È affollata la galleria dei grandi artisti e pensatori dalle vite private meschine. Ma nessuno può evitare la scelta tra bene e male
di Carlo Cardia
Diceva Seneca: «Il filosofo predica come si dovrebbe vivere, non come vive lui». Ma a noi, dopo la lezione cristiana, questo non basta. Serve un nuovo umanesimo
Con una bella riflessione sulle pagine della cultura del 'Corriere della Sera' del 16 maggio scorso, Pierluigi Battista torna su un tema classico, forse mai veramente scandagliato, relativo al 'lato oscuro' di molti intellettuali e grandi personalità, che emerge quando si conoscono alcune loro meschinità, bassezze, vere e proprie efferatezze. Gli esempi che porta sono tanti, alcuni già conosciuti, altri ignoti ai più, che vanno dall’ipocrisia a scelte di vita privata, fino ad atti tremendi compiuti verso persone amiche, causandone la condanna ingiusta, persino la morte fisica. Si tratta di un tema ricorrente, già discusso da storici come Paul Johnson con il suo Gli intellettuali, processo ai mostri sacri della cultura moderna (1993), da Raymond Aron in L’oppio degli intellettuali (2008), dal premio Nobel John M. Coetzee in Tempo d’estate (2010). Battista ricorda Martin Heidegger che denuncia il filosofo Eduard Baumgarten, suo allievo ed amico, perché «assiduo frequentatore dell’ebreo Eduard Fraenkel», Robert Brasillach che esorta le autorità di Vichy a non risparmiare nessun ebreo, e Arthur Koestler che segnala e consegna alla polizia politica sovietica (Gpu) la fidanzata russa sulla base di un banale sospetto. Evoca poi grandi ipocrisie, di Bertolt Brecht che approva cinicamente le fucilazioni staliniane degli innocenti e conserva ricchezze in Svizzera, di Pablo Neruda che elogia smodatamente Vyšinskij, il procuratore generale dei processi di Mosca degli anni ’30 del Novecento, di Sigmund Freud e della sua relazione segreta con la cognata, altre ancora più che scivolano più nel privato. Battista non tralascia neanche Theodor Wiesengrund Adorno che boicotta con ogni mezzo la pubblicazione degli scritti inediti di Walter Benjamin, morto suicida al confine franco-spagnolo in fuga dai nazisti. La dissacrazione, se così può dirsi, prosegue con Thomas Mann, Jean-Jacques Rousseau, Karl Marx, Jean Paul Sartre, Pasolini, infine Martin Buber che rinnega la paternità nei confronti di Margarete Buber-Neumann consegnata dai sovietici ai nazisti per onorare le clausole del patto tra Hitler e Stalin del 1939.
Con l’esperienza più recente, potremmo aggiungere altri contrasti tra la dimensione pubblica osannante di grandi personaggi e i loro vizi anche repellenti, o tra la professione religiosa e la vita gravemente peccaminosa di uomini di Chiesa, ma resterebbe il quesito essenziale che Battista pone. Come mai questo divario tra la sfera creativa (e l’immagine pubblica) che porta in alto, per opere che tutti apprezziamo e ammiriamo, e la dimensione esistenziale più vile e colpevole, e come mai quando si scava inizia la discesa verso il basso, nel grigiore dell’umano, della piccineria, dell’avidità, del forsennato egocentrismo che apre le porte al male, fa vittime, scopre il lato oscuro, o mostruoso, di alcuni. Insieme ad alcune considerazioni condivisibili, Battista conclude che non ci si può aspettare che gli intellettuali siano dei santi, e le loro biografie immacolate, perché la condizione umana non garantisce la coerenza tra la purezza dell’opera prodotta e la santità della vita condotta.
In una prospettiva del tutto orizzontale, non c’è dubbio che le contraddizioni sono laceranti, e colpiscono chi non riesce a conciliare la grandezza dell’opera e le bassezze della vita, si sente lacerato tra l’ammirazione e la delusione, l’omaggio e la condanna. Tutto può cambiare, invece, in una prospettiva verticale nel quale l’uomo è visto nella sua complessità, coscienziale e insieme storica, in un rapporto con il male che la cultura moderna spesso dimentica, quasi a voler esorcizzare una realtà che non comprende e che però si ripresenta poi come durissima realtà. Non è un caso che molte 'colpe' che Battista attribuisce ai grandi pensatori ed intellettuali siano collegati con le ideologie del Novecento che, inutile negarlo, hanno incarnato nelle loro punte estreme il male assoluto, con il disprezzo per ogni regola morale, elevando a nuovi idoli lo Stato, la razza, il partito, o altro ancora, ed hanno per ciò stesso pervertito la mente dell’uomo (uomo semplice, scrittore, artista, filosofo, che sia) che, pur senza macchiarsi direttamente ha elogiato, esaltato, osannato, i più efferati delitti.
