di Edoardo Sanguineti
Alla domanda perché non posso non dirmi materialista storico - almeno io non posso non dirmi tale - la mia risposta (basata su argomenti personali, la mia storia, e teorici) potrebbe essere questa. Se ci opponiamo alle condizioni concrete della società, se critichiamo lo sviluppo capitalistico e le sue forme e alle condizioni di sfruttamento che il capitalismo pratica per essere tale e poter sussistere e svilupparsi, e se vogliamo sottrarci a questa prospettiva, non si può che partire da una posizione di rivolta e consolidarla poi in una posizione di rivoluzione.
Passando, cioè, a una consapevolezza storica di quelli che sono i rapporti di classe. Allora, il vero problema è la coscienza di classe: come questa si determina, si organizza in modo adeguato a quelle che sono di volta in volta le condizioni storiche, che mutano nel tempo e nello spazio e, all’interno di un medesimo tempo e un medesimo spazio, anche in rapporto a quelle che sono le posizioni conflittuali delle diverse classi. Credo che, se si giunge a comprendere il senso reale di un testo molto limpido, come è il Manifesto del Partito Comunista di Marx e Engels, non si può non arrivare alla determinazione che, in ultima istanza, per ragioni economico-sociali, le classi che si oppongono si riducono a due: il proletariato e la borghesia capitalistica. Nel concreto storico, allo stato attuale, il capitale finanziario.
E a questo punto il processo diventa irreversibile. Non è possibile, una volta acquisita questa consapevolezza, abbandonarla, salvo per delle ragioni che sono di debolezza di diagnosi e di incapacità di cogliere quello che la realtà ci offre. La tradizione teorica della sinistra ci dice che il proletariato, per le sue condizioni concrete e storiche, non ha necessariamente coscienza di classe e che pur essendo, effettivamente e puntualmente, in una condizione di sfruttamento, non sempre acquista coscienza di ciò. È dall’esterno della classe proletaria che arriva la consapevolezza di un atteggiamento realmente critico della realtà, di una filosofia della prassi che permetta un’azione politica coerente, un progetto rivoluzionario. Il problema allora è: chi porta questa consapevolezza? (Gramsci direbbe l’intellettuale). E, come diventa, colui che porta questa consapevolezza, un materialista storico?
Come hanno fatto ad arrivarci due borghesi come Marx e Engels? Noi abbiamo una tradizione molto ricca (Lenin, Lucasz, Benjamin, Gramsci, Brecht, per citare i classici essenziali), ma loro due no. Marx lo ha spiegato abbastanza bene. In linea generale credo si possa dire che il passaggio da una posizione che chiamerei anarchica - quella dell’uomo in rivolta, che del resto è la formula usata da Camus - a una posizione invece storicamente articolata e consapevole, avviene attraverso un processo che è, insieme, pratico e teorico. Pratico vuol dire che si pone la questione di superare i conflitti così come si presentano nella loro crudezza, in un mondo di cui si comprendono le ragioni, le radici e il valore rivoluzionario sviluppato dalla borghesia. Il secondo, che ci viene dalle prime pagine del Manifesto, è porsi il problema se questa posizione sia superabile o no, se si possa andare o no al di là della situazione capitalistica.
Questo mi pare sia la radice di tutta la questione. Oggi il proletariato, a livello planetario, rappresenta il 98 per cento dell’umanità. Ma, altrettanto a livello planetario, oggi assistiamo a una grande debolezza di coscienza proletaria e comunista. Attraverso la globalizzazione capitalistica si è verificata la sconfitta di una prospettiva alternativa, con riferimento a delle forze precise, storicamente organizzate: crisi di stati e crisi di partiti, la fine del comunismo come esperienza di socialismo reale. A partire da questo momento, è soltanto una condizione veramente disperata di vita, l’insorgere di bisogni elementari insoddisfatti, che può spingere in maniera decisa verso una posizione di dissenso e di contrasto nei confronti dell’ordine delle cose. L’insoddisfazione e il senso di difficoltà a realizzare i propri desideri, riescono ad acquistare significato, sia personale che collettivo, soltanto di fronte a delle difficoltà estremamente dure nel concreto dell’esistenza.
