Perché il mito della raccolta differenziata è un inutile spreco di tempo e di denaro
di Paolo Togni
Riporta il Mundo che nei mesi di novembre e dicembre del 2009 gli impianti fotovoltaici della Spagna – che traducono in energia l’irraggiamento solare – hanno prodotto in otto ore giornaliere di attività seimila megavattora di energia elettrica, per la quale i loro gestori hanno incassato quasi tre milioni di euro di incentivi statali relativi alla produzione di “energia pulita”. Niente da rilevare in proposito, se non che tale produzione è avvenuta tra le ventitré e le sette di mattina, cioè in un periodo nel quale, specialmente in inverno, l’oscurità è totale e il sole non brilla affatto. Del resto lo stesso autorevole quotidiano informa che nello stesso periodo i campi fotovoltaici della Castiglia hanno lavorato al 65 per cento del loro potenziale tra la mezzanotte e le una del mattino, contro una prestazione del 16 per cento circa tra le dodici e le tredici. Questi dati non sono invenzione giornalistica, ma frutto ufficiale delle rilevazioni della Cne, la Commissione nazionale spagnola per l’energia, la quale attribuisce il dato sorprendente al fatto che l’energia dichiarata “verde” e “da fonte rinnovabile” sia stata di fatto prodotta utilizzando potenti motori diesel e gli idrocarburi che tali macchine consumano nella loro attività. L’informazione non deve stupire: è regola che dati e fatti diffusi dai conformisti verdi e da coloro che strumentalmente vi si insinuano siano falsi, così come i loro comportamenti tendano al truffaldino e come le loro teorie siano in effetti per lo più ipotesi non comprovate e poco plausibili spacciate per verità sacrosante, a fine di lucro (spesso) o allo scopo di acquisire influenza sull’opinione pubblica e sulle istituzioni. In effetti, molte delle parole d’ordine del conformismo ambientalista sono prive di significato, asserzioni false basate su premesse errate, in buona fede o in mala fede che questo avvenga. Basterà ricordare la panzana della inesistente fragolapesce Ogm; la pretesa pericolosità del cosiddetto elettrosmog, negata da tutte le statistiche mediche; il sostegno ai prodotti agricoli biologici, dei quali sono tutte da dimostrare la superiorità rispetto a quelli oggetto di trattamenti chimici e la non nocività, negata da Umberto Veronesi; il progressivo peggioramento delle condizioni dell’atmosfera, che invece sono drasticamente migliorate negli ultimi decenni (basta guardare i dati volendo vederli); e, per chiudere questo che non è neanche un abbozzo di indice, ma solo un richiamo per esempi sporadici, la menzogna dell’origine antropica del riscaldamento della Terra, che sta dando luogo alla più grande truffa della storia e rischia di mettere in crisi l’economia del mondo sviluppato e il nostro stesso futuro. Su ognuno di questi argomenti ci sarebbe da intrattenerci a lungo, e col permesso dei superiori forse lo farò. Fermo dunque restando che mai come nei nostri tempi tanti uomini hanno goduto di condizioni di vita tanto buone, come è anche dimostrato dai dati sulle aspettative di vita, è comunque pur vero che ci troviamo ad affrontare problemi ambientali realmente incombenti; i quali, però, postulano un approccio migliorista, nel senso che occorre avvicinarsi progressivamente ad uno stato di cose più soddisfacente, laddove un approccio integralista potrebbe condurre a contraccolpi pesanti sulla produzione e sul benessere. Chiarito che il primo problema ambientale sono ambientalisti e verdi, che sollevano problemi inesistenti e sostengono soluzioni cervellotiche, è sicuro che deve migliorare ancora la qualità dell’aria, proseguendo nell’andamento già evidenziato, e che ciò non può essere ottenuto impedendo il riscaldamento e i trasporti; deve migliorare la qualità delle gestioni idriche, che oggi sono insufficienti soprattutto dal punto di vista del trattamento dei reflui; occorre procedere alle bonifiche di una infinità di siti inquinati, fin qui impedita da normative talebane e da gestioni amministrative che – applicando la regola somma della burocrazia – volevano rendere difficile il facile attraverso l’inutile, e ci riuscivano perfettamente; bisogna provvedere alla messa in sicurezza di gran parte del territorio nazionale, fragile per sua natura e martoriato da improvvide iniziative immobiliari; è necessaria una finalmente intelligente tutela della biodiversità, che superi posizioni stolidamente estremiste e concili la presenza dell’uomo sul territorio con la presenza delle specie animali e