di Carlo Cardia
Pur tenendo presenti le specificità della Svizzera, il risultato del referendum contro i minareti non risolve alcun problema, ne crea di nuovi, rischia di alimentare un clima negativo di contrapposizione, incoraggia chi si pone agli estremi. Nei cantoni elvetici il ricorso al referendum, per diritto e per tradizione, è frequente, risolve anche questioni minori della vita collettiva, può essere affrontato con emotività. Anche per questi motivi esso non è utilizzabile, nel metodo e nel merito, da altri Paesi europei. È stato osservato che la consultazione elvetica ha l’unico pregio di aver fatto emergere un sentimento diffuso di paura nei confronti della cosiddetta islamizzazione europea, ma la soluzione che propone può provocare esiti opposti a quelli di cui si ha bisogno, facendo crescere diffidenze e conflitti, anziché dialogo e garanzie di libertà, estremismi rancorosi anziché soluzioni fondate sulla saggezza e sul rispetto dei diritti umani.
La prima riflessione che deve essere fatta è che le libertà individuali e collettive (a cominciare da quella religiosa) sono indivisibili, e devono essere garantite a tutti coloro che rispettano le leggi dello Stato e non le utilizzano per altri fini. La libertà di culto, in Italia come in ogni parte d’Europa, non è qualcosa che lo Stato dispensa a discrezione, a seconda degli umori popolari, o degli orientamenti politici del momento, perché è una delle conquiste della modernità che le costituzioni democratiche assicurano a chiunque, cittadini o stranieri che siano. Il rifiuto di soluzioni come quella svizzera scaturisce, quindi, dal profondo della nostra cultura giuridica e delle tradizioni cristiane di accoglienza, e va argomentato con intelligenza e fermezza, perché la libertà religiosa è inerente alla dignità della persona, sia essa di fede cristiana o ebraica, o di orientamento buddista, musulmano, o induista.
Il referendum svizzero è anche sintomo delle tante contraddizioni nella quale si avviluppano alcuni Paesi occidentali, tra i quali il nostro, nell’affrontare la questione islamica. Sono le contraddizioni di chi oscilla tra una specie di proibizionismo anti-islamico da una parte e un multiculturalismo acritico dall’altra che provoca una sorta di perniciosa schizofrenia che finisce col tenerci prigionieri. Tra di noi, c’è chi vuole negare la costruzione di moschee, ridurre i diritti degli immigrati, fare censimenti su base religiosa, introdurre misure punitive per chi ancora non si è integrato. Ma c’è anche chi preferisce chiudere gli occhi su tutto, e praticare il multiculturalismo più spinto senza valutare le conseguenze di una prospettiva che erode progressivamente le radici della nostra cultura e delle nostre tradizioni. Ricordiamo, ad esempio, le proposte (formulate qui in Italia) di erigere monumentali moschee in alcune città (piccole o medie) sulla base di richieste di piccoli gruppi e senza verificare chi le avrebbe dirette, i suoi titoli di rappresentanza religiosa, la trasparenza della loro gestione. Per i musulmani la moschea non è soltanto un luogo di culto, ma un centro assistenziale, culturale, politico, con profili commerciali, nella quale si possono raccogliere anche frange estremistiche, e ciò richiede attenzione e controllo perché non vi si svolgano attività contrarie alle leggi, non siano violati i diritti delle persone (delle donne in particolare). Ne deriva che al rispetto rigoroso della libertà di culto da parte dello Stato deve corrispondere il rispetto delle leggi e dei diritti umani da parte di chi gestisce la moschea, come avviene per ogni altro luogo di culto.
Dobbiamo ricordare, ancora, la tolleranza ambigua che si manifesta qua e là per il burqa, per un modulo di vestiario che non ha nulla a che vedere con l’Islam e che è lesivo della dignità della donna, riducendola ad una non-persona; nonché le proposte avanzate in Gran Bretagna di dare rilevanza a parti importanti della sharia, ai tribunali islamici, in materia di rapporti personali e familiari. A questo amalgama di tipo multiculturale si deve aggiungere la tendenza a espungere simboli e tradizioni cristiane dalle scuole occidentali (crocifisso, natale, festività popolari), ammettendovi simmetricamente simboli e pratiche musulmane (velo, ramadan, preghiera pubblica), che provoca sconcerto e ferite nei sentimenti popolari più profondi. In questo coarcevo di scelte e reazioni sbagliate sta l’incapacità di alcuni Paesi nell’affrontare la questione islamica nei suoi termini reali, e nel rispetto delle nostre leggi e tradizioni, e di questa incapacità è frutto anche il risultato del referendum elvetico sui minareti.
