di Franco Cardini
Parliamo di un film, Agora di Alejandro Amenábar, e di una donna del V secolo, Ipazia, una figura storica effettivamente esistita e il destino della quale è stato sotto molti aspetti esemplare.
Una donna che avrebbe meritato, per esser descritta in termini adeguati, il genio di Shakespeare; e che si è meritato quello del nostro Mario Luzi, il quale gli dedicò nel 1978 il suo intenso Libro di Ipazia, scegliendo per lei la misura appunto del dramma. Nessuno pensò allora, in tempi che pur non erano facili - era l'anno dell'assassinio di Moro -, a rimproverare al più grande esponente della cultura cattolica militante italiana il fatto di essersi inchinato con commozione sulla memoria di una martire pagana della ferocia d'una banda di cristiani fanatici.
Una donna che avrebbe meritato, per esser descritta in termini adeguati, il genio di Shakespeare; e che si è meritato quello del nostro Mario Luzi, il quale gli dedicò nel 1978 il suo intenso Libro di Ipazia, scegliendo per lei la misura appunto del dramma. Nessuno pensò allora, in tempi che pur non erano facili - era l'anno dell'assassinio di Moro -, a rimproverare al più grande esponente della cultura cattolica militante italiana il fatto di essersi inchinato con commozione sulla memoria di una martire pagana della ferocia d'una banda di cristiani fanatici.
Oggi, le cose appaiono diverse. Ma ci sono nel mezzo le polemiche accanite sul tema dei casi di pedofilia nella Chiesa cattolica, l'insorgere di numerosi fondamentalismi tra loro in guerra (compreso uno strisciante e insidioso fondamentalismo laicista) e soprattutto la caduta a picco del tono culturale medio della nostra società civile e la sua parallela regressione morale. Oggi, una discussione che non sia a gola spiegata e che non degeneri nella rissa volgare "non fa spettacolo": e, nella società dello spettacolo, si condanna a venir emarginata. Ecco perché bisogna rassegnarsi alle chiacchiere in libertà su un'importante vicenda storica e su un bel film. Sì, perché va detto che - alla faccia di "indiscrezioni" e di "rivelazioni" tutte abbastanza fasulle - non esiste lo straccio di una prova né che Amenábar abbia avuto sul serio l'intenzione di girare un film anticristiano o addirittura anticattolico, né che il suo film sia stato bloccato, in Italia, da una pregiudiziale censura ispirata da esponenti della Chiesa. Del resto, va detto che se anche così fosse - ed è strano che da noi arrivi soltanto adesso una pellicola che in altri paesi circola da mesi - ciò avrà potuto dipendere forse non tanto da un'ostilità da parte della Chiesa, ma dalla sua convinzione che il nostro pubblico è tutt'altro che maturo per accogliere e intendere correttamente un messaggio come quello. Il che è triste, ma è vero. Intanto, cominciamo con l'aspetto propriamente filmico del nostro oggetto di discussione. Amenábar è uno che prende una pupattola o una bellona, la schiaffa sul set e riesce a obbligarla ad esprimere (quando la stoffa c'è) la grande attrice che lei nasconde di solito dietro il bel faccino o le curve. Lo ha fatto magistralmente in The Others, con una Nicole Kidman nevrotica e allampanata signora ossessionata dai fantasmi che scopre poi - in un rovesciamento di piani degno di Lévi-Strauss e di Tzvetan Todorov - di esser lei il fantasma: con tutta la grande lezione antropologica e psicanalitica ma anche civile che se ne ricava, cioè che anche noi siamo "Altri". Ora prende Rachel Weisz, che ci aveva non filmicamente convinti, però certo sedotti come ragazzina sexy e svampita in un divertente fimaccio, La mummia, e ne fa una stella da Premio Oscar, scoprendo fra l'altro il suo purissimo profilo da statua greca che la rende tanto convincente nell'interpretazione della pura e virtuosa custode del tempio alessandrino della scienza.
