26 maggio 2010

La questione del «limite»

Vita «artificiale»: una sfida in campo etico più che scientifico
di Roberto Timossi
Che cos’è la vita? A questa semplice ma oltremodo impegnativa domanda i manuali di biologia sembrano in difficoltà a trovare una sintetica risposta. Ci sono autori che non tentano neppure una definizione della vita, dando per scontato che la si possa acquisire soltanto studiando l’evoluzionismo biologico. Ce ne sono, invece, altri che appaiono perfino imbarazzati e formulano concetti del vivente a loro modo disarmanti, come questo: «Il fenomeno chiamato vita può essere definito con una singola semplice frase: ogni bambino percepisce spontaneamente che un cane, un verme o una pianta sono vivi, mentre una roccia non lo è» (Campbell, Reece, Simon, Essential Biology).
Siamo dunque all’autoevidenza del concetto di vita; un’autoevidenza che suona un po’ strana in ambito scientifico, dal momento che la scienza moderna è scaturita proprio dal rifiuto delle 'evidenze' di tradizione aristotelica. Il tema di che cosa sia la vita è stato ora riproposto con forza dalla realizzazione di un primo batterio 'artificiale' da parte dell’équipe del bio-ingegnere Craig Venter. In realtà, come ormai molti seri scienziati si sforzano di argomentare contro la diffusione imprecisa di notizie, è esagerato definire 'forma vivente' il prodotto del laboratorio di Rockville, perché la vita è qualcosa di molto più complesso. Ma una volta chiarita la reale portata del risultato ottenuto da Craig Venter e dopo avere apprezzato senza timori i possibili risvolti futuri dell’inserimento di sequenze di Dna artificiale in una cellula naturale, si prospettano per noi seri motivi di riflessione, che vanno decisamente oltre questo singolo prodotto della bio-ingegneria. Inutile dire che i nodi cruciali della discussione non riguardano tanto questo primo batterio artificiale, quanto il ruolo della scienza e della tecnologia; ruolo che rimanda direttamente al tema antropologico del senso e dei limiti dell’essere umano. La presenza e l’attività dell’uomo nel contesto della natura pongono infatti problemi che nessuno pensa di porsi per altri viventi, che pure interferiscono con l’ambiente come, per fare solo un esempio, i castori con le loro dighe. Costruire 'vita artificiale' in laboratorio è di per sé un fatto talmente straordinario che fa della specie umana una realtà unica (almeno sul nostro Pianeta) e la carica pertanto di responsabilità talmente grandi da suscitare in qualcuno forte timore. Visti i rischi ambientali che abbiamo corso e corriamo quotidianamente, non si può non prendere sul serio il problema dell’uso che si deve fare delle conquiste della scienza e della tecnologia, anche se è bene affrontarlo in maniera positiva e non con chiusure preconcette. Quest’ultima considerazione vale sia per chi diffida della scienza e sia per chi invece ripone in essa una fiducia smisurata, per chi pensa che la conoscenza scientifica con i suoi risvolti tecnologici sia un pericolo per la stessa identità umana e per chi ritiene che il metodo scientifico e la tecnologia possano giustificare qualsiasi approdo del genere umano.
Il problema dell’uomo nella sua dimensione sia naturale sia spirituale è innanzitutto rappresentato dalla 'questione del limite', che egli deve sapere individuare e rispettare a incominciare proprio dall’ambito scientifico e tecnologico. A giudicare dalle dichiarazioni trionfalistiche e 'affaristiche' di Craig Venter c’è da concludere che la vera sfida della vita artificiale cominci solo adesso e sarà giocata più in campo etico che in campo biologico e tecnologico.
«Avvenire» del 26 maggio 2010

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