Ridotti allo stato laicale
di Maurizio Crippa
La lingua magisteriale e pontificale di Benedetto XVI è sottile, fin da quell’iniziale “operaio nella vigna del Signore” ama velare ciò che importa nella citazione evangelica e nell’auctoritas, affida a Bonaventura o a Emanuele Paleologo il condensato di lunghi pensieri. E come ogni lingua raffinata e allusiva, è piena di “false friends”. Certe sue parole recenti, ben scandite e ripetute, la penitenza e la trasparenza, la necessità di sottomettersi “alle esigenze della giustizia”, persino davanti a pregiudiziali e maldisposti giudici terreni, e persino l’ammissione degli “sbagli” amministrativi di Propaganda Fide, hanno attirato come mosche sul miele una schiera di strani nuovi amici, ex nemici di antica data, da Giancarlo Zizola in giù, improvvisamente entusiasti di aver trovato in Benedetto XVI l’insperato alleato, il Papa che non pensavi pronto a farsi artefice quella grande riforma sempre agognata e mai realizzata, che sempre cambia nome – lo spirito del Concilio, il Vaticano III, la collegialità – ma mai sostanza in quello che è il suo vero radicamento, come insegna il professor Prosperi, nella Riforma luterana, il primato della coscienza e l’abbattimento dell’istituzione.
Sono cascati nella trappola dei “false friends” con poco stile, spesso con malcelato rancore, senza ritegno nel farsi traghettare oltre le linee del vecchio avversario, la chiesa-istituzione, dalle teste di ponte dell’odio montante del mondo, dalle campagne di sventramento diffamatorio, quelle vorrebbero veder condannata una volta per sempre la chiesa in quanto tale, inchiodando alla nuova shoah pedofila “gli assassini che mangiano di magro”. Hanno probabilmente contato anche su un altro insperato aiuto, quello di un’autorevole testa di moro ratzingeriana, il cardinale di Vienna. Pas des ennemies à droite.
Poi accade che Benedetto XVI sceglie la data della festa del primato petrino, la festa dei santi Pietro e Paolo, per chiamare a Roma Christoph Schönborn e, al di là delle interpretazioni più o meno sottili che si possano dare, all’ingrosso ha ribadito il suo primato nel governo della chiesa, la sua stima ai cardinali che nuove e antiche polemiche “interne” (si usa molto, di recente, l’aggettivo “interno” per i guai della chiesa) avevano colpito. La penitenza non è una chiamata di correo, la collegialità non è anarchia. E nessuna lotta intestina dentro il Sacro collegio può essere tollerata come lecita divergenza di opinioni. Basta e avanza, per riscatenare l’odio dei momentanei “false friends”, quelli che forse non avevano capito il senso delle parole, o forse solo ci hanno provato. E di cui Vito Mancuso è una sorta di portavoce preterintenzionale e sopravvalutato, ma letto e ascoltato dal pubblico dei giornali e delle conferenze, e accipicchia quanto ben accreditato nella piccola consorteria dell’accademia teologica, della chiesa progressista e pure di quella borderline che bazzica tra le pagine di Repubblica e le aule di don Verzé. Quelli insomma che più che la riforma della chiesa ne vorrebbero semplicemente la sua riduzione allo stato laicale, o al “silentium claustri”.
La lingua di Benedetto è piena di “falsi amici” per chi non la comprende. E la festa di Pietro e Paolo è un simbolo sapiente. Lo evocò, in un altro momento di sofferenza anche Paolo VI. Scelse quel giorno, nel 1972, per denunciare il nemico per antonomasia: “Attraverso qualche fessura il fumo di Satana è entrato nella chiesa”, disse. Nemico all’interno, anche quello. Tempo dopo spiegò quale: “All’interno del cattolicesimo sembra talvolta predominare un pensiero di tipo non cattolico, e può avvenire che questo pensiero non cattolico all’interno del cattolicesimo diventi domani il più forte. Ma esso non rappresenterà mai il pensiero della chiesa”. La lingua di Papa Ratzinger è difficile per il mondo, parla sempre di qualcosa che è dentro e riguarda la chiesa. Lo ha fatto anche a Fatima: “la più grande persecuzione alla chiesa non viene dai nemici di fuori, ma nasce dal peccato nella chiesa”. Soprattutto ha sempre inteso, ci sono i suoi studi teologici a testimoniarlo, la riforma come un’autoriforma, qualcosa che ha a che fare con il ritorno all’essenziale della fede, a un maggior rigore di esperienza, e non certo uno smantellamento della istituzione. Per citare il titolo di un famoso libro del teologo domenicano (come Schönborn) padre Yves Congar, il problema è sempre tra “Vera e falsa riforma della chiesa”. Ed è sicuro che gli strappi, e nemmeno gli scismi, per quanto “striscianti”, rientrano nell’idea di “riforma” cara a Benedetto XVI. Lui che ha voluto sanare uno scisma a destra – pagando un prezzo pesante – per amore dell’unità della chiesa, non sembra intenzionato a farsi imporre strappi a sinistra. Forse i falsi amici hanno pensato, per un po’, di poterlo trasformare in un Celestino V, un papa in fuga dai veleni della curia e del mondo. Sembrerebbe di no, al momento.