Ma il male esiste anche nella coscienza individuale, in quella parte più nascosta e profonda, che solo l’uomo e Dio conoscono, e non sempre coincidono con le opere dell’intelletto, con l’ingegno individuale, con i movimenti collettivi di ammirazione che seguono strade diverse. Già Seneca nella Vita felice risponde a chi rimprovera i filosofi, e lui stesso, per il contrasto tra la loro vita e le loro parole e gli chiede: «Perché le tue parole sono più virtuose della tua vita?». Perché sei ricco, ami il lusso ed il superfluo, sei attento all’immagine più che all’agire bene, mentre predichi il contrario? Seneca risponde che il filosofo predica come si dovrebbe vivere, non come vive lui, e gli altri devono imparare dalle sue parole non dalle sue azioni. E che infine, i filosofi provano a condurre una vita buona, ma non ci riescono sempre.
La risposta di Seneca è umana, ma con il passare del tempo non convince più, soprattutto se l’incoerenza raggiunge i vertici dell’abominio. E non convince più da quando la grande lezione giudaico-cristiana che nel frattempo veniva da Gerusalemme mise in scena la lotta del bene contro il male, non come frutto del fato, ma come una lotta che si svolge nella coscienza dell’uomo, che diviene protagonista del proprio destino. Gli empi, dice il salmista «parlano di pace al loro prossimo, ma hanno la malizia nel cuore» (Salmi, 27,3), e il profeta aggiunge che usano parole belle però «il loro cuore è falso» (Osea, 10,2). Dall’obbligo di scegliere fra il bene e il male non sono esenti i letterati o i filosofi, i ricchi o i potenti, che pure ammaliano gli umili con il loro sfarzo intellettuale o materiale. L’incantesimo, però, non dura a lungo, perché se ogni cosa è caduca, il fascino del male lo è ancor meno. Si può fare ancora un passo in avanti se si tiene presente che una delle tentazioni più forti dell’uomo è quella di farsi grande, insuperbire per l’intelligenza e le capacità, dimenticando che il profeta prevede «guai (per) coloro che si credono sapienti e si reputano intelligenti» (Isaia, 5,21). Tutti, anche la persona più semplice, verifica ogni giorno quante volte un pizzico di potere (vero o presunto) cambia l’uomo, lo fa inorgoglire, sin sulla soglia dell’onnipotenza, lo fa sentire libero da ogni regola, lo induce ad atti di cui, ad un certo punto, non sente più nemmeno la colpa o l’imbarazzo. Quando questa metamorfosi colpisce, sono rovesciati tutti i valori, l’uomo si sente elevato in alto, guarda agli altri uomini quasi con disprezzo, e a quel punto tutto è possibile, anche ciò che a noi sembra grave, contraddittorio, assurdo. Questo senso di onnipotenza stravolge il cuore, soltanto la coscienza del nostro essere creature chiamate al bene può riproporre il senso della fragilità e della grandezza dell’uomo, e può rifondare un umanesimo che si è andato erodendo e frantumando.
Con l’esperienza più recente, potremmo aggiungere altri contrasti tra la dimensione pubblica osannante di grandi personaggi e i loro vizi anche repellenti, o tra la professione religiosa e la vita gravemente peccaminosa di uomini di Chiesa, ma resterebbe il quesito essenziale che Battista pone. Come mai questo divario tra la sfera creativa (e l’immagine pubblica) che porta in alto, per opere che tutti apprezziamo e ammiriamo, e la dimensione esistenziale più vile e colpevole, e come mai quando si scava inizia la discesa verso il basso, nel grigiore dell’umano, della piccineria, dell’avidità, del forsennato egocentrismo che apre le porte al male, fa vittime, scopre il lato oscuro, o mostruoso, di alcuni. Insieme ad alcune considerazioni condivisibili, Battista conclude che non ci si può aspettare che gli intellettuali siano dei santi, e le loro biografie immacolate, perché la condizione umana non garantisce la coerenza tra la purezza dell’opera prodotta e la santità della vita condotta.
