Secondo un manifesto diffuso in Rete, i pirati informatici hanno pure loro precise norme di comportamento
di Andrea Vaccaro
Ah, maledette maldicenze! Passi l’infanzia a vedere i film di John Wayne e ad essere visitato, nel sonno, da incubi pellerossa che ti assediano la casa per tagliarti lo scalpo, e poi scopri, sui libri di storia, che c’è quasi da vergognarsi di aver parteggiato per i «visi pallidi». Trascorri il tuo tempo su internet con il costante timore che dietro qualche sito o e-mail stiano appollaiati come avvoltoi schiere di hacker con il solo intento di infettare il tuo computer con perfidi virus, e poi t’imbatti nel Jargon File, il manifesto della cultura hacker, ed è una primavera di principi e valori che instillano simpatia. Il Jargon File, o file di gergo, è la carta d’identità dell’hacker perfetto, il provetto conoscitore di programmi informatici, con i suoi segni particolari, lo stile, i gusti, il dizionario. È un documento immesso nel suo luogo naturale – il web – da Raphael Finkel a metà anni Settanta e da allora ritoccato, arricchito, affinato innumerevoli volte dalla comunità hacker. Sì, perché il primo imperativo di tale cultura è la condivisione, il fare insieme, il mettere a disposizione degli altri, gratuitamente, i frutti del proprio talento e del proprio tempo. Una specie di «cultura del dono » o, ancora, freelosophy
( Kevin Kelly). Da questo humus nascono, ad esempio, le idee dell’open
source e del software libero, programmi messi in rete senza compenso, che ognuno può copiare, «in modo da aiutare il prossimo», o migliorare e ridistribuire, «affinché tutta la comunità possa trarne beneficio» (Richard Stallman).
Secondo il loro autoritratto, gli hacker sono persone con un «vocabolario attivo », accuratamente attenti alle parole e con una leggera tendenza all’irriverenza. Amano leggere nelle ore che le altre persone, mediamente, trascorrono dinanzi alla tv. Hanno pochissima tolleranza per i vestiti-business e per le donne con il trucco pesante. Caldeggiano la diffusione delle informazioni – perché nessuno dovrebbe risolvere lo stesso problema per la seconda volta – e sviluppano un’ostilità istintiva verso la segretezza e l’inganno mediatico. L’eccessivo tempo trascorso in modo solitario (che li fa passare per geek , disadattati) non è strettamente necessario, ma aiuta a riflettere e a marcare una distanza dalle normali aspettative sociali. Di fondo, poi, essi dichiarano che si può essere hacker anche senza computer, basta avere passione ed entusiasmo per ciò che si fa ( « la noia non è solo sgradevole: è un vero e proprio male»), senza essere fiaccati da distrazioni quali successo e danaro. Anzi, chi agisce principalmente per questi fini è pressoché un immorale e merita di essere bollato con il segno di Mammona, per chiamarlo così: la $ del dollaro che pulsa, esemplarmente, nel cuore della Micro$oft (chi, del resto, non conosce un profe$$ ionista, un $acerdote, un arti$ta). Se, però, gli hacker appaiono così puri, chi sono gli autori degli atti di pirateria informatica, dei furti di codici, dei virus digitali? Per lo Jargon, questo è un lavoro per i disprezzati cracker,
dove un cracker sta ad un hacker come il manigoldo che ruba un auto cortocircuitando i cavi di accensione sta all’ingegnere elettronico che quel motore ha progettato. Gli hacker costruiscono le cose; i cracker le rompono. « Ci sono inimmaginabili modi interessanti per utilizzare il proprio computer, piuttosto che usarlo per irrompere nei computer altrui». Come minimo, è un peccato di scarsa creatività.
L’etica hacker non sarà proprio «una sfida spirituale di portata generale ai nostri tempi» (Pekka Himanem), ma qualche sua sollecitazione è indubbiamente da accogliere con favore.
( Kevin Kelly). Da questo humus nascono, ad esempio, le idee dell’open
source e del software libero, programmi messi in rete senza compenso, che ognuno può copiare, «in modo da aiutare il prossimo», o migliorare e ridistribuire, «affinché tutta la comunità possa trarne beneficio» (Richard Stallman).
Secondo il loro autoritratto, gli hacker sono persone con un «vocabolario attivo », accuratamente attenti alle parole e con una leggera tendenza all’irriverenza. Amano leggere nelle ore che le altre persone, mediamente, trascorrono dinanzi alla tv. Hanno pochissima tolleranza per i vestiti-business e per le donne con il trucco pesante. Caldeggiano la diffusione delle informazioni – perché nessuno dovrebbe risolvere lo stesso problema per la seconda volta – e sviluppano un’ostilità istintiva verso la segretezza e l’inganno mediatico. L’eccessivo tempo trascorso in modo solitario (che li fa passare per geek , disadattati) non è strettamente necessario, ma aiuta a riflettere e a marcare una distanza dalle normali aspettative sociali. Di fondo, poi, essi dichiarano che si può essere hacker anche senza computer, basta avere passione ed entusiasmo per ciò che si fa ( « la noia non è solo sgradevole: è un vero e proprio male»), senza essere fiaccati da distrazioni quali successo e danaro. Anzi, chi agisce principalmente per questi fini è pressoché un immorale e merita di essere bollato con il segno di Mammona, per chiamarlo così: la $ del dollaro che pulsa, esemplarmente, nel cuore della Micro$oft (chi, del resto, non conosce un profe$$ ionista, un $acerdote, un arti$ta). Se, però, gli hacker appaiono così puri, chi sono gli autori degli atti di pirateria informatica, dei furti di codici, dei virus digitali? Per lo Jargon, questo è un lavoro per i disprezzati cracker,
dove un cracker sta ad un hacker come il manigoldo che ruba un auto cortocircuitando i cavi di accensione sta all’ingegnere elettronico che quel motore ha progettato. Gli hacker costruiscono le cose; i cracker le rompono. « Ci sono inimmaginabili modi interessanti per utilizzare il proprio computer, piuttosto che usarlo per irrompere nei computer altrui». Come minimo, è un peccato di scarsa creatività.
L’etica hacker non sarà proprio «una sfida spirituale di portata generale ai nostri tempi» (Pekka Himanem), ma qualche sua sollecitazione è indubbiamente da accogliere con favore.
«Avvenire» del 4 febbraio 2010
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