Accedere a un viso segreto facilita la comunicazione col divino, nello stesso tempo proteggendo dai suoi fulmini Donde viene allora il senso negativo che attribuiamo alla maschera, metafora della finzione e dell’inganno?
di Roberto Beretta
Alcuni danno la colpa ai Padri della Chiesa, contrari al teatro classico. Un’altra ipotesi «teologica»: è cattivo ogni schermo che nasconde il volto dell’uomo, immagine di Dio
«Ti conosco, mascherina!»... Ma chi davvero può dire di conoscere una maschera? E non solo perché – ovviamente – si tratta di un oggetto che per natura nasconde, cela l’identità, protegge; ma anche per il fatto che uno strumento tanto ricco di storia e di significati risulta alla fine estremamente ambiguo. Ne fossimo consci, forse non caleremmo alla leggera quella visiera di cartone colorato sugli occhi dei nostri figli a carnevale: mica è roba da scherzarci, la maschera... Un «volto artificiale» che non si sa bene se serva di più a far ridere o a spaventare, a camuffare oppure a richiamare l’attenzione. Fu così dalla notte dei tempi, d’altronde: pare che la più antica maschera conosciuta sia infatti una in selce attribuita all’uomo di Neanderthal, 32.000 anni or sono. Poi ci sono le grotte di Lascaux (Paleolitico, 15-16 mila anni fa), dove i cacciatori sono dipinti travestiti da animali: forse semplicemente per mimetizzarsi e catturarli meglio, forse invece per appropriarsi di forze magiche o poteri più «bestiali». Si passa quindi a un teschiomaschera del 7000 a. C. (e qui già si fa largo nell’interpretazione il rapporto tra morte e vita), dopodiché è un attimo scivolare sino alle stupende e preziose maschere funerarie dei sarcofagi egizi: indubbiamente destinate a offrire un volto presentabile del defunto nell’aldilà, piuttosto che ad impressionare i posteri rimasti di qua. La maschera sembra comunque uno strumento di passaggio, un ponte sul quale attraversare un momento in qualche modo pericoloso: è così per le maschere mortuarie – adottate in molte culture: dai minoici agli inca, dai cannibali ai santi –, per quelle che servono ai rituali d’iniziazione tipici dell’Africa (ma presenti in residuo anche in certi folklori europei) nonché per le semplici maschere di Carnevale; non è questa forse la festa di confine, infatti, tra tempo profano e sacra Quaresima, tra pazzia e penitenza?
Mutare identità – difendendo nello stesso tempo la propria – aiuta a superare le ansie di un cambiamento, mimetizza la paura, esorcizza i mostri dell’ignoto e insomma preserva da eventuali incerti del destino.
Almeno così vogliamo credere. La maschera dunque protegge: persino quando non è un solido elmo da cavaliere o la regolamentare visiera da saldatore, una gabbia metallica da giocatore di hockey o il cesto degli spadaccini, o persino il passamontagna impenetrabile da rapinatore. La semplice striscia di stoffa nera che difende l’identità di Zorro, ad esempio, o la bandana multicolore di altri protagonisti da fumetto è garantista della privacy non meno che tutela della forza stessa del supereroe (basta infatti che l’Uomo Ragno o Batman se ne rivestano, perché automaticamente ne acquistino i poteri). È difesa passiva tanto quanto attiva, cioè; scherma e provoca insieme. È spesso stato così, anche nel carnevale: le «bautte» veneziane servivano certamente per prolungare le licenze festaiole senza compromettere la rispettabilità di chi le portava, ma anche come esche per attirare l’attenzione. Tant’è vero che il loro lungo becco – si è scoperto – poteva servire per ospitare degli allettanti profumi, che si credevano utili tra l’altro anche ad allontanare le infezioni. Ma la maschera può essere anche repulsiva, anzi offensiva: sono noti i casi etnologici di popoli che se ne rivestono andare in guerra, creando effetti terrorizzanti nelle file avversarie e insieme esorcizzando in chi la porta il traumatico momento del «faccia a faccia» col nemico. «Ci fu un tempo – ha notato lo scenografo inglese del secolo scorso Edward Craig – in cui la maschera serviva per la guerra, quando la guerra era considerata arte». Oggi sono rimaste semmai le maschere antigas... Sembra peraltro che le uniche civiltà che non conoscono la scultura facciale bellica siano alcune tribù polinesiane, dove la medesima funzione è svolta però dalla pittura del corpo o dal tatuaggio. Comunque è sempre l’identica necessità di parere diversi (e migliori) da quel che si è: in fondo, un espediente psicologico non troppo distante dalla moderna enfasi sull’«immagine», allorché la «maschera» del doppiopetto blu, di una cravatta e del perenne sorriso aiutano ad affrontare la quotidiana «guerra» delle società più avanzate.