In una prospettiva del tutto orizzontale, non c’è dubbio che le contraddizioni sono laceranti, e colpiscono chi non riesce a conciliare la grandezza dell’opera e le bassezze della vita, si sente lacerato tra l’ammirazione e la delusione, l’omaggio e la condanna. Tutto può cambiare, invece, in una prospettiva verticale nel quale l’uomo è visto nella sua complessità, coscienziale e insieme storica, in un rapporto con il male che la cultura moderna spesso dimentica, quasi a voler esorcizzare una realtà che non comprende e che però si ripresenta poi come durissima realtà. Non è un caso che molte 'colpe' che Battista attribuisce ai grandi pensatori ed intellettuali siano collegati con le ideologie del Novecento che, inutile negarlo, hanno incarnato nelle loro punte estreme il male assoluto, con il disprezzo per ogni regola morale, elevando a nuovi idoli lo Stato, la razza, il partito, o altro ancora, ed hanno per ciò stesso pervertito la mente dell’uomo (uomo semplice, scrittore, artista, filosofo, che sia) che, pur senza macchiarsi direttamente ha elogiato, esaltato, osannato, i più efferati delitti.
Ma il male esiste anche nella coscienza individuale, in quella parte più nascosta e profonda, che solo l’uomo e Dio conoscono, e non sempre coincidono con le opere dell’intelletto, con l’ingegno individuale, con i movimenti collettivi di ammirazione che seguono strade diverse. Già Seneca nella Vita felice risponde a chi rimprovera i filosofi, e lui stesso, per il contrasto tra la loro vita e le loro parole e gli chiede: «Perché le tue parole sono più virtuose della tua vita?». Perché sei ricco, ami il lusso ed il superfluo, sei attento all’immagine più che all’agire bene, mentre predichi il contrario? Seneca risponde che il filosofo predica come si dovrebbe vivere, non come vive lui, e gli altri devono imparare dalle sue parole non dalle sue azioni. E che infine, i filosofi provano a condurre una vita buona, ma non ci riescono sempre.
La risposta di Seneca è umana, ma con il passare del tempo non convince più, soprattutto se l’incoerenza raggiunge i vertici dell’abominio. E non convince più da quando la grande lezione giudaico-cristiana che nel frattempo veniva da Gerusalemme mise in scena la lotta del bene contro il male, non come frutto del fato, ma come una lotta che si svolge nella coscienza dell’uomo, che diviene protagonista del proprio destino. Gli empi, dice il salmista «parlano di pace al loro prossimo, ma hanno la malizia nel cuore» (Salmi, 27,3), e il profeta aggiunge che usano parole belle però «il loro cuore è falso» (Osea, 10,2). Dall’obbligo di scegliere fra il bene e il male non sono esenti i letterati o i filosofi, i ricchi o i potenti, che pure ammaliano gli umili con il loro sfarzo intellettuale o materiale. L’incantesimo, però, non dura a lungo, perché se ogni cosa è caduca, il fascino del male lo è ancor meno. Si può fare ancora un passo in avanti se si tiene presente che una delle tentazioni più forti dell’uomo è quella di farsi grande, insuperbire per l’intelligenza e le capacità, dimenticando che il profeta prevede «guai (per) coloro che si credono sapienti e si reputano intelligenti» (Isaia, 5,21). Tutti, anche la persona più semplice, verifica ogni giorno quante volte un pizzico di potere (vero o presunto) cambia l’uomo, lo fa inorgoglire, sin sulla soglia dell’onnipotenza, lo fa sentire libero da ogni regola, lo induce ad atti di cui, ad un certo punto, non sente più nemmeno la colpa o l’imbarazzo. Quando questa metamorfosi colpisce, sono rovesciati tutti i valori, l’uomo si sente elevato in alto, guarda agli altri uomini quasi con disprezzo, e a quel punto tutto è possibile, anche ciò che a noi sembra grave, contraddittorio, assurdo. Questo senso di onnipotenza stravolge il cuore, soltanto la coscienza del nostro essere creature chiamate al bene può riproporre il senso della fragilità e della grandezza dell’uomo, e può rifondare un umanesimo che si è andato erodendo e frantumando.
«Avvenire» del 18 maggio 2010
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