Non trovo un lavoro, trovo un lavoro esclusivamente precario, non riesco a inserirmi nella società perché sono immigrato o perché la mia condizione è marginale, vivo in periferia o in ambienti di degrado sociale... Per un poco queste cose possono essere attenuate dall’apparato alienante della cultura borghese (il fascino della merce, il grande magazzino, il divertimento, la caccia al prodotto che hanno tutti gli amici, il trovarsi insieme in maniera disorganica attraverso spettacoli e giochi di massa) e riversarsi nella famiglia, per chi ce l’ha. Ma la famiglia oggi non regge più: padri indebitati, figli che non vedono soddisfatte le loro richieste esistenziali e di crescita, abbandono di ogni interesse culturale.
Risultato: una condizione infelice e demotivata. Quando queste condizioni diventano assolutamente insostenibili, questo decadimento sociale o questa impossibilità di arrivare a quello che ieri il fratello maggiore, o gli amici più grandi, ancora riuscivano a raggiungere, costringe a una posizione di insubordinazione e di rivolta. I co.co.co cominciano ad acquistare coscienza che la condizione di lavoro precario non è quella felice mobilità che viene vantata dal potere, per cui oggi faccio una cosa, domani un’altra ed è bello (che è una cosa che hanno sempre fatto solo i capitalisti).
A un certo momento, secondo la proposizione di base «non si arriva alla fine del mese», scoppia la rivolta. In questa condizione di infelicità e assenza di motivazioni, tra l’altro, la seduzione della violenza e delle organizzazioni criminali è forte. E viene utilizzata dal potere come indizio di corruzione che deve essere repressa. Questo è il tempo in cui il capitalismo, attraverso un fortissimo sviluppo tecnologico, ha pochissimo bisogno di forza lavoro, e si arriva a una soluzione paradossale di una società composta di persone che sono in esubero fondamentale, strutturale. Siamo tutti in esubero. Se non lo siamo già, lo saremo. Viviamo in una società di precariato strutturale, e quello che è il centro dell’esperienza umana, cioè la pratica del lavoro - non a caso la nostra Repubblica è fondata sul lavoro e nei suoi articoli iniziali della Costituzione dice subito che il lavoro è un diritto e un dovere e identifica la condizione del cittadino con quella del lavoratore - viene meno. Il problema diventa come far soldi senza passare attraverso il lavoro.
Facendosi «imprenditori di se stessi», secondo il noto motto. Che è una frase totalmente priva di senso, perché l’imprenditore, precisamente, è colui che si organizza in modo da sfruttare il lavoro degli altri, e quindi io dovrei diventare lo sfruttatore di me stesso, essere sfruttatori di se stessi vuol dire essere vittime, succubi di qualsiasi spinta possibile fino a quella condizione perfetta che è l’essere totalmente superflui, e quindi non trovare nessun tipo di lavoro. Berlusconi ha ragione su un punto che è un punto centrale: quando lui vede in tutti quelli che non sono berlusconiani dei comunisti. La sua è una diagnosi sbagliata, perché per lui credo sia già comunista Casini quando non gli obbedisce e che Fini sia sospetto di simpatie verso modelli sociali che in fin dei conti non vanno molto bene, non parliamo dei giornalisti, della magistratura, dei sindacati... chi si salva più?, tutti fanno parte di un complotto colossale di filocomunisti. Ma ha ragione, perché la sola alternativa al berlusconismo è il comunismo.
La lotta che il capitalismo classico conduceva era una lotta che certamente aveva il suo punto di riferimento nel proletario, qualcosa che esisteva. Oggi, nella fase suprema del capitalismo, è nata un’«associazione» che è diventata planetaria: ogni terrorista è un comunista e ogni comunista è un terrorista. Un’associazione che qualifica qualunque tipo di opposizione. Se la prendiamo in grande, questa associazione vuol dire, per esempio: Bush, con la teoria della guerra preventiva, vuole il controllo imperialistico del mondo. Una volta si chiamava fase suprema del capitalismo ed è l’imperialismo sfrenato, assoluto, che si assume il diritto di gestire l’universo. Partendo da questa posizione, qualsiasi dissenso è un dissenso definibile come terroristico anche quando non compie atti di terrorismo.
La democrazia americana è diventata altro, non è più americana, ma della fase suprema del capitalismo, fondata sul potere assoluto del capitale sopra i destini del mondo. La globalizzazione è il compimento di questo fatto. Ma, nel momento stesso in cui questo mondo non è più gestibile capitalisticamente, proprio per effetto della globalizzazione, non c’è più il consenso. A questo punto l’alternativa diventa secca. E qui bisogna stare veramente attenti, perché il carattere rabbioso di tutta l’ultima fase berlusconiana, fallito il tentativo di vendere sogni fino in fondo, poiché mancano ormai gli acquirenti di quei sogni («non ho i denari per accedere a quel sogno, non venitemi a raccontare che ho tanti telefonini, sono disperato ugualmente») a una visione apocalittica dell’Italia e del mondo: siamo sotto una minaccia tremenda, bisogna salvare a tutti i costi la libertà democratica imperialistica, il potere del capitale finanziario non deve trovare nessun ostacolo, e tutto questo viene detto rabbiosamente e ferocemente.
