico esempio integro sul quale fondare una nuova alleanza, dopo i frantumi della precedente. È così da Noè in poi. Fossi credente, chiederei alla divinità, napoletanamente: «Chi t’o fa fa’?», chi te lo fa fare? Da non credente posso solo cercare la risposta in qualche rigo della scrittura sacra. Isaia, miglior poeta dei profeti, rinfaccia alla divinità il difetto di fabbrica, del quale è responsabile: «Noi siamo l’argilla e tu il nostro artefice e opera di tua mano tutti noi» (64,7). Lo chiama Padre Nostro ma in senso accusativo, perché porta responsabilità di noi. Gli ricorda con termine legale di essere «nostro riscattatore», che è il membro di una famiglia in dovere di riscattare un parente caduto in schiavitù. Chi legge la scrittura sacra da cima a fondo si accorge dell’intimità brusca, perfino sconveniente, senza cerimonie, tra creatura e creatore. Il pronome 'tu' rimbalza tra loro due, fonda la loro burrascosa relazione sentimentale fondata sulla più potente energia del corpo umano, l’amore. La divinità esige prepotentemente di essere amata: «E amerai Iod tuo Elohìm in tutto il tuo cuore e in tutto il tuo fiato e in tutte le tue forze» (Deuteronomio/Devarìm 6 ,5). Chiede la totalità dell’energia amorosa perché sa che solo il più completo svuotamento, senza risparmio, permette a quell’energia di ricostituirsi e aumentare. Chi trattiene amore lo spreca, come chi conserva la manna, che va consumata in giornata perché il giorno dopo marcisce. Da lettore ho fatto un salto sulla sedia quando Mosè, dopo la fabbrica del vitello d’oro, mette il suo corpo a sbarramento tra lui e l’intenzione della divinità di distruggere Israele: «E adesso solleverai il loro torto o cancellami dal tuo libro che hai scritto» (Esodo/Shmot 32, 32). Il torto commesso è un peso che va sollevato altrimenti schiaccia. E spetta alla divinità l’infinito esercizio di sollevamento pesi dei torti commessi dalla specie umana. Nel tempo narrato dalla scrittura sacra c’era un Mosè che si metteva in mezzo. Ma la scrittura sacra smette e a chi legge resta la curiosità di sapere come va a finire questa partita doppia circa il bene e il male, tra la divinità e la sua creatura snaturata.
«Avvenire» del 23 maggio 2010
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