Un’altra novità dei più recenti studi riguarda invece le maschere del teatro classico, cui di solito si attribuiva una funzione di amplificazione vocale indispensabile per farsi sentire negli spettacoli all’aperto; sembra invece che fosse più decisivo il loro valore d’identificazione del personaggio (in latino, si sa, «maschera» si diceva persona ...) nonché di caratterizzazione satirica.
L’attore rinunciava cioè a se stesso, si sacrificava perché emergesse – persino nel volto – un altro. E in tal senso la maschera diventa pure strumento religioso, come in effetti è stato in parecchie culture, dagli sciamani ai riti dionisiaci. Sosteneva d’altronde Eraclito che «il destino dell’uomo è di essere la maschera di un dio». Non solo: accedere – dopo opportuni riti di purificazione – a un volto segreto e forse magico potrebbe facilitare la comunicazione con il divino, nello stesso tempo proteggendo dai suoi fulmini. Da dove viene allora il significato negativo che oggi (carnevale escluso) alleghiamo alla maschera, in quanto veste metaforica della finzione e dell’inganno? La vulgata sostiene che la colpa sarebbe dei Padri della Chiesa, i quali moralisticamente si scagliarono contro il teatro classico proibendone le repliche. Ma è proprio così?
Un’altra ipotesi proviene sempre dall’ambito teologico: la maschera ha connotazione deteriore in quanto nasconde il volto dell’uomo, immagine di Dio. Senza contare che durante le sacre rappresentazioni del Medioevo si rivestiva il diavolo con una maschera orrida o grottesca (secondo le incertissime etimologie, il nome stesso del nostro oggetto deriverebbe da masca nel senso di «strega» o masc «stregone»). La maschera – se non la trance di mistici e sciamani – aiuta il transfert ; chi la indossa (è anche l’esperienza reale di molti attori) muta personalità. Non a caso nell’autore della letteratura italiana più vicino alla psicoanalisi, Pirandello, il tema è ricorrente. La maschera, l’alter ego diventa paradossalmente uno specchio – l’unico in cui è dato di riconoscersi davvero. Essa è infatti uno strumento che riduce sì la mimica (il modo umano per camuffarsi e sembrare ciò che non si è), però concentra tutta l’attenzione sugli occhi: il pozzo acqueo attraverso il quale si penetra nell’intimità più vera. Dunque in quei buchi sta forse il segreto del volto artificiale: «Tutto ciò che è profondo ama la maschera», firmato Friedrich Nietzsche. Ancora sicuri di mascherare i vostri figli a Carnevale?
Mutare identità – difendendo nello stesso tempo la propria – aiuta a superare le ansie di un cambiamento, mimetizza la paura, esorcizza i mostri dell’ignoto e insomma preserva da eventuali incerti del destino.