Bene, questo passaggio è un segno di disperazione, perché non c’è più la capacità di gestire un’egemonia culturale in senso largo - proporre dei modelli, ridurre tutto a un parco veline o a un parco calciatori -, non c’è più la capacità economica di controllare i mercati, perché ormai tutto è una roulette, si spostano capitali da un posto all’altro e non esiste più alcuna possibilità di previsione economica, non c’è più il potere militare, perché la guerra non è più capace di ottenere risultati. Allora tra essere autenticamente e democraticamente civili, terroristi e comunisti, non c’è più nessuna differenza. Chiunque si appelli a dei principi democratici - per esempio sia contrario allo stravolgimento della nostra Costituzione - diventa un terrorista, al limite una persona che non accetta le regole della democrazia del nostro presidente operaio. Impera inoltre la cultura del berlusconismo, che è stata organizzata con la stessa forza, e spesso con mezzi superiori di quelli che ha l’organizzazione culturale. Il materialismo storico è la sola via praticabile, sia teoricamente che praticamente, per superare il «berlusconismo».
Teoricamente perché può dare ragione di quello che leggiamo, vediamo e sentiamo quotidianamente. È solo attraverso il Materialismo storico che questa «cosa» può essere analizzata e compresa. In Italia manca una coscienza di classe, il dibattito diventa dibattito di opinione, agli elettori viene chiesta una scelta secca, destra o sinistra, e contemporaneamente si dichiara che i soggetti destra e sinistra hanno in fondo perso il loro significato, è in atto una sistematica, e per molti consapevole, organizzazione della disinformazione culturale, assistiamo al trionfo sterminato e completo dell’ideologia della merce. E, soprattutto, la «vecchia» opposizione di classe è diventata un’opposizione di opinione. Quando i gruppi politici che dovrebbero essere all’opposizione accolgono la libertà del mercato come un punto che non si può mettere in discussione, cioè accolgono quell’unico mercato che esiste, quello capitalistico, non hanno più nessuno strumento di analisi alternativa.
Passando, cioè, a una consapevolezza storica di quelli che sono i rapporti di classe. Allora, il vero problema è la coscienza di classe: come questa si determina, si organizza in modo adeguato a quelle che sono di volta in volta le condizioni storiche, che mutano nel tempo e nello spazio e, all’interno di un medesimo tempo e un medesimo spazio, anche in rapporto a quelle che sono le posizioni conflittuali delle diverse classi. Credo che, se si giunge a comprendere il senso reale di un testo molto limpido, come è il Manifesto del Partito Comunista di Marx e Engels, non si può non arrivare alla determinazione che, in ultima istanza, per ragioni economico-sociali, le classi che si oppongono si riducono a due: il proletariato e la borghesia capitalistica. Nel concreto storico, allo stato attuale, il capitale finanziario.
E a questo punto il processo diventa irreversibile. Non è possibile, una volta acquisita questa consapevolezza, abbandonarla, salvo per delle ragioni che sono di debolezza di diagnosi e di incapacità di cogliere quello che la realtà ci offre. La tradizione teorica della sinistra ci dice che il proletariato, per le sue condizioni concrete e storiche, non ha necessariamente coscienza di classe e che pur essendo, effettivamente e puntualmente, in una condizione di sfruttamento, non sempre acquista coscienza di ciò. È dall’esterno della classe proletaria che arriva la consapevolezza di un atteggiamento realmente critico della realtà, di una filosofia della prassi che permetta un’azione politica coerente, un progetto rivoluzionario. Il problema allora è: chi porta questa consapevolezza? (Gramsci direbbe l’intellettuale). E, come diventa, colui che porta questa consapevolezza, un materialista storico?
