Un nuovo studio rivela: fu un camilliano a scoprire il primo contagiato dalla peste del 1630, citato anche dai «Promessi Sposi».
di Roberto Beretta
Fra Cristoforo? Era un camilliano! Un momento, c’è un errore: lo sanno tutti, infatti, che il frate manzoniano era un cappuccino, diventato tale dopo una tormentata conversione. Né certo si può confondere il saio bigio dei seguaci di san Francesco con la sgargiante croce rossa che domina la talare dei figli di san Camillo de’ Lellis... Eppure succede più o meno così: il religioso che nei Promessi Sposi scoprì per primo la peste del 1630 potrebbe essere stato ispirato non tanto a un cappuccino, bensì alla figura del camilliano fratel Giulio Cesare Terzago; che per l’appunto prestò servizio agli appestati in un lazzaretto milanese, fino a morire per lo stesso contagio.
L’ipotesi era già stata documentata con una certa ampiezza nel 1930 in un libro di padre Mario Vanti su I camilliani, il Manzoni e la peste del 1630; ma ora torna alla ribalta grazie allo studio di Maurizio De Filippis ed Elisabetta Zanarotti Tiranini su San Camillo de Lellis e l’Ordine dei Ministri degli Infermi nella storia della Chiesa di Milano, che è in uscita per le edizioni Ares (pp. 262, euro 20) e sarà presentato il 13 febbraio alle 11 nell’aula magna dell’Ospedale Sacco di Milano da Marisa Sfondrini, Alberto Scanni e padre Vittorio Paleari.
In un capitolo su «I Crociferi a Milano», i due autori dedicano ampio spazio alla questione, esaminando con accuratezza una discreta mole di documenti storici ed arrivando a identificare in un camilliano quel «buon frate» che il romanzo cita come il primo, già nell’autunno 1629, ad annunciare l’arrivo del contagio a Milano. Si tratta appunto di fratel Terzago, nobile milanese non più giovanissimo (era nato infatti nel 1584 e si era fatto camilliano a vent’anni, accolto dal fondatore stesso) e capo-infermiere alla Ca Granda: l’Ospedale maggiore del capoluogo lombardo. All’epoca i «ministri degli infermi» seguaci di san Camillo facevano voto speciale di dedicarsi al «perenne servizio dei malati anche colpiti da peste»; difatti Terzago era stato a Palermo durante l’epidemia scoppiata nel capoluogo siciliano tra il 1624 e il 1626, distinguendosi per dedizione nella responsabilità di un lazzaretto: «Per poter attendere a tutti i bisogni con sollecitudine – racconta una cronaca dell’epoca – cavalcava un animaletto stando in volta continuamente di giorno e di notte, senza nessun risparmio; faceva infinite opere di carità... et spesso era visto pigliarsi le creature in braccio che languendo aspettavano la morte, gli faceva le minestre et l’imboccava».
Dopo 4 mesi, però, anche il religioso si era ammalato e venne inviato prima in quarantena, poi in convalescenza e infine nella patria Milano, dove i suoi confratelli lavoravano appunto all’Ospedale Maggiore (peraltro con qualche difficoltà di burocrazia ecclesiastica, che non permetteva loro di avere una chiesa pubblica). Ed è probabilmente grazie all’occhio clinico acquisito sul campo che fratel Terzago fu in grado di diagnosticare la peste nel primo infetto della città, quel soldato Lovato o Locati che anche Manzoni cita al capitolo XXXI del suo gran libro. Purtroppo però l’allarme del camilliano fu colpevolmente disatteso dalle autorità, anche nel vano tentativo di non spargere il panico tra la popolazione. Così più passava il tempo, e più numerosi i monatti dovevano trasportare i malati al lazzaretto grande o di Porta Orientale, nel quale andarono a servire sia i crociferi sia i cappuccini. L’epidemia raggiunse poi l’apice dalla primavera del 1630 in avanti, fino a dicembre; alla fine del morbo, dei 130 mila abitanti ne rimanevano circa 60 mila. E i religiosi furono in prima fila nell’assistenza. I camilliani, in particolare, contavano la loro prima vittima già il 15 aprile e alla fine, su 50 impegnati in città, i deceduti saranno la metà. Si aprivano infatti anche altri lazzaretti, pare uno per ogni porta milanese, e dal luglio fratel Terzago – che aveva contratto la malattia alla Ca’ Granda ed era guarito – fu destinato con due confratelli a quello di San Barnaba presso Porta Ticinese, capace di 4000 malati.
Testimonia il confratello padre Vanti: «Per due mesi, quanti sopravvisse, egli fu là dentro l’angelo della vita e della buona morte»; fino a morire egli stesso, in una data incerta tra il 19 agosto e il 2 settembre 1630. Manzoni ne avrebbe ricavato la vicenda attraverso la sua fonte, il medico Alessandro Tadino, che nel suo Ragguaglio della gran peste (1648) cita fratel Terzago per nome omettendone però l’appartenenza ai camilliani. Da cui la tendenza degli interpreti a identificare l’innominato frate manzoniano con un cappuccino, visto che il romanziere cita a man salva i religiosi di quest’ordine.
Del resto Manzoni non disponeva sul camilliano della completa documentazione poi ritrovata e tuttora conservata nell’Archivio di Stato milanese, né le Memorie delle origini crocifere pubblicate nel 1676 da padre Domenico Girolamo Regi, in cui si romanza la fine di fratel Terzago attribuendola proprio agli untori di manzoniana memoria: «Cavata un ampolla, in cui creder si puote che vi fosse il liquore delle bave dei dragoni, o di cerbero infernale, là dove essendo egli poi caduto ed ungersene, assalito indi a poco da fiero accidente, a pena preparatosi coi sacramenti, religiosamente se ne passò al Signore». Un benefico «effetto collaterale» per il sacrificio del religioso e dei confratelli, tuttavia, ci fu: convincere l’arcivescovo Borromeo (in precedenza diffidente) a regolarizzare la presenza dei crociferi nella metropoli lombarda. Dove i camilliani sono tuttora attivissimi.