naturali presenti. E c’è il problema dei rifiuti cui trovare una soluzione strutturale. Si tratta di un problema presente in Italia e in alcuni paesi in via di sviluppo: in moltissime società sviluppate, infatti, tale problema è ottimamente risolto. I dati della questione sono abbastanza semplici: ogni uomo nella sua vita produce quotidianamente una certa quantità di materiali da smaltire, i rifiuti appunto, che sono detti Rsu (rifiuti solidi urbani) e sono in quantità più o meno proporzionale al livello di vita del produttore. Ogni processo industriale produce giornalmente una certa quantità di materiali da smaltire: i rifiuti così detti industriali, per la loro origine. I rifiuti, Rsu o industriali che siano, per ovvi motivi devono essere smaltiti, cioè eliminati. Ciò può avvenire accantonandoli dove non diano fastidio (la discarica) oppure distruggendoli (le varie forme di incenerimento). O riutilizzandoli, se ciò sia possibile: nel qual caso non si deve più parlare di rifiuti, ma di materie prime secondarie. Poiché comunque si tratta di sostanze alcune delle quali possono dare fastidio o addirittura creare rischi per la salute, il loro smaltimento o il loro riutilizzo deve avvenire secondo regole precise e fornendo alla cittadinanza tutte le necessarie garanzie igienico sanitarie. E’ evidente che la soluzione migliore è quella del riutilizzo dei rifiuti, che consente anche un forte risparmio di materie prime vergini; tuttavia l’atteggiamento “panrifiutista” di ambientalisti, magistrati e legislatori ha molto limitato nel nostro paese la possibilità di riutilizzo dei residui, finché nel 2006 una nuova legislazione, recepita poi da una direttiva europea del 2008, non ha reso più semplice e fluida l’operazione. Ho detto che in tutto il mondo civile i rifiuti non sono più un problema, anzi la loro gestione, che avviene in genere a costi molto inferiori rispetto a quelli italiani, è un importante comparto economico, e genera utili significativi. Il motivo di questa differenza è semplice: in altri paesi (e in poche, virtuose, situazioni locali italiane) si è organizzato il ciclo dei rifiuti in maniera strutturata. In esso le varie attività – raccolta, selezione, smaltimento – concorrono a formare una vera e propria realtà industriale, gestita da un soggetto imprenditore qualificato, nella quale tutto è organizzato e coordinato secondo i migliori parametri tecnici, e al fine di produrre profitto. Che, in genere, è tutt’altro che scarso. Il ciclo virtuoso e non parassitario dei rifiuti prevede, naturalmente, che una significativa percentuale degli stessi sia mandata a termovalorizzazione: in alcuni paesi quasi il settanta per cento del raccolto fa questa fine. Non in Italia, però. Per tanti motivi, il principale dei quali è l’estrema difficoltà, talvolta l’impossibilità, di realizzare impianti di combustione. Le cause di questa difficoltà di concretizzare opere utili per la comunità sono diverse: certamente una quota importante di queste ricade sulla incapacità e sull’ignoranza di amministrazione dei gestori pubblici. Se non si riesce a realizzare una piscina nel rispetto della normativa esistente, perché si dovrebbe riuscire con un termovalorizzatore? Tanto più che contro la costruzione di un inceneritore si risvegliano pulsioni potenti: l’ignoranza e la paura, che, combinate insieme, costituiscono una miscela esplosiva. Nelle persone in buona fede c’è la paura per i danni che potranno derivare alla salute dei cittadini, quindi anche alla propria; ed è giustificata dall’ignoranza delle condizioni reali di operatività di un impianto di termovalorizzazione, che è obbligato a lavorare a temperature talmente alte da impedire la formazione di composti dannosi. In effetti le diossine non possono formarsi sopra i novecento gradi, e per legge un termovalorizzatore non può funzionare sotto i milleduecento. Se poi aggiungiamo che sull’argomento chiunque parla a schiovere, ci troveremo ad ascoltare frasi tra l’esoterico e il biblico: “L’inceneritore è il diavolo!” ha affermato nella fase più calda dello scontro il vescovo di Acerra. Ora, è vero che il magistero della chiesa riguarda principalmente gli argomenti spirituali, e quindi tutti hanno il diritto di mettere in non cale affermazioni su questa materia, ma la prudenza è pur sempre una virtù che i cristiani sono chiamati a esercitare sempre, e specialmente quando si tratta di temi che già di per sé hanno infiammato l’opinione pubblica. Resta da dire poi che, come hanno esaurientemente dimostrato gli approfonditi