Agora è un bel film, condotto con molta cura. La ricostruzione dell'Alessandria del V secolo, sospesa tra accurata ricerca archeologica ed heroic fantasy, una specie di kolossal degli Anni Cinquanta-Sessanta rivisitato dalle tecnologie digitali più sofisticate, è quasi commovente. Certo, gli errori e gli anacronismi si possono sempre trovare: ma insomma, un film è un film e - a meno che non lanci esso stesso la provocazione di presentarsi come scrupolosamente aderente alla verità storica - non va certo giudicato come si giudicherebbe un seminario di filologia o di archeologia. Del resto, basta riprendere un istante in mano un saggio scritto ormai alcuni anni or sono da Silvia Ronchey, Ipazia l'intellettuale, pubblicato nel 1994 nel libro Roma al femminile (Laterza), per rendersi conto che si è dinanzi a una ricostruzione dei fatti attenta ed equilibrata, al centro della quale c'è tuttavia un grave equivoco, di cui riparleremo: e che costituisce il vero handicap della proposta di Amenábar. Quel che in questo tempo di opposte idiozie bisogna cercar di riuscire a capire è che, con Agora, non ci troviamo affatto di fronte a un prodotto di volgare propaganda o di bassa polemica, un film che voglia "scandalizzare" proponendo il contrasto tra i pagani saggi e buoni e i cristiani brutti, sporchi e cattivi. I soliti teocons e neocons, che hanno piagnucolato sul fatto che saremmo davanti al solito "ultimo pregiudizio legittimo", l'attacco anticristiano, in un mondo nel quale non è più politically correct dir male di ebrei o di musulmani mentre dei cristiani in genere e dei cattolici in particolare, possono aver anche qualche ragione sul piano generale: ma non in questo caso.
Il fatto è che bisogna uscire da un lungo equivoco storico. Secoli di censura, di storiografia più o meno eurocentrica o distratta e di pregiudizi propagandistici hanno indotto a ritenere che, poiché il cristianesimo è religione di pace e d'amore (a differenza di ebraismo e d'Islam, "religioni di legge"), anche la storia delle società cristiane concrete è stata di conseguenza tale. Nemmeno per idea. Ferme restando le splendide pagine di carità e di abnegazione scritte da legioni di martiri e di missionari, quella dell'affermazione della fede cristiana dal IV secolo (cioè da quando Teodosio la impose come unico culto legittimo nell'impero) in poi, è stata storia di una religione propagata con la violenza oppure scesa autoritariamente dall'alto: storia di conversioni coatte oppure decise dai principi e accettate dai popoli. Vi sfido formalmente a proporre un solo esempio di conversione d'intere comunità (i casi individuali sono ovviamente un'altra cosa) che si sia verificato sulla base di parametri differenti.
S'inquadra in questo contesto l'episodio che riguarda Ipazia. Una donna bella, giovane, virtuosa, colta e saggia, una scienziata e filosofa neoplatonica, la quale fu barbaramente massacrata nell'Alessandria del 415 d. C. da una banda di parabalani, i "chierici-pretoriani" al servizio del patriarca Cirillo, uno dei principali Padri della Chiesa del tempo, avversario inflessibile di eretici, di pagani e di ebrei.
Il film mostra in fondo bene che v'erano altre posizioni all'interno della Chiesa, per quanto proponga in termini romanzeschi il rapporto tra Sinesio di Cirene (altro padre della Chiesa) e Ipazia. Vero è altresì che essa aveva anche allievi cristiani, che gli erano molto cari; così com'è vero che anche tra i funzionari imperiali v'erano posizioni differenti in ordine all'applicazione dell'editto di Teodosio che introduceva il cristianesimo come unica religione ufficiale consentita; e com'è vero che a fanatici cristiani si era dovuta, nel 391, la distruzione del tempio-biblioteca alessandrino del "Serapeo". Su Ipazia e sulle violenze che accompagnarono la cristianizzazione dell'impero si è steso per molti secoli un velo d'oblìo. Era ridicolo e antistorico, in realtà, questo tentativo di far passare la storia del cristianesimo come un'ininterrotta storia di pace e d'amore, cosa regolarmente smentita dalla realtà obiettiva (e non solo con le crociate, l'inquisizione o la "notte di san Bartolomeo"). È ridicolo, oggi, assumere Ipazia come elemento di una polemica anticattolica insieme con le storie dei preti pedofili. Semmai, quel che va segnalato nel film è un equivoco antistorico. Ipazia non era una scienziata moderna, tutta dedita all'esperienza e alla ragione di tipo immanente: era appunto una neoplatonica, il che significa che la sua interpretazione dell'universo e della vita era a sua volta profondamente radicata in un messaggio cosmico. La lotta del tempo non era tra scienza e fede, ma semmai tra un sistema mitico- religioso e una fede radicata nel creazionismo biblico e nella Rivelazione cristica. Una lotta tra due visioni entrambe altamente e profondamente spirituali. È questo l'equivoco da chiarire. Sul tipo di scientificità perseguito da Ipazia, ha ragione senza dubbio Giulio Giorello: l'universo tolemaico era tutt'altro che un mondo chiuso, v'era senza dubbio spazio per studi alternativi, anche nel suo àmbito, all'ipotesi geocentrica. Quel che non torna, e non è credibile, è l'aver fatto di Ipazia una specie di nonna di Galileo e magari di bisnonna di Margherita Haack. Il cosmo neoplatonico era una realtà vivente, la scienza neoplatonica era un sistema razionale ma non razionalistico, nel quale c'era spazio per una mistica dello spazio e delle corrispondenze tra cielo e terra, tra stelle, natura, corpo umano e anima. Ipazia, sacerdotessa del cosmo e dell'armonia siderea, non poteva accettare quella che per lei era la follìa della morte e della resurrezione d'un Dio fatto Uomo. E ciò ben diverso del conflitto tra fede e scienza, tra fede e ragione, che permea di sé il dramma della modernità. Ipazia non era affatto più "moderna"di Cirillo d'Alessandria.