Come hanno fatto ad arrivarci due borghesi come Marx e Engels? Noi abbiamo una tradizione molto ricca (Lenin, Lucasz, Benjamin, Gramsci, Brecht, per citare i classici essenziali), ma loro due no. Marx lo ha spiegato abbastanza bene. In linea generale credo si possa dire che il passaggio da una posizione che chiamerei anarchica - quella dell’uomo in rivolta, che del resto è la formula usata da Camus - a una posizione invece storicamente articolata e consapevole, avviene attraverso un processo che è, insieme, pratico e teorico. Pratico vuol dire che si pone la questione di superare i conflitti così come si presentano nella loro crudezza, in un mondo di cui si comprendono le ragioni, le radici e il valore rivoluzionario sviluppato dalla borghesia. Il secondo, che ci viene dalle prime pagine del Manifesto, è porsi il problema se questa posizione sia superabile o no, se si possa andare o no al di là della situazione capitalistica.
Questo mi pare sia la radice di tutta la questione. Oggi il proletariato, a livello planetario, rappresenta il 98 per cento dell’umanità. Ma, altrettanto a livello planetario, oggi assistiamo a una grande debolezza di coscienza proletaria e comunista. Attraverso la globalizzazione capitalistica si è verificata la sconfitta di una prospettiva alternativa, con riferimento a delle forze precise, storicamente organizzate: crisi di stati e crisi di partiti, la fine del comunismo come esperienza di socialismo reale. A partire da questo momento, è soltanto una condizione veramente disperata di vita, l’insorgere di bisogni elementari insoddisfatti, che può spingere in maniera decisa verso una posizione di dissenso e di contrasto nei confronti dell’ordine delle cose. L’insoddisfazione e il senso di difficoltà a realizzare i propri desideri, riescono ad acquistare significato, sia personale che collettivo, soltanto di fronte a delle difficoltà estremamente dure nel concreto dell’esistenza.
Non trovo un lavoro, trovo un lavoro esclusivamente precario, non riesco a inserirmi nella società perché sono immigrato o perché la mia condizione è marginale, vivo in periferia o in ambienti di degrado sociale... Per un poco queste cose possono essere attenuate dall’apparato alienante della cultura borghese (il fascino della merce, il grande magazzino, il divertimento, la caccia al prodotto che hanno tutti gli amici, il trovarsi insieme in maniera disorganica attraverso spettacoli e giochi di massa) e riversarsi nella famiglia, per chi ce l’ha. Ma la famiglia oggi non regge più: padri indebitati, figli che non vedono soddisfatte le loro richieste esistenziali e di crescita, abbandono di ogni interesse culturale.
Risultato: una condizione infelice e demotivata. Quando queste condizioni diventano assolutamente insostenibili, questo decadimento sociale o questa impossibilità di arrivare a quello che ieri il fratello maggiore, o gli amici più grandi, ancora riuscivano a raggiungere, costringe a una posizione di insubordinazione e di rivolta. I co.co.co cominciano ad acquistare coscienza che la condizione di lavoro precario non è quella felice mobilità che viene vantata dal potere, per cui oggi faccio una cosa, domani un’altra ed è bello (che è una cosa che hanno sempre fatto solo i capitalisti).
A un certo momento, secondo la proposizione di base «non si arriva alla fine del mese», scoppia la rivolta. In questa condizione di infelicità e assenza di motivazioni, tra l’altro, la seduzione della violenza e delle organizzazioni criminali è forte. E viene utilizzata dal potere come indizio di corruzione che deve essere repressa. Questo è il tempo in cui il capitalismo, attraverso un fortissimo sviluppo tecnologico, ha pochissimo bisogno di forza lavoro, e si arriva a una soluzione paradossale di una società composta di persone che sono in esubero fondamentale, strutturale. Siamo tutti in esubero. Se non lo siamo già, lo saremo. Viviamo in una società di precariato strutturale, e quello che è il centro dell’esperienza umana, cioè la pratica del lavoro - non a caso la nostra Repubblica è fondata sul lavoro e nei suoi articoli iniziali della Costituzione dice subito che il lavoro è un diritto e un dovere e identifica la condizione del cittadino con quella del lavoratore - viene meno. Il problema diventa come far soldi senza passare attraverso il lavoro.
