Una ragazza uccisa dalla leucemia diventa protagonista di un romanzo. L'amarezza della famiglia
di Cristina Taglietti
Alessandro D' Avenia risponde al dolore della mamma di Irene. Nelle pagine di questo libro ci sono anche i miei dolori, i miei lutti
«Penso al dolore di una madre che ha perso la figlia e posso immaginare che questo romanzo l'abbia in qualche modo rinnovato, ma non credo di aver fatto nulla di male, nulla di sbagliato». Alessandro D'Avenia non ha più parlato con la madre di Irene, la ragazza romana morta di leucemia nel 2004, che ha ispirato la figura di Beatrice nel suo romanzo Bianca come il latte, rossa come il sangue. «Posso solo immaginare il dolore che c'è dentro di lei e lo rispetto profondamente» dice D'Avenia ricostruendo la genesi del libro e cercando di interpretare l'amarezza della madre. Un romanzo nato da un'ora di supplenza al liceo Dante di Roma, quando uno studente gli racconta la vicenda di una compagna di scuola che l'anno precedente si era ammalata di leucemia. «Non sapevo nulla di lei, nemmeno come si chiamasse. So solo che quella storia, purtroppo non unica, mi colpì e mi commosse profondamente. È una storia in cui ci sono le tre cose più importanti: la vita, l'amore, la morte. Mi sono immaginato la storia e ho provato a mettermi nei panni di quel ragazzo, che nel libro ho chiamato Leo. Ma anche lui, il vero Leo, l'ho visto solo quella volta, non l'ho mai più sentito, né prima né dopo l'uscita del libro, in mente ho solo il suo volto sfocato mentre racconta. Dentro questo romanzo ho riversato anche la mia vita, le mie storie personali di dolore e di lutto e Beatrice per me è diventata una porta di passaggio tra la terra e il cielo, un personaggio meraviglioso, di cui sono innamorato. Ci ho messo sei anni per elaborare il libro, me lo sono portato dentro il cuore tutto quel tempo e poi l'ho scritto». Il romanzo esce il 27 gennaio. L'editore Mondadori ci punta molto e lancia una grossa campagna di marketing, creando una pagina su Facebook che accolga i commenti. «Pochi giorni dopo la pubblicazione ho trovato il messaggio di Francesca, la madre di Irene. Un messaggio molto bello in cui mi ringraziava di aver fatto rivivere sua figlia. Mi hanno scritto anche dei compagni di classe, tutti messaggi positivi. Per me però il messaggio della madre è stata la gioia più grande, gliel'ho anche scritto. Mi sono detto: forse sono riuscito a raccontare una storia universale. Ci siamo parlati al telefono, abbiamo scambiato qualche sms. Mi sembrava che entrambi avessimo lo stesso desiderio di testimoniare quanto sono belli questi ragazzi, profondi, veri, lontani dagli stereotipi che li vogliono tutti menefreghisti e superficiali. Avevamo anche deciso di incontrarci, però quando sono stato a Roma non c'è stata l'occasione. Poi non so che cosa sia successo in questi ultimi giorni. Ho visto che sono stati rimossi i messaggi che mi aveva mandato e ho letto le sue parole sul Corriere di ieri: che questa è una storia che fa male, che brucia. Io sarei ben contento di parlarle, di capire. Ma non oso chiamarla: so che c'è un dolore grandissimo che va rispettato». Per ora D'Avenia di quello che è successo ha parlato con i suoi alunni del liceo San Carlo di Milano, dove oggi insegna. «Loro sono sempre buoni con me, mi hanno consolato, sanno che ho un grandissimo rispetto per le loro vite personali». La realtà, e in particolare la realtà degli adolescenti, è ciò a cui D'Avenia si ispira, ciò che gli interessa di più e lo sostiene con una foga e una passione da missionario che lo fa assomigliare davvero al professor Keating de L'attimo fuggente che ha eletto a suo modello. «La cronaca parla sempre di quelli che hanno problemi, porta alla luce i bulli, gli indifferenti. Ma io so, perché lo vedo ogni giorno, che la maggior parte non è così. A me interessano quelli che si ribellano, contestano ma si impegnano, crescono, imparano. Come non mi interessa raccontare il professore che entra in classe e apre il giornale. E infatti nel romanzo parlo di due professori: il Sognatore e quello di religione, che assomigliano a due insegnati che ho avuto io a Palermo: quello di filosofia e don Pino Puglisi, ucciso dalla mafia nel '93. Mi accusano di essere buonista? Pazienza. Io sono solo ottimista, altrimenti non farei l'insegnante a mille euro al mese. Amo far vedere il bene». Un ottimismo che rischia di diventare altrettanto parziale di certi racconti che invece mostrano solo il male del mondo. D'Avenia risponde con una frase che potrebbe stare nel suo libro: «Il fatto è che a volte il bene è talmente disperso che bisogna chiamarlo a raccolta per farlo vedere». Di certo il bene lo vede nei suoi allievi, quegli stessi che hanno letto la prima stesura: «Ne ho dato una copia e loro l'hanno fatta girare. Non tutti l'hanno letto naturalmente, chi l'ha fatto mi ha dato dei consigli, mi ha spinto a sviluppare alcuni personaggi. Nico, il migliore amico di Leo, è nato proprio perché un ragazzo mi ha detto: ma chi è questo Nico? Io vorrei saperne di più, che cosa fa, come si comporta, come si diverte». Il mondo per D'Avenia non finisce nella classe ma lì c' è il mondo che gli interessa. «C'è già chi mi chiede se voglio abbandonare l'insegnamento per dedicarmi alla scrittura, ma io non ho niente da raccontare se non sto con i ragazzi».
«Corriere della Sera» del 4 febbraio 2010
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