di Piero Ostellino
Necessaria, tempestiva, utile. Si sprecano i giudizi positivi dell’Europa, del Fondo monetario, della Confindustria — «i medici pietosi» — sulla manovra del governo. Anche sufficiente? Sì, ad arrestare la febbre, che minacciava di salire. No, a curare la malattia, che è cronica. Sì, a farci «passare la nottata». No, a metterci al riparo da quelle che verranno.
La dilatazione della sfera pubblica — che ormai assorbe il cinquanta per cento della ricchezza prodotta — provoca due distorsioni. Prima: una spesa — cresciuta di 90 miliardi negli ultimi cinque anni— nelle pieghe della quale si annidano sprechi, distrazione di risorse a uso clientelare, corruzione, assistenzialismo, distribuzione a geometria variabile della ricchezza agli interessi corporativi più forti con pregiudizio del principio di equità. Il Paese si impoverisce progressivamente. Seconda: una contrazione dei margini di autonomia della Società civile e delle libertà individuali, che aumenta i costi delle transazioni private, mortifica lo spirito imprenditoriale, penalizza meritocrazia e ricerca. Il Paese ne è progressivamente sfiancato.
Il malato— lo Stato sociale— è inguaribile perché il medico (la politica) non sa curare se stesso. I governi — quale ne sia il colore, e che ne ricavano una «rendita politica» — rimediano alla prima distorsione, con manovre congiunturali, «tampone», ignorando sistematicamente la seconda. Le riforme cosiddette strutturali, che darebbero alla sfera pubblica ciò che è della sfera pubblica, riducendone le dimensioni, e alla Società civile ciò che è della Società civile, riconoscendole maggiori spazi di autonomia, non si fanno perché non convengono a nessuno. Non alla politica, non alla Pubblica amministrazione, che sono per lo status quo, non alle corporazioni e agli interessi organizzati, non all'area del parassitismo pubblico e a quella delle clientele private, che ci guadagnano. La manovra è la radiografia dello stato dei rapporti fra politica e Società civile; fra una politica— fondata sui sondaggi, e su una leadership a forte carica populista, che promette le riforme e poi non le fa per accontentare tutti— e una Società civile che, per la parte che conta, non le vuole.
La solitudine del ministro dell'Economia — assediato, in Consiglio dei ministri, dalle richieste di spesa dei suoi stessi colleghi — è paradigmatica di una sovrastruttura (la cultura) ideologica, anti-empirica e poco pragmatica, nonché anti-individualistica e anti-meritocratica, e di una struttura (la società) corporativa, chiusa, che, nei secoli, hanno prodotto, culturalmente, «il genio» isolato e, politicamente, demagoghi e populisti di successo, mai una «scuola di pensiero» organica, senza la quale il gattopardismo, il trasformismo, in definiva, la Reazione al cambiamento, diventano prassi. Lo Stato non è lo strumento a difesa dei diritti individuali del cittadino — come vuole il costituzionalismo liberale— ma, degradato a puro statalismo, pretende siano i cittadini a essere al suo servizio, secondo l'imperativo razionalista e totalitario della «volontà generale» nella quale si fondono e si annullano le autonomie e le singole libertà individuali.
La dilatazione della sfera pubblica — che ormai assorbe il cinquanta per cento della ricchezza prodotta — provoca due distorsioni. Prima: una spesa — cresciuta di 90 miliardi negli ultimi cinque anni— nelle pieghe della quale si annidano sprechi, distrazione di risorse a uso clientelare, corruzione, assistenzialismo, distribuzione a geometria variabile della ricchezza agli interessi corporativi più forti con pregiudizio del principio di equità. Il Paese si impoverisce progressivamente. Seconda: una contrazione dei margini di autonomia della Società civile e delle libertà individuali, che aumenta i costi delle transazioni private, mortifica lo spirito imprenditoriale, penalizza meritocrazia e ricerca. Il Paese ne è progressivamente sfiancato.
Il malato— lo Stato sociale— è inguaribile perché il medico (la politica) non sa curare se stesso. I governi — quale ne sia il colore, e che ne ricavano una «rendita politica» — rimediano alla prima distorsione, con manovre congiunturali, «tampone», ignorando sistematicamente la seconda. Le riforme cosiddette strutturali, che darebbero alla sfera pubblica ciò che è della sfera pubblica, riducendone le dimensioni, e alla Società civile ciò che è della Società civile, riconoscendole maggiori spazi di autonomia, non si fanno perché non convengono a nessuno. Non alla politica, non alla Pubblica amministrazione, che sono per lo status quo, non alle corporazioni e agli interessi organizzati, non all'area del parassitismo pubblico e a quella delle clientele private, che ci guadagnano. La manovra è la radiografia dello stato dei rapporti fra politica e Società civile; fra una politica— fondata sui sondaggi, e su una leadership a forte carica populista, che promette le riforme e poi non le fa per accontentare tutti— e una Società civile che, per la parte che conta, non le vuole.
La solitudine del ministro dell'Economia — assediato, in Consiglio dei ministri, dalle richieste di spesa dei suoi stessi colleghi — è paradigmatica di una sovrastruttura (la cultura) ideologica, anti-empirica e poco pragmatica, nonché anti-individualistica e anti-meritocratica, e di una struttura (la società) corporativa, chiusa, che, nei secoli, hanno prodotto, culturalmente, «il genio» isolato e, politicamente, demagoghi e populisti di successo, mai una «scuola di pensiero» organica, senza la quale il gattopardismo, il trasformismo, in definiva, la Reazione al cambiamento, diventano prassi. Lo Stato non è lo strumento a difesa dei diritti individuali del cittadino — come vuole il costituzionalismo liberale— ma, degradato a puro statalismo, pretende siano i cittadini a essere al suo servizio, secondo l'imperativo razionalista e totalitario della «volontà generale» nella quale si fondono e si annullano le autonomie e le singole libertà individuali.
«Corriere della Sera» del 30 maggio 2010
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