Facendosi «imprenditori di se stessi», secondo il noto motto. Che è una frase totalmente priva di senso, perché l’imprenditore, precisamente, è colui che si organizza in modo da sfruttare il lavoro degli altri, e quindi io dovrei diventare lo sfruttatore di me stesso, essere sfruttatori di se stessi vuol dire essere vittime, succubi di qualsiasi spinta possibile fino a quella condizione perfetta che è l’essere totalmente superflui, e quindi non trovare nessun tipo di lavoro. Berlusconi ha ragione su un punto che è un punto centrale: quando lui vede in tutti quelli che non sono berlusconiani dei comunisti. La sua è una diagnosi sbagliata, perché per lui credo sia già comunista Casini quando non gli obbedisce e che Fini sia sospetto di simpatie verso modelli sociali che in fin dei conti non vanno molto bene, non parliamo dei giornalisti, della magistratura, dei sindacati... chi si salva più?, tutti fanno parte di un complotto colossale di filocomunisti. Ma ha ragione, perché la sola alternativa al berlusconismo è il comunismo.
La lotta che il capitalismo classico conduceva era una lotta che certamente aveva il suo punto di riferimento nel proletario, qualcosa che esisteva. Oggi, nella fase suprema del capitalismo, è nata un’«associazione» che è diventata planetaria: ogni terrorista è un comunista e ogni comunista è un terrorista. Un’associazione che qualifica qualunque tipo di opposizione. Se la prendiamo in grande, questa associazione vuol dire, per esempio: Bush, con la teoria della guerra preventiva, vuole il controllo imperialistico del mondo. Una volta si chiamava fase suprema del capitalismo ed è l’imperialismo sfrenato, assoluto, che si assume il diritto di gestire l’universo. Partendo da questa posizione, qualsiasi dissenso è un dissenso definibile come terroristico anche quando non compie atti di terrorismo.
La democrazia americana è diventata altro, non è più americana, ma della fase suprema del capitalismo, fondata sul potere assoluto del capitale sopra i destini del mondo. La globalizzazione è il compimento di questo fatto. Ma, nel momento stesso in cui questo mondo non è più gestibile capitalisticamente, proprio per effetto della globalizzazione, non c’è più il consenso. A questo punto l’alternativa diventa secca. E qui bisogna stare veramente attenti, perché il carattere rabbioso di tutta l’ultima fase berlusconiana, fallito il tentativo di vendere sogni fino in fondo, poiché mancano ormai gli acquirenti di quei sogni («non ho i denari per accedere a quel sogno, non venitemi a raccontare che ho tanti telefonini, sono disperato ugualmente») a una visione apocalittica dell’Italia e del mondo: siamo sotto una minaccia tremenda, bisogna salvare a tutti i costi la libertà democratica imperialistica, il potere del capitale finanziario non deve trovare nessun ostacolo, e tutto questo viene detto rabbiosamente e ferocemente.
Bene, questo passaggio è un segno di disperazione, perché non c’è più la capacità di gestire un’egemonia culturale in senso largo - proporre dei modelli, ridurre tutto a un parco veline o a un parco calciatori -, non c’è più la capacità economica di controllare i mercati, perché ormai tutto è una roulette, si spostano capitali da un posto all’altro e non esiste più alcuna possibilità di previsione economica, non c’è più il potere militare, perché la guerra non è più capace di ottenere risultati. Allora tra essere autenticamente e democraticamente civili, terroristi e comunisti, non c’è più nessuna differenza. Chiunque si appelli a dei principi democratici - per esempio sia contrario allo stravolgimento della nostra Costituzione - diventa un terrorista, al limite una persona che non accetta le regole della democrazia del nostro presidente operaio. Impera inoltre la cultura del berlusconismo, che è stata organizzata con la stessa forza, e spesso con mezzi superiori di quelli che ha l’organizzazione culturale. Il materialismo storico è la sola via praticabile, sia teoricamente che praticamente, per superare il «berlusconismo».
Teoricamente perché può dare ragione di quello che leggiamo, vediamo e sentiamo quotidianamente. È solo attraverso il Materialismo storico che questa «cosa» può essere analizzata e compresa. In Italia manca una coscienza di classe, il dibattito diventa dibattito di opinione, agli elettori viene chiesta una scelta secca, destra o sinistra, e contemporaneamente si dichiara che i soggetti destra e sinistra hanno in fondo perso il loro significato, è in atto una sistematica, e per molti consapevole, organizzazione della disinformazione culturale, assistiamo al trionfo sterminato e completo dell’ideologia della merce. E, soprattutto, la «vecchia» opposizione di classe è diventata un’opposizione di opinione. Quando i gruppi politici che dovrebbero essere all’opposizione accolgono la libertà del mercato come un punto che non si può mettere in discussione, cioè accolgono quell’unico mercato che esiste, quello capitalistico, non hanno più nessuno strumento di analisi alternativa.
«L'Unità» del 30 marzo 2006
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