07 febbraio 2010

La «lupa» di Dante che divora il cuore

di Salvatore Martinez
Così Zenone di Verona, padre della Chiesa del IV secolo, si esprime sul tema dell’avarizia nel suo omonimo trattato: «Potessero tutti gli uomini spogliarsi dell’amore per l’avarizia con quella facilità con cui la biasimano! Ma essa è un’incantatrice, un dolce male, una maledizione per l’umanità tutta, in ogni tempo. Giustamente Dio odia l’avarizia: è una brama senza fondo, un desiderio di rapina che non ha confine, una tensione che non trova pace, che non conosce contento. Spezza la fedeltà, spegne ogni sentimento, pone se stessa al di sopra dei diritti divini e, con argomentazioni cavillose, riduce a nulla ogni diritto umano e, se le fosse possibile, usurperebbe il mondo intero» (I, 10; 11).
La philargyría (dal greco «attaccamento al denaro»), ricorda san Paolo al discepolo Timoteo, è «la radice di tutti i mali» (1Tm 6,10), un’idolatria insaziabile che scalza il primato di Dio nella vita dell’uomo e lo rende «egolatrico», cioè adoratore narcisista delle sue voglie. Il poeta Dante, nel Purgatorio, maledice l’avarizia, definendola «antica lupa che più di tutte l’altre bestie hai preda per la tua fame sanza fine cupa!» (XX, 10-12).
I mezzi di comunicazione, come un triste ritornello, vanno ripetendo: «Bruciati miliardi di euro e di dollari». In realtà, a bruciare è la grande miseria umana, tanto più devastante e generatrice di ingiustizie sociali quanto più determinata dall’assenza di Dio, della verità di Dio sull’uomo, da una malintesa nozione di «libertà» che tende sempre più a far coincidere la felicità umana con il bramare ogni bene disponibile, senza alcun limite spirituale e morale. Il papa Benedetto XVI, a Sydney, affermava: «In molte nostre società, accanto alla prosperità materiale, si sta allargando il deserto spirituale: un vuoto interiore, una paura indefinibile, un nascosto senso di disperazione» (Gmg 2008).
L’uomo, così, finisce con l’essere vinto dalle cose che vince e mentre acquista avidamente nuovi beni terreni perde se stesso allontanandosi dal cielo. Come sono vere le parole di nostro Signore: «Dov’è il tuo tesoro, lì è anche il tuo cuore» (Mt 6,21). Ma cosa è questo tesoro dell’uomo se non il raccolto faticoso di una nuova seminagione di vita spirituale, in un tempo sempre più esteriorizzato e irretito da facili e perversi paradisi? Vivendo in un tempo sempre più pervaso da «siccità» di valori spirituali stiamo supinamente accettando che il regno del soggettivismo esasperato continui a produrre e a giustificare il moltiplicarsi di violenza e di crudeltà. Sì, perché l’egoismo è scuola di crudeltà! Potranno gli uomini vedere questo nostro mondo con occhi nuovi, trasfigurati dallo Spirito? Chi è in grado di farlo sa che la vita è amore di dedizione, di gratuità, esperienza esaltante e terribile insieme, che costa lacrime e sangue, che fa dell’amore «cristiano» una vita sofferta, offerta, offesa, eppure capace di redimere da ogni vizio che porta alla morte corporale e spirituale.
La nostra vita non è un viaggio verso l’ignoto; ognuno di noi ben conosce le proprie miserie, le situazioni che lo affliggono, il suo segreto bisogno d’aiuto. Solo dallo Spirito di Dio discende quell’ordine interiore, quell’intimo conforto che ci permette di resistere al male che impera indomito nel nostro cuore ancor prima che tra le pieghe della storia. Dobbiamo ridare un significato nuovo a questo mondo; agli uomini il gusto delle cose interiori, alla vita nuove inquietudini spirituali: non si può vivere soltanto di frigoriferi, di bilanci bancari, di sms, di parole crociate e di lotterie. Così il vivere è già morire! Occorre un sussulto di passione e un sentimento più alto, così che i motivi di interesse, di orgoglio e di dominio che disintegrano la vita sociale possano essere contenuti e repressi. Un nuovo ethos, un’etica delle virtù che segni una profonda stagione di rinnovamento e di conversione.
«Avvenire» del 7 febbraio 2010

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