Dobbiamo saper uscire dalla logica di contrapposizione con intelligenza e moderazione, consapevoli che il nuovo pluralismo religioso presuppone accoglienza e rispetto per gli altri e i loro valori, ma anche tutela e promozione dei nostri valori e tradizioni. Favorendo le libertà di ogni religione, e chiedendo a ogni confessione religiosa l’accettazione dei principi fondamentali del nostro vivere collettivo, si può sfuggire alla spirale di chi vuole prevalere sull’altro ricorrendo a scorciatoie emotive che provocano danni e impediscono una maturazione collettiva di rispetto per i diritti di tutti.
La prima riflessione che deve essere fatta è che le libertà individuali e collettive (a cominciare da quella religiosa) sono indivisibili, e devono essere garantite a tutti coloro che rispettano le leggi dello Stato e non le utilizzano per altri fini. La libertà di culto, in Italia come in ogni parte d’Europa, non è qualcosa che lo Stato dispensa a discrezione, a seconda degli umori popolari, o degli orientamenti politici del momento, perché è una delle conquiste della modernità che le costituzioni democratiche assicurano a chiunque, cittadini o stranieri che siano. Il rifiuto di soluzioni come quella svizzera scaturisce, quindi, dal profondo della nostra cultura giuridica e delle tradizioni cristiane di accoglienza, e va argomentato con intelligenza e fermezza, perché la libertà religiosa è inerente alla dignità della persona, sia essa di fede cristiana o ebraica, o di orientamento buddista, musulmano, o induista.
Il referendum svizzero è anche sintomo delle tante contraddizioni nella quale si avviluppano alcuni Paesi occidentali, tra i quali il nostro, nell’affrontare la questione islamica. Sono le contraddizioni di chi oscilla tra una specie di proibizionismo anti-islamico da una parte e un multiculturalismo acritico dall’altra che provoca una sorta di perniciosa schizofrenia che finisce col tenerci prigionieri. Tra di noi, c’è chi vuole negare la costruzione di moschee, ridurre i diritti degli immigrati, fare censimenti su base religiosa, introdurre misure punitive per chi ancora non si è integrato. Ma c’è anche chi preferisce chiudere gli occhi su tutto, e praticare il multiculturalismo più spinto senza valutare le conseguenze di una prospettiva che erode progressivamente le radici della nostra cultura e delle nostre tradizioni. Ricordiamo, ad esempio, le proposte (formulate qui in Italia) di erigere monumentali moschee in alcune città (piccole o medie) sulla base di richieste di piccoli gruppi e senza verificare chi le avrebbe dirette, i suoi titoli di rappresentanza religiosa, la trasparenza della loro gestione. Per i musulmani la moschea non è soltanto un luogo di culto, ma un centro assistenziale, culturale, politico, con profili commerciali, nella quale si possono raccogliere anche frange estremistiche, e ciò richiede attenzione e controllo perché non vi si svolgano attività contrarie alle leggi, non siano violati i diritti delle persone (delle donne in particolare). Ne deriva che al rispetto rigoroso della libertà di culto da parte dello Stato deve corrispondere il rispetto delle leggi e dei diritti umani da parte di chi gestisce la moschea, come avviene per ogni altro luogo di culto.
Dobbiamo ricordare, ancora, la tolleranza ambigua che si manifesta qua e là per il burqa, per un modulo di vestiario che non ha nulla a che vedere con l’Islam e che è lesivo della dignità della donna, riducendola ad una non-persona; nonché le proposte avanzate in Gran Bretagna di dare rilevanza a parti importanti della sharia, ai tribunali islamici, in materia di rapporti personali e familiari. A questo amalgama di tipo multiculturale si deve aggiungere la tendenza a espungere simboli e tradizioni cristiane dalle scuole occidentali (crocifisso, natale, festività popolari), ammettendovi simmetricamente simboli e pratiche musulmane (velo, ramadan, preghiera pubblica), che provoca sconcerto e ferite nei sentimenti popolari più profondi. In questo coarcevo di scelte e reazioni sbagliate sta l’incapacità di alcuni Paesi nell’affrontare la questione islamica nei suoi termini reali, e nel rispetto delle nostre leggi e tradizioni, e di questa incapacità è frutto anche il risultato del referendum elvetico sui minareti.
Dobbiamo saper uscire dalla logica di contrapposizione con intelligenza e moderazione, consapevoli che il nuovo pluralismo religioso presuppone accoglienza e rispetto per gli altri e i loro valori, ma anche tutela e promozione dei nostri valori e tradizioni. Favorendo le libertà di ogni religione, e chiedendo a ogni confessione religiosa l’accettazione dei principi fondamentali del nostro vivere collettivo, si può sfuggire alla spirale di chi vuole prevalere sull’altro ricorrendo a scorciatoie emotive che provocano danni e impediscono una maturazione collettiva di rispetto per i diritti di tutti.
«Avvenire» del 1 dicembre 2009
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