22 maggio 2010

Hanno fatti un abile «puzzle» e lo chiamano vita

L'Ogm «creato» da Venter
di Assuntina Morresi
Non è una sfida a Dio l’ultimo risultato ot­tenuto da Craig Venter e dalla sua équi­pe, ma una sofisticata operazione tecnologi­ca, un 'copia, incolla e metti la firma': non è una creazione dal nulla, piuttosto sono state sapientemente assemblate sequenze di Dna già esistenti in natura, e riprodotte in labo­ratorio, insieme a qualche sequenza dise­gnata per 'marcare' il genoma ottenuto e di­stinguerlo dall’originale naturale, una specie di 'firma' degli scienziati inserita nel Dna stesso. Il Dna così prodotto in laboratorio è stato poi sostituito a quello di una cellula na­turale, che è stata in grado di replicarsi gra­zie al nuovo patrimonio genetico, cioè se­guendo gli 'ordini' del Dna sintetico.
Per produrre il genoma in laboratorio non sono stati utilizzati nuovi aminoacidi. I 'mat­toni' con cui è stato costruito questo Dna so­no quelli di sempre, e quindi parlare di «crea­zione di una nuova vita artificiale» è quanto meno ambiguo, visto che il cromosoma è co­piato da quello naturale, e che anche la cel­lula che ha ospitato il Dna è naturale. D’altra parte ogni organismo geneticamente modi­ficato può essere considerato una «nuova vi­ta artificiale» che si affaccia sul pianeta, con un patrimonio genetico diverso da quelli già esistenti.
In altre parole, i ricercatori del gruppo di Ven­ter hanno composto con grande abilità un e­norme puzzle, utilizzando i pezzi già messi a disposizione dalla natura, per realizzare un disegno pressoché i­dentico a quello già tracciato naturalmen­te. Non sappiamo an­cora a quali risultati porterà la nuova pro­cedura tecnica messa a punto: la produzio­ne di biocarburanti piuttosto che impor­tanti applicazioni bio­mediche. Lo vedremo nel tempo. Per ora, i problemi che pone so­no analoghi a quelli di ogni ogm: la valutazione dell’eventuale im­patto con l’ambiente naturale, le possibili ri­percussioni sulla regolamentazione dei bre­vetti e sul mercato biotecnologico.
Nell’articolo scientifico pubblicato è eviden­te la profonda capacità manipolatoria rag­giunta dagli scienziati, che li fa parlare addi­rittura di 'design' di cromosomi sintetici, e che indica la necessità di una vigilanza mol­to attenta per il futuro. La stessa richiesta del capo della Casa Bianca Barack Obama alla Commissione bioetica presidenziale di ap­profondire le questioni sollevate dall’esperi­mento è un segnale in tal senso. Ma ad in­quietare per ora non è tanto l’esperimento in sé, quanto i toni con cui se ne parla.
È ben noto che Craig Venter è innanzitutto un bravissimo imprenditore di se stesso: sono già stati annunciati per i prossimi giorni do­cumentari in anteprima mondiale su questo studio, a dimostrazione dell’accuratissima preparazione mediatica del lancio della no­tizia, organizzata su scala planetaria. Una sa­piente e spregiudicata strategia di marketing industriale per un mercato enorme come quello che gira intorno alle biotecnologie, nel quale troppo spesso ad annunci trionfali non seguono i risultati promessi.
Fa riflettere, poi, l’enfasi con cui la notizia è rimbalzata sulle prime pagine di tutti i gior­nali, con evocazioni di immagini bibliche, ti­po «assaggiare il frutto dell’albero della vita», o «l’uomo ha creato la vita», o con afferma­zioni come «progettare una biologia che fac­cia quel che vogliamo noi», e potremmo con­tinuare con le citazioni. Che la sfida della conoscenza debba sempre essere presentata come mettersi in arrogan­te gara con Dio, non rende ragione alla scien­za stessa. Il mestiere dello scienziato è quel­lo di cercare di comprendere sempre più a fondo la struttura intima della materia e del­la vita, ed è frutto di intelligenza – quella stes­sa che ieri il cardinal Bagnasco ci ha ricorda­to essere «dono di Dio» – , curiosità e, so­prattutto, di umiltà. Significa essere consa­pevoli di stare di fronte ad un mistero che mentre si fa esplorare ci suggerisce nuove do­mande, altre questioni da affrontare e cono­scenze da mettere a fuoco. Un mistero che svelandosi si mostra infinito.
«Avvenire» del 22 maggio 2010

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