L’ipotesi era già stata documentata con una certa ampiezza nel 1930 in un libro di padre Mario Vanti su I camilliani, il Manzoni e la peste del 1630; ma ora torna alla ribalta grazie allo studio di Maurizio De Filippis ed Elisabetta Zanarotti Tiranini su San Camillo de Lellis e l’Ordine dei Ministri degli Infermi nella storia della Chiesa di Milano, che è in uscita per le edizioni Ares (pp. 262, euro 20) e sarà presentato il 13 febbraio alle 11 nell’aula magna dell’Ospedale Sacco di Milano da Marisa Sfondrini, Alberto Scanni e padre Vittorio Paleari.
In un capitolo su «I Crociferi a Milano», i due autori dedicano ampio spazio alla questione, esaminando con accuratezza una discreta mole di documenti storici ed arrivando a identificare in un camilliano quel «buon frate» che il romanzo cita come il primo, già nell’autunno 1629, ad annunciare l’arrivo del contagio a Milano. Si tratta appunto di fratel Terzago, nobile milanese non più giovanissimo (era nato infatti nel 1584 e si era fatto camilliano a vent’anni, accolto dal fondatore stesso) e capo-infermiere alla Ca Granda: l’Ospedale maggiore del capoluogo lombardo. All’epoca i «ministri degli infermi» seguaci di san Camillo facevano voto speciale di dedicarsi al «perenne servizio dei malati anche colpiti da peste»; difatti Terzago era stato a Palermo durante l’epidemia scoppiata nel capoluogo siciliano tra il 1624 e il 1626, distinguendosi per dedizione nella responsabilità di un lazzaretto: «Per poter attendere a tutti i bisogni con sollecitudine – racconta una cronaca dell’epoca – cavalcava un animaletto stando in volta continuamente di giorno e di notte, senza nessun risparmio; faceva infinite opere di carità... et spesso era visto pigliarsi le creature in braccio che languendo aspettavano la morte, gli faceva le minestre et l’imboccava».
Dopo 4 mesi, però, anche il religioso si era ammalato e venne inviato prima in quarantena, poi in convalescenza e infine nella patria Milano, dove i suoi confratelli lavoravano appunto all’Ospedale Maggiore (peraltro con qualche difficoltà di burocrazia ecclesiastica, che non permetteva loro di avere una chiesa pubblica). Ed è probabilmente grazie all’occhio clinico acquisito sul campo che fratel Terzago fu in grado di diagnosticare la peste nel primo infetto della città, quel soldato Lovato o Locati che anche Manzoni cita al capitolo XXXI del suo gran libro. Purtroppo però l’allarme del camilliano fu colpevolmente disatteso dalle autorità, anche nel vano tentativo di non spargere il panico tra la popolazione. Così più passava il tempo, e più numerosi i monatti dovevano trasportare i malati al lazzaretto grande o di Porta Orientale, nel quale andarono a servire sia i crociferi sia i cappuccini. L’epidemia raggiunse poi l’apice dalla primavera del 1630 in avanti, fino a dicembre; alla fine del morbo, dei 130 mila abitanti ne rimanevano circa 60 mila. E i religiosi furono in prima fila nell’assistenza. I camilliani, in particolare, contavano la loro prima vittima già il 15 aprile e alla fine, su 50 impegnati in città, i deceduti saranno la metà. Si aprivano infatti anche altri lazzaretti, pare uno per ogni porta milanese, e dal luglio fratel Terzago – che aveva contratto la malattia alla Ca’ Granda ed era guarito – fu destinato con due confratelli a quello di San Barnaba presso Porta Ticinese, capace di 4000 malati.
Testimonia il confratello padre Vanti: «Per due mesi, quanti sopravvisse, egli fu là dentro l’angelo della vita e della buona morte»; fino a morire egli stesso, in una data incerta tra il 19 agosto e il 2 settembre 1630. Manzoni ne avrebbe ricavato la vicenda attraverso la sua fonte, il medico Alessandro Tadino, che nel suo Ragguaglio della gran peste (1648) cita fratel Terzago per nome omettendone però l’appartenenza ai camilliani. Da cui la tendenza degli interpreti a identificare l’innominato frate manzoniano con un cappuccino, visto che il romanziere cita a man salva i religiosi di quest’ordine.
Del resto Manzoni non disponeva sul camilliano della completa documentazione poi ritrovata e tuttora conservata nell’Archivio di Stato milanese, né le Memorie delle origini crocifere pubblicate nel 1676 da padre Domenico Girolamo Regi, in cui si romanza la fine di fratel Terzago attribuendola proprio agli untori di manzoniana memoria: «Cavata un ampolla, in cui creder si puote che vi fosse il liquore delle bave dei dragoni, o di cerbero infernale, là dove essendo egli poi caduto ed ungersene, assalito indi a poco da fiero accidente, a pena preparatosi coi sacramenti, religiosamente se ne passò al Signore». Un benefico «effetto collaterale» per il sacrificio del religioso e dei confratelli, tuttavia, ci fu: convincere l’arcivescovo Borromeo (in precedenza diffidente) a regolarizzare la presenza dei crociferi nella metropoli lombarda. Dove i camilliani sono tuttora attivissimi.
«Avvenire» del 9 febbraio 2010
Nessun commento:
Posta un commento