Quanto appunto alle responsabilità del patriarca nelle malefatte dei suoi squadristi, il discorso è ancora aperto. Le fonti non sono molte, ma ci sono: Socrate Scolastico, Malalas e altri storici che hanno parlato di quell'eccidio, che indignò molti cristiani non meno che molti pagani. Ma le violenze c'erano: ad Alessandria come a Roma come ad Antiochia; per lungo tempo l'atmosfera fu più distesa ad Atene, poi arrivarono anche là. Non dimentichiamo che monofisiti e nestoriani furono costretti a emigrare dall'impero chiedendo asilo al negus d'Etiopia e all'imperatore sasanide e zoroastriano di Persia, e che il grande Giustiniano fece chiudere la scuola filosofica di Atene. Ipazia non fu la sola martire uccisa dai seguaci di Gesù. Erano Suoi cattivi seguaci? Può darsi. Piantiamola comunque con la mistificazione del cristianesimo buonista. Goffredo di Buglione, Thomas de Torquemada ed Hernan Cortés non furono affatto delle sanguinarie eccezioni. Anzi, è mia ferma e non arbitraria convinzione che fossero migliori di molti altri.
Agora è un bel film, condotto con molta cura. La ricostruzione dell'Alessandria del V secolo, sospesa tra accurata ricerca archeologica ed heroic fantasy, una specie di kolossal degli Anni Cinquanta-Sessanta rivisitato dalle tecnologie digitali più sofisticate, è quasi commovente. Certo, gli errori e gli anacronismi si possono sempre trovare: ma insomma, un film è un film e - a meno che non lanci esso stesso la provocazione di presentarsi come scrupolosamente aderente alla verità storica - non va certo giudicato come si giudicherebbe un seminario di filologia o di archeologia. Del resto, basta riprendere un istante in mano un saggio scritto ormai alcuni anni or sono da Silvia Ronchey, Ipazia l'intellettuale, pubblicato nel 1994 nel libro Roma al femminile (Laterza), per rendersi conto che si è dinanzi a una ricostruzione dei fatti attenta ed equilibrata, al centro della quale c'è tuttavia un grave equivoco, di cui riparleremo: e che costituisce il vero handicap della proposta di Amenábar. Quel che in questo tempo di opposte idiozie bisogna cercar di riuscire a capire è che, con Agora, non ci troviamo affatto di fronte a un prodotto di volgare propaganda o di bassa polemica, un film che voglia "scandalizzare" proponendo il contrasto tra i pagani saggi e buoni e i cristiani brutti, sporchi e cattivi. I soliti teocons e neocons, che hanno piagnucolato sul fatto che saremmo davanti al solito "ultimo pregiudizio legittimo", l'attacco anticristiano, in un mondo nel quale non è più politically correct dir male di ebrei o di musulmani mentre dei cristiani in genere e dei cattolici in particolare, possono aver anche qualche ragione sul piano generale: ma non in questo caso.
Il fatto è che bisogna uscire da un lungo equivoco storico. Secoli di censura, di storiografia più o meno eurocentrica o distratta e di pregiudizi propagandistici hanno indotto a ritenere che, poiché il cristianesimo è religione di pace e d'amore (a differenza di ebraismo e d'Islam, "religioni di legge"), anche la storia delle società cristiane concrete è stata di conseguenza tale. Nemmeno per idea. Ferme restando le splendide pagine di carità e di abnegazione scritte da legioni di martiri e di missionari, quella dell'affermazione della fede cristiana dal IV secolo (cioè da quando Teodosio la impose come unico culto legittimo nell'impero) in poi, è stata storia di una religione propagata con la violenza oppure scesa autoritariamente dall'alto: storia di conversioni coatte oppure decise dai principi e accettate dai popoli. Vi sfido formalmente a proporre un solo esempio di conversione d'intere comunità (i casi individuali sono ovviamente un'altra cosa) che si sia verificato sulla base di parametri differenti.
