Domani la Giornata in memoria del genocidio nella città bosniaca. Parla Emir Suljagic, sopravvissuto e scrittore della tragedia
di Francesco Dal Mas
È soltanto del 10 giugno scorso la condanna del Tribunale internazionale penale dell’Aja per i fatti di Srebrenica.
Assente Ratko Mladic, «la firma» di tanti, atroci eccidi. Emir Suljagic l’ha conosciuto e gli ha parlato proprio in quei giorni terribili.
«Ricordo che un giorno un colonnello olandese, a cui facevo da interprete, si azzardò a protestare con il generale serbo.'La prego, io sono il comandante del battaglione olandese e io…'.'Macché comandante – rispose Mladic –. Tu sei una colomba, io qui sono Dio. Traducigli questo'». Il Dio della morte, fisica e morale, a leggere Cartolina dalla fossa. Diario di Srebrenica, edito da Beit memoria (pp. 286, euro 20), scritto da chi visse sulla sua pelle quella tragedia, Emir Suljagic, 17 anni all’epoca, nato a Ljubovija nel 1975. Il suo non è un racconto, ma qualcosa di più. Piccola città della Bosnia occidentale, Srebrenica venne posta sotto assedio, con i suoi 40 mila musulmani bosniaci, dal 1992 fino al luglio 1995. Con un genocidio senza precedenti: in un settimana più di 8 mila maschi, tra gli 8 e gli 80 anni, vennero uccisi, anche nei modi più bestiali, e 30 mila donne e bambini vennero deportati. «Sono sopravvissuto», continua a ripetere Suljagic a chi gli chiede di raccontarsi. «Ma fra la loro morte e la mia vita non c’è alcuna differenza, perché sono rimasto a vivere in un mondo che in modo duraturo, irreversibile, è stato segnato dalla loro morte». La morte, appunto, come quella di Idriz, «un uomo che conoscevo, perché era l’autista del mio scuolabus: i soldati serbi lo avevano addossato ad un muro e lo avevano schiacciato ripetutamente con il bus finché non era morto». Quello che Suljagic non ha vissuto di persona, se l’è fatto dire dai testimoni diretti, come un suo parente detenuto nel lager di Susica, anche lui sopravvissuto, oggi residente negli Usa. «Ci picchiavano con tutto. Con bastoni dalla punta metallica, cavi di ferro, mazze da baseball, ficcavano in bocca agli uomini le canne dei fucili. Una volta ho visto un uomo a cui la guardia spingeva la canna dello sniper in bocca. Lo sniper ha la canna più lunga degli altri fucili, e lui l’aveva ingoiata quasi tutta.
Talvolta rimanevo senza voce a forza di cantare canzoni cetniche; un giorno, ricordo, che davanti alle guardie ho dovuto scandire, per più di due ore: 'Re-gno-di-Serbia'. Nel periodo a Susica non sono mai riuscito a dormire. In realtà, sarebbe stato impossibile: ogni momento entrava una delle guardie e picchiava a caso le persone ammassate al buio». La vita è durissima. A parte i continui massacri, nell’enclave di Srebrenica non c’è né da mangiare né da bere, salvo trovare magazzini pieni chiusi a chiave. Dopo uno dei numerosi attacchi alla Stella, un’altura fra Potocari e Bratunac, il fratello di un ferito, disperato e piangente – testimonia Suljagic – offriva davanti all’ospedale una vacca in cambio di una sacca di sangue. Ma nessuno sembrava interessato a quel baratto. «I serbi ci trattavano come animali, e noi, dopo un certo tempo, cominciammo a comportarci come animali», riconosce Suljagic. Arriva il sesto mese dell’assedio. La gente è allo stremo. Gli uni si rubano con gli altri quel poco che possiedono. Gli uomini morivano come ladri, portando sacchi di grano sulle schiene ossute. In quella morte c’era qualcosa di degradante; prima erano stati trasformati nei ladri più infimi, quelli che derubano le fattorie e poi venivano uccisi. Quanto accade a Srebrenica, specie in quei giorni del luglio 1995, è per Suljagic «uno dei peggiori tradimenti del genere umano. Era il periodo in cui nessuno credeva alle nostre parole, in cui i soldati avevano bisogno di un ordine per comportarsi da uomini, in cui le nostre vite non valevano niente, neanche un sorso d’acqua. Il più giovane sopravvissuto delle decine di esecuzioni che avvennero tra il 14 e il 16 luglio aveva solo diciassette anni.
Quando lo fecero scendere dal camion, con un gruppo di uomini, con gli occhi bendati e le mani legate, tutti chiedevano un sorso d’acqua. 'Non volevo morire di sete', avrebbe spiegato al Tribunale dell’Aja. I soldati serbi aprirono il fuoco».
Suljagic lavorava nella base olandese di Potocari come interprete per il team dell’Onu. «Il tradimento, di cui fui testimone, è diverso da quello che videro coloro che sopravvissero al massacro. Loro vedevano il genere umano scendere a bassezze senza precedenti. Venivano umiliati e torturati. Sopravvivevano solo per miracolo. Quello che vidi io era un burocratico disinteresse, un tradimento compiuto da persone istruite e intelligenti, che non avevano il coraggio di essere uomini».