studi dell’Epa, le diossine, e in quantità notevole, vengono prodotte dai rifiuti deposti in discarica: ma a questo nessuno pensa. D’altro canto, resa difficile la realizzazione dei termovalorizzatori, accertata la scarsa salubrità dello smaltimento in discarica, occorreva pur trovare una soluzione per il problema dei rifiuti. E così viene alla luce un altro totem del conformismo ambientalista: la raccolta differenziata, che da molte teste deboli o vuote, e da qualche illuso, è vista come la panacea di tutti i mali, la soluzione per tutti i problemi; chi non la pratica viene messo all’indice e additato come un sozzo mascalzone, nemico del bene comune. Come molti miti, anche questo è frutto di una micidiale combinazione di interessi e ignoranza, di propensione al burocratismo e di nostalgia per forme più penetranti di limitazione della libertà. Come è evidente di per sé, la raccolta differenziata va bene se è parte di un processo organico e coerente, che regga dal punto di vista economico e ambientale: essa sarà praticabile e opportuna se, e solo se, il suo bilancio sarà positivo. Il controllo sulla validità del ciclo economico, però, sarebbe possibile solo se fosse rispettata la legge che stabilisce l’obbligo della gara per assegnare il servizio, e a oggi tale norma è disattesa in maniera praticamente totale: il servizio spesso viene affidato a società capziosamente definite pubbliche, ma che sono in effetti controllate dalle forze politiche territorialmente dominanti, e il cittadino utente paga il conto a piè di lista, contribuendo così al finanziamento di quel mondo parapolitico che è una delle peggiori iatture italiane. A questo processo contribuisce anche la raccolta differenziata: infatti occorre chiarire che raccogliere i rifiuti in forma differenziata costa alquanto più che raccoglierli in modo indifferenziato, anche se una logica corretta vorrebbe che i ricavi della vendita dei materiali differenziati debbano almeno coprire tali costi. L’Unione europea ha pienamente condiviso questa opinione, e nella più recente Direttiva sui rifiuti (dicembre 2008) dispone che la raccolta differenziata sia fattibile a condizione che sussistano necessità di carattere economico o ambientale: non dispone, in proposito, né obblighi né obiettivi quantitativi. Diversamente la legge italiana, che stabilisce, con una norma del 2006, l’obbligo per i comuni di arrivare al 65 per cento per cento di differenziazione nel 2013. Che una norma del 2006 non sfrutti tutta la potenzialità offerta da una direttiva del 2008 è ragionevole; meno facile è capire perché tali obiettivi siano stati confermati nello schema di Decreto legislativo con il quale si recepisce la Direttiva del 2008, recentissimamente approvato dal Consiglio dei ministri, dato che il mancato rispetto di una norma assurda da parte di molti comuni, facilmente prevedibile, determinerà la cessazione dei contributi regionali. Tecnicamente, dunque, una raccolta differenziata che non faccia parte di un ciclo industriale imprenditorialmente corretto non ha senso. Nelle condizioni nelle quali oggi è perlopiù realizzata, essa per i cittadini costituisce un costo, ma non solo: è anche una gran rottura di scatole. E’ certo che raccogliere i rifiuti in vari sacchetti a seconda della loro natura, trattenerli finché venga il momento di consegnarli agli addetti o al luogo di raccolta, risolvere l’imbarazzo circa la destinazione di materiali particolari, non è il massimo della vita: conosco molti uomini di carattere mite che danno in escandescenze al solo pensiero di doversi acconciare a questi comportamenti penosi. Né può convincerci a un atteggiamento più collaborativo il pensiero che così facendo contribuiamo al migliore andamento della vita sociale, dato che il concetto stesso di differenziazione è di assai dubbia validità. Potrei trovarci una certa validità solo nel caso in cui, naturalmente effettuando gli opportuni controlli, fosse lo stesso cittadino a cedere il frutto della differenziazione ad un operatore autorizzato, ricevendone il controvalore. La soluzione per oggi e per domani? Un poderoso programma di infrastrutturazione di impianti di termovalorizzazione su tutto il territorio nazionale, nei quali mandare a combustione il tal quale. Per aver espresso queste opinioni prenderò qualche altra parolaccia dagli ambientalisti, ma tanto ci sono abituato. E poi, insulti e critiche valgono quanto vale la rispettiva fonte, quindi ...
«Il Foglio» del 4 maggio 2010
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