S'inquadra in questo contesto l'episodio che riguarda Ipazia. Una donna bella, giovane, virtuosa, colta e saggia, una scienziata e filosofa neoplatonica, la quale fu barbaramente massacrata nell'Alessandria del 415 d. C. da una banda di parabalani, i "chierici-pretoriani" al servizio del patriarca Cirillo, uno dei principali Padri della Chiesa del tempo, avversario inflessibile di eretici, di pagani e di ebrei.
Il film mostra in fondo bene che v'erano altre posizioni all'interno della Chiesa, per quanto proponga in termini romanzeschi il rapporto tra Sinesio di Cirene (altro padre della Chiesa) e Ipazia. Vero è altresì che essa aveva anche allievi cristiani, che gli erano molto cari; così com'è vero che anche tra i funzionari imperiali v'erano posizioni differenti in ordine all'applicazione dell'editto di Teodosio che introduceva il cristianesimo come unica religione ufficiale consentita; e com'è vero che a fanatici cristiani si era dovuta, nel 391, la distruzione del tempio-biblioteca alessandrino del "Serapeo". Su Ipazia e sulle violenze che accompagnarono la cristianizzazione dell'impero si è steso per molti secoli un velo d'oblìo. Era ridicolo e antistorico, in realtà, questo tentativo di far passare la storia del cristianesimo come un'ininterrotta storia di pace e d'amore, cosa regolarmente smentita dalla realtà obiettiva (e non solo con le crociate, l'inquisizione o la "notte di san Bartolomeo"). È ridicolo, oggi, assumere Ipazia come elemento di una polemica anticattolica insieme con le storie dei preti pedofili. Semmai, quel che va segnalato nel film è un equivoco antistorico. Ipazia non era una scienziata moderna, tutta dedita all'esperienza e alla ragione di tipo immanente: era appunto una neoplatonica, il che significa che la sua interpretazione dell'universo e della vita era a sua volta profondamente radicata in un messaggio cosmico. La lotta del tempo non era tra scienza e fede, ma semmai tra un sistema mitico- religioso e una fede radicata nel creazionismo biblico e nella Rivelazione cristica. Una lotta tra due visioni entrambe altamente e profondamente spirituali. È questo l'equivoco da chiarire. Sul tipo di scientificità perseguito da Ipazia, ha ragione senza dubbio Giulio Giorello: l'universo tolemaico era tutt'altro che un mondo chiuso, v'era senza dubbio spazio per studi alternativi, anche nel suo àmbito, all'ipotesi geocentrica. Quel che non torna, e non è credibile, è l'aver fatto di Ipazia una specie di nonna di Galileo e magari di bisnonna di Margherita Haack. Il cosmo neoplatonico era una realtà vivente, la scienza neoplatonica era un sistema razionale ma non razionalistico, nel quale c'era spazio per una mistica dello spazio e delle corrispondenze tra cielo e terra, tra stelle, natura, corpo umano e anima. Ipazia, sacerdotessa del cosmo e dell'armonia siderea, non poteva accettare quella che per lei era la follìa della morte e della resurrezione d'un Dio fatto Uomo. E ciò ben diverso del conflitto tra fede e scienza, tra fede e ragione, che permea di sé il dramma della modernità. Ipazia non era affatto più "moderna"di Cirillo d'Alessandria.
Quanto appunto alle responsabilità del patriarca nelle malefatte dei suoi squadristi, il discorso è ancora aperto. Le fonti non sono molte, ma ci sono: Socrate Scolastico, Malalas e altri storici che hanno parlato di quell'eccidio, che indignò molti cristiani non meno che molti pagani. Ma le violenze c'erano: ad Alessandria come a Roma come ad Antiochia; per lungo tempo l'atmosfera fu più distesa ad Atene, poi arrivarono anche là. Non dimentichiamo che monofisiti e nestoriani furono costretti a emigrare dall'impero chiedendo asilo al negus d'Etiopia e all'imperatore sasanide e zoroastriano di Persia, e che il grande Giustiniano fece chiudere la scuola filosofica di Atene. Ipazia non fu la sola martire uccisa dai seguaci di Gesù. Erano Suoi cattivi seguaci? Può darsi. Piantiamola comunque con la mistificazione del cristianesimo buonista. Goffredo di Buglione, Thomas de Torquemada ed Hernan Cortés non furono affatto delle sanguinarie eccezioni. Anzi, è mia ferma e non arbitraria convinzione che fossero migliori di molti altri.
«Cronache di Liberal» del 29 aprile 2010
Nessun commento:
Posta un commento