Assente Ratko Mladic, «la firma» di tanti, atroci eccidi. Emir Suljagic l’ha conosciuto e gli ha parlato proprio in quei giorni terribili.
«Ricordo che un giorno un colonnello olandese, a cui facevo da interprete, si azzardò a protestare con il generale serbo.'La prego, io sono il comandante del battaglione olandese e io…'.'Macché comandante – rispose Mladic –. Tu sei una colomba, io qui sono Dio. Traducigli questo'». Il Dio della morte, fisica e morale, a leggere Cartolina dalla fossa. Diario di Srebrenica, edito da Beit memoria (pp. 286, euro 20), scritto da chi visse sulla sua pelle quella tragedia, Emir Suljagic, 17 anni all’epoca, nato a Ljubovija nel 1975. Il suo non è un racconto, ma qualcosa di più. Piccola città della Bosnia occidentale, Srebrenica venne posta sotto assedio, con i suoi 40 mila musulmani bosniaci, dal 1992 fino al luglio 1995. Con un genocidio senza precedenti: in un settimana più di 8 mila maschi, tra gli 8 e gli 80 anni, vennero uccisi, anche nei modi più bestiali, e 30 mila donne e bambini vennero deportati. «Sono sopravvissuto», continua a ripetere Suljagic a chi gli chiede di raccontarsi. «Ma fra la loro morte e la mia vita non c’è alcuna differenza, perché sono rimasto a vivere in un mondo che in modo duraturo, irreversibile, è stato segnato dalla loro morte». La morte, appunto, come quella di Idriz, «un uomo che conoscevo, perché era l’autista del mio scuolabus: i soldati serbi lo avevano addossato ad un muro e lo avevano schiacciato ripetutamente con il bus finché non era morto». Quello che Suljagic non ha vissuto di persona, se l’è fatto dire dai testimoni diretti, come un suo parente detenuto nel lager di Susica, anche lui sopravvissuto, oggi residente negli Usa. «Ci picchiavano con tutto. Con bastoni dalla punta metallica, cavi di ferro, mazze da baseball, ficcavano in bocca agli uomini le canne dei fucili. Una volta ho visto un uomo a cui la guardia spingeva la canna dello sniper in bocca. Lo sniper ha la canna più lunga degli altri fucili, e lui l’aveva ingoiata quasi tutta.
Talvolta rimanevo senza voce a forza di cantare canzoni cetniche; un giorno, ricordo, che davanti alle guardie ho dovuto scandire, per più di due ore: 'Re-gno-di-Serbia'. Nel periodo a Susica non sono mai riuscito a dormire. In realtà, sarebbe stato impossibile: ogni momento entrava una delle guardie e picchiava a caso le persone ammassate al buio». La vita è durissima. A parte i continui massacri, nell’enclave di Srebrenica non c’è né da mangiare né da bere, salvo trovare magazzini pieni chiusi a chiave. Dopo uno dei numerosi attacchi alla Stella, un’altura fra Potocari e Bratunac, il fratello di un ferito, disperato e piangente – testimonia Suljagic – offriva davanti all’ospedale una vacca in cambio di una sacca di sangue. Ma nessuno sembrava interessato a quel baratto. «I serbi ci trattavano come animali, e noi, dopo un certo tempo, cominciammo a comportarci come animali», riconosce Suljagic. Arriva il sesto mese dell’assedio. La gente è allo stremo. Gli uni si rubano con gli altri quel poco che possiedono. Gli uomini morivano come ladri, portando sacchi di grano sulle schiene ossute. In quella morte c’era qualcosa di degradante; prima erano stati trasformati nei ladri più infimi, quelli che derubano le fattorie e poi venivano uccisi. Quanto accade a Srebrenica, specie in quei giorni del luglio 1995, è per Suljagic «uno dei peggiori tradimenti del genere umano. Era il periodo in cui nessuno credeva alle nostre parole, in cui i soldati avevano bisogno di un ordine per comportarsi da uomini, in cui le nostre vite non valevano niente, neanche un sorso d’acqua. Il più giovane sopravvissuto delle decine di esecuzioni che avvennero tra il 14 e il 16 luglio aveva solo diciassette anni.
Quando lo fecero scendere dal camion, con un gruppo di uomini, con gli occhi bendati e le mani legate, tutti chiedevano un sorso d’acqua. 'Non volevo morire di sete', avrebbe spiegato al Tribunale dell’Aja. I soldati serbi aprirono il fuoco».
Suljagic lavorava nella base olandese di Potocari come interprete per il team dell’Onu. «Il tradimento, di cui fui testimone, è diverso da quello che videro coloro che sopravvissero al massacro. Loro vedevano il genere umano scendere a bassezze senza precedenti. Venivano umiliati e torturati. Sopravvivevano solo per miracolo. Quello che vidi io era un burocratico disinteresse, un tradimento compiuto da persone istruite e intelligenti, che non avevano il coraggio di essere uomini».
«Avvenire» del 10 luglio 2010
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