di Giuseppe Distefano
Salutato dagli applausi calorosi del pubblico della cavea, aveva assistito al debutto della "sua" Fedra. Appena in tempo prima di accomiatarsi definitivamente, qualche giorno dopo, dalla scena del mondo. Edoardo Sanguineti ci ha lasciato avendo firmato la traduzione dell'opera di Euripide per il ciclo di rappresentazioni classiche dell'Inda di Siracusa. Una versione di potente poesia dove i versi rendono quell'universo duro e tetro in cui si agita Fedra. "Parole pietrose" le ha definite il regista Carmelo Rifici, delle quali si sono appropriati tutti gli attori.
La trama della tragedia. La passione ruggente e indomabile di una donna consapevole del peccato quanto ostinata a non voler resistere alla sua attrazione per il figliastro Ippolito, è solo l'avvio della tragedia. Che verbalizza il demone di tre ossessioni: per lei è la malattia, per il giovane il fanatismo della religione, per il re Teseo l'onore. Rifici ha puntato su questi tre tormenti, che condurranno ad una fine atroce, per calarci nei conflitti interiori che determineranno una spaccatura netta e violenta tra gli uomini e gli dei. Fedra si tormenta per l'insano desiderio che le è stato instillato da Afrodite; Ippolito, spregiatore della dea vergine e devoto maniacale di Artemide, trascorre la vita tra virili cacce. Lei conscia della sacrilega bramosia, non osa confidarla a nessuno. Quando lui, per l'importuna mediazione della nutrice della Regina, ne viene a conoscenza, per l'orrore prorompe in un'ampia invettiva contro il sesso femminile tutto. Fedra s'impicca, non senza vendicarsi lasciando un'infame lettera a Teseo dove accusa l'illibato Ippolito di averla posseduta con violenza. Il re chiede a Poseidone la morte del figlio, che perirà straziato tra le rocce trascinato dai cavalli terrorizzati da un mostro marino. Apparirà infine Artemide a svelare la verità a Teseo che accoglierà tra le sue braccia il morente Ippolito. Dunque, nessun mortale, per pio che sia, può sfuggire alla volontà o al capriccio degli dei, che Sanguineti chiama demoni.
La trama della tragedia. La passione ruggente e indomabile di una donna consapevole del peccato quanto ostinata a non voler resistere alla sua attrazione per il figliastro Ippolito, è solo l'avvio della tragedia. Che verbalizza il demone di tre ossessioni: per lei è la malattia, per il giovane il fanatismo della religione, per il re Teseo l'onore. Rifici ha puntato su questi tre tormenti, che condurranno ad una fine atroce, per calarci nei conflitti interiori che determineranno una spaccatura netta e violenta tra gli uomini e gli dei. Fedra si tormenta per l'insano desiderio che le è stato instillato da Afrodite; Ippolito, spregiatore della dea vergine e devoto maniacale di Artemide, trascorre la vita tra virili cacce. Lei conscia della sacrilega bramosia, non osa confidarla a nessuno. Quando lui, per l'importuna mediazione della nutrice della Regina, ne viene a conoscenza, per l'orrore prorompe in un'ampia invettiva contro il sesso femminile tutto. Fedra s'impicca, non senza vendicarsi lasciando un'infame lettera a Teseo dove accusa l'illibato Ippolito di averla posseduta con violenza. Il re chiede a Poseidone la morte del figlio, che perirà straziato tra le rocce trascinato dai cavalli terrorizzati da un mostro marino. Apparirà infine Artemide a svelare la verità a Teseo che accoglierà tra le sue braccia il morente Ippolito. Dunque, nessun mortale, per pio che sia, può sfuggire alla volontà o al capriccio degli dei, che Sanguineti chiama demoni.
Poesia e presenza ascetica. Rifici, sulla scena lignea e i costumi che rimandano al teatro medioevale, costruisce uno spettacolo superbo, che non concede soste. Cura movimenti, ingressi e uscite, apparizioni e svelamenti, con sapiente teatralità; e crea una continuazione con due blocchi musicali. Non possiamo, però, nascondere la difficoltà di comprensione dei versi e delle frasi dialoganti, che, nella traduzione, grecizzano l'italiano con il verbo alla fine della frase. Ma, all'iniziale fatica di rincorrere il senso subentra un flusso densamente poetico che cattura l'ascolto. E ci immerge nella storia. Merito dell'impegno profuso dagli attori che lottano con le parole e si fanno vincere da esse rilanciandocele. Elisabetta Pozzi fa della protagonista una donna malata: parte dalla follia per giungere alla ragione del gesto suicida spiegato al coro delle donne. Ma la nutrice di Guia Jelo, inadeguata nel ruolo per i toni gravi e le pose artefatte, sembra non entrare mai realmente in relazione con la regina. Il Teseo di Maurizio Donadoni è tutto ira furibonda, sapientemente dosata; l'Ippolito di Massimo Nicolini, dai toni a volte troppo urlati, è d'integerrima presenza ascetica; C'è infine il messaggero di Emiliano Masala che, con autorevolezza, domina totalmente la scena del racconto dello schianto di Ippolito.
"Fedra (Ippolito portatore di corona)", di Euripide. Regia Carmelo Rifici, impianto scenico Jordi Garcés, costumi Margherita Baldoni, musiche Daniele D'Angelo.
Al teatro greco di Siracusa fino al 20 giugno.
www.indafondazione.org
«Il Sole 24 Ore» del 26 maggio 2010
Nessun commento:
Posta un commento