Almeno così vogliamo credere. La maschera dunque protegge: persino quando non è un solido elmo da cavaliere o la regolamentare visiera da saldatore, una gabbia metallica da giocatore di hockey o il cesto degli spadaccini, o persino il passamontagna impenetrabile da rapinatore. La semplice striscia di stoffa nera che difende l’identità di Zorro, ad esempio, o la bandana multicolore di altri protagonisti da fumetto è garantista della privacy non meno che tutela della forza stessa del supereroe (basta infatti che l’Uomo Ragno o Batman se ne rivestano, perché automaticamente ne acquistino i poteri). È difesa passiva tanto quanto attiva, cioè; scherma e provoca insieme. È spesso stato così, anche nel carnevale: le «bautte» veneziane servivano certamente per prolungare le licenze festaiole senza compromettere la rispettabilità di chi le portava, ma anche come esche per attirare l’attenzione. Tant’è vero che il loro lungo becco – si è scoperto – poteva servire per ospitare degli allettanti profumi, che si credevano utili tra l’altro anche ad allontanare le infezioni. Ma la maschera può essere anche repulsiva, anzi offensiva: sono noti i casi etnologici di popoli che se ne rivestono andare in guerra, creando effetti terrorizzanti nelle file avversarie e insieme esorcizzando in chi la porta il traumatico momento del «faccia a faccia» col nemico. «Ci fu un tempo – ha notato lo scenografo inglese del secolo scorso Edward Craig – in cui la maschera serviva per la guerra, quando la guerra era considerata arte». Oggi sono rimaste semmai le maschere antigas... Sembra peraltro che le uniche civiltà che non conoscono la scultura facciale bellica siano alcune tribù polinesiane, dove la medesima funzione è svolta però dalla pittura del corpo o dal tatuaggio. Comunque è sempre l’identica necessità di parere diversi (e migliori) da quel che si è: in fondo, un espediente psicologico non troppo distante dalla moderna enfasi sull’«immagine», allorché la «maschera» del doppiopetto blu, di una cravatta e del perenne sorriso aiutano ad affrontare la quotidiana «guerra» delle società più avanzate.
Un’altra novità dei più recenti studi riguarda invece le maschere del teatro classico, cui di solito si attribuiva una funzione di amplificazione vocale indispensabile per farsi sentire negli spettacoli all’aperto; sembra invece che fosse più decisivo il loro valore d’identificazione del personaggio (in latino, si sa, «maschera» si diceva persona ...) nonché di caratterizzazione satirica.
L’attore rinunciava cioè a se stesso, si sacrificava perché emergesse – persino nel volto – un altro. E in tal senso la maschera diventa pure strumento religioso, come in effetti è stato in parecchie culture, dagli sciamani ai riti dionisiaci. Sosteneva d’altronde Eraclito che «il destino dell’uomo è di essere la maschera di un dio». Non solo: accedere – dopo opportuni riti di purificazione – a un volto segreto e forse magico potrebbe facilitare la comunicazione con il divino, nello stesso tempo proteggendo dai suoi fulmini. Da dove viene allora il significato negativo che oggi (carnevale escluso) alleghiamo alla maschera, in quanto veste metaforica della finzione e dell’inganno? La vulgata sostiene che la colpa sarebbe dei Padri della Chiesa, i quali moralisticamente si scagliarono contro il teatro classico proibendone le repliche. Ma è proprio così?
Un’altra ipotesi proviene sempre dall’ambito teologico: la maschera ha connotazione deteriore in quanto nasconde il volto dell’uomo, immagine di Dio. Senza contare che durante le sacre rappresentazioni del Medioevo si rivestiva il diavolo con una maschera orrida o grottesca (secondo le incertissime etimologie, il nome stesso del nostro oggetto deriverebbe da masca nel senso di «strega» o masc «stregone»). La maschera – se non la trance di mistici e sciamani – aiuta il transfert ; chi la indossa (è anche l’esperienza reale di molti attori) muta personalità. Non a caso nell’autore della letteratura italiana più vicino alla psicoanalisi, Pirandello, il tema è ricorrente. La maschera, l’alter ego diventa paradossalmente uno specchio – l’unico in cui è dato di riconoscersi davvero. Essa è infatti uno strumento che riduce sì la mimica (il modo umano per camuffarsi e sembrare ciò che non si è), però concentra tutta l’attenzione sugli occhi: il pozzo acqueo attraverso il quale si penetra nell’intimità più vera. Dunque in quei buchi sta forse il segreto del volto artificiale: «Tutto ciò che è profondo ama la maschera», firmato Friedrich Nietzsche. Ancora sicuri di mascherare i vostri figli a Carnevale?
«Avvenire» del 7 febbraio 2010
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