Morto a 79 anni il critico dell'avanguardia, fondatore del Gruppo '63
di Mario Baudino
Quando fondò con Eco, Giuliani, Manganelli, Balestrini e altri giovani più o meno «arrabbiati» d’allora il Gruppo ’63, a Palermo, si ironizzò un poco sull’avanguardia in vagone letto, dato il mezzo di trasporto offerto dagli sponsor. Ma Edoardo Sanguineti all’idea di avanguardia come strumento della modernità ha sempre creduto, fermamente, per tutta la vita. Ed era, la sua, un’idea austera. È stato nello stesso tempo uno spericolato guastatore e un severissimo professore. Poeta e critico letterario, ma anche politico (si definiva anzi un politico prestato alla letteratura) e persino ideologo, non ha mai fatto concessioni ai tempi. È morto ieri, a Genova, dove era nato e dove era tornato dopo una breve peregrinazione accademica per insegnare a lungo all’Università. Un malore lo ha colto nella sua casa «operaia», lontano dal centro. La corsa in ospedale, poi l’inutile tentativo di un estremo intervento chirurgico. Aveva 79 anni, lascia dietro di sé una grande eredità culturale e forse nessun epigono.
Edoardo Sanguineti era cresciuto a Torino, dove si era formato alla scuola di Giovanni Getto e aveva lavorato su incroci e contaminazioni tra letteratura, musica, arte. Dalla musica, anzi, era partito, quando giovanissimo sognava di fare il ballerino e si era messo poi a studiare il pianoforte. Collaborava con Baj o con Nespolo, scriveva testi per Luciano Berio. Suo è uno dei versi più riconoscibili del nostro Novecento: «Composte terre in strutturali complessioni sono palus putredinis», lanciato su una rivista nel ’51 e poi nella prima raccolta in volume del ’56, Laborintus.
Era affascinato dai labirinti e dalle avanguardie d’inizio secolo, con la loro pretesa di cambiare il mondo a colpi di acceleratore linguistico; credeva fermamente che l’avanguardia esprimesse «una verità generale di carattere sociale» e non solo «una verità particolare di carattere estetico», come scrisse nel suo testo teorico più noto, Ideologia e linguaggio. Per lui cambiare il linguaggio, minarlo, farlo esplodere, poteva «mettere in causa i rapporti sociali», e quindi far saltare per aria la società neocapitalista, il grande bersaglio teorico già del Gruppo ’63. Che se la prendeva volentieri anche con scrittori appena più anziani, come Moravia e Bassani, definiti scanzonatamente e perfidamente - ma dal Gruppo, non da lui in particolare - le «Liale del Novecento».
Nello stesso tempo, e senza apparenti contraddizioni, Sanguineti studiava Gozzano e Montale, Dante e i classici. All’apice della sua fama organizzò per l’Einaudi un’antologia poetica del Novecento italiano che per molti versi creò una nuova prospettiva sul secolo. Ma la letteratura sembrava non bastargli mai. C’era di più, c’era, per lui inseparabile, il territorio dell’ideologia e della politica. Le sue posizioni non sono mutate nel tempo. Non ci sono state, per lui marxista e comunista, svolte «socialdemocratiche». Nel 2007, quando partecipò alle primarie del Pd per la corsa a sindaco di Genova, spiegò che era tempo di «restaurare l’odio di classe, perché i potenti odiano i proletari e l’odio va ricambiato».
Era una citazione di Walter Benjamin, ma insomma la sostanza era quella. Qualche tempo dopo rincarò la dose, parlando della strage di Tienanmen e dei ragazzi cinesi «sedotti da mitologie occidentali, un poco come quelli che esultarono quando cadde il Muro». Era ironico, gentilissimo, sorridente e galante. Ma prima di tutto era un maestro austero, fino al paradosso. Uomo di certezze, non ha mai smesso di seminare dubbi.
Edoardo Sanguineti era cresciuto a Torino, dove si era formato alla scuola di Giovanni Getto e aveva lavorato su incroci e contaminazioni tra letteratura, musica, arte. Dalla musica, anzi, era partito, quando giovanissimo sognava di fare il ballerino e si era messo poi a studiare il pianoforte. Collaborava con Baj o con Nespolo, scriveva testi per Luciano Berio. Suo è uno dei versi più riconoscibili del nostro Novecento: «Composte terre in strutturali complessioni sono palus putredinis», lanciato su una rivista nel ’51 e poi nella prima raccolta in volume del ’56, Laborintus.
Era affascinato dai labirinti e dalle avanguardie d’inizio secolo, con la loro pretesa di cambiare il mondo a colpi di acceleratore linguistico; credeva fermamente che l’avanguardia esprimesse «una verità generale di carattere sociale» e non solo «una verità particolare di carattere estetico», come scrisse nel suo testo teorico più noto, Ideologia e linguaggio. Per lui cambiare il linguaggio, minarlo, farlo esplodere, poteva «mettere in causa i rapporti sociali», e quindi far saltare per aria la società neocapitalista, il grande bersaglio teorico già del Gruppo ’63. Che se la prendeva volentieri anche con scrittori appena più anziani, come Moravia e Bassani, definiti scanzonatamente e perfidamente - ma dal Gruppo, non da lui in particolare - le «Liale del Novecento».
Nello stesso tempo, e senza apparenti contraddizioni, Sanguineti studiava Gozzano e Montale, Dante e i classici. All’apice della sua fama organizzò per l’Einaudi un’antologia poetica del Novecento italiano che per molti versi creò una nuova prospettiva sul secolo. Ma la letteratura sembrava non bastargli mai. C’era di più, c’era, per lui inseparabile, il territorio dell’ideologia e della politica. Le sue posizioni non sono mutate nel tempo. Non ci sono state, per lui marxista e comunista, svolte «socialdemocratiche». Nel 2007, quando partecipò alle primarie del Pd per la corsa a sindaco di Genova, spiegò che era tempo di «restaurare l’odio di classe, perché i potenti odiano i proletari e l’odio va ricambiato».
Era una citazione di Walter Benjamin, ma insomma la sostanza era quella. Qualche tempo dopo rincarò la dose, parlando della strage di Tienanmen e dei ragazzi cinesi «sedotti da mitologie occidentali, un poco come quelli che esultarono quando cadde il Muro». Era ironico, gentilissimo, sorridente e galante. Ma prima di tutto era un maestro austero, fino al paradosso. Uomo di certezze, non ha mai smesso di seminare dubbi.
«La Stampa» del 19 maggio 2010
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