Certo la lingua del suo papato può non apparire quella tonante che occorrerebbe per non essere buttati fuori dal mondo, in tempo di sgozzamenti a oriente e sventramenti a occidente. In un tempo in cui i falsi amici e i nemici dichiarati si presentano uniti a falange. La lingua del pontificato ratzingeriano non è quella del papato di Karol Wojtyla. E il dubbio, anche degli amici veri, se possa davvero bastare è per molti versi legittimo. Riguarda, a ben guardare, proprio il giudizio da dare su due pontificati così vicini, così lontani. Sempre ricordando che per Benedetto XVI il governo della chiesa è “pensiero e preghiera”. E che la vigna è pur sempre del Signore.
Sono cascati nella trappola dei “false friends” con poco stile, spesso con malcelato rancore, senza ritegno nel farsi traghettare oltre le linee del vecchio avversario, la chiesa-istituzione, dalle teste di ponte dell’odio montante del mondo, dalle campagne di sventramento diffamatorio, quelle vorrebbero veder condannata una volta per sempre la chiesa in quanto tale, inchiodando alla nuova shoah pedofila “gli assassini che mangiano di magro”. Hanno probabilmente contato anche su un altro insperato aiuto, quello di un’autorevole testa di moro ratzingeriana, il cardinale di Vienna. Pas des ennemies à droite.
Poi accade che Benedetto XVI sceglie la data della festa del primato petrino, la festa dei santi Pietro e Paolo, per chiamare a Roma Christoph Schönborn e, al di là delle interpretazioni più o meno sottili che si possano dare, all’ingrosso ha ribadito il suo primato nel governo della chiesa, la sua stima ai cardinali che nuove e antiche polemiche “interne” (si usa molto, di recente, l’aggettivo “interno” per i guai della chiesa) avevano colpito. La penitenza non è una chiamata di correo, la collegialità non è anarchia. E nessuna lotta intestina dentro il Sacro collegio può essere tollerata come lecita divergenza di opinioni. Basta e avanza, per riscatenare l’odio dei momentanei “false friends”, quelli che forse non avevano capito il senso delle parole, o forse solo ci hanno provato. E di cui Vito Mancuso è una sorta di portavoce preterintenzionale e sopravvalutato, ma letto e ascoltato dal pubblico dei giornali e delle conferenze, e accipicchia quanto ben accreditato nella piccola consorteria dell’accademia teologica, della chiesa progressista e pure di quella borderline che bazzica tra le pagine di Repubblica e le aule di don Verzé. Quelli insomma che più che la riforma della chiesa ne vorrebbero semplicemente la sua riduzione allo stato laicale, o al “silentium claustri”.
La lingua di Benedetto è piena di “falsi amici” per chi non la comprende. E la festa di Pietro e Paolo è un simbolo sapiente. Lo evocò, in un altro momento di sofferenza anche Paolo VI. Scelse quel giorno, nel 1972, per denunciare il nemico per antonomasia: “Attraverso qualche fessura il fumo di Satana è entrato nella chiesa”, disse. Nemico all’interno, anche quello. Tempo dopo spiegò quale: “All’interno del cattolicesimo sembra talvolta predominare un pensiero di tipo non cattolico, e può avvenire che questo pensiero non cattolico all’interno del cattolicesimo diventi domani il più forte. Ma esso non rappresenterà mai il pensiero della chiesa”. La lingua di Papa Ratzinger è difficile per il mondo, parla sempre di qualcosa che è dentro e riguarda la chiesa. Lo ha fatto anche a Fatima: “la più grande persecuzione alla chiesa non viene dai nemici di fuori, ma nasce dal peccato nella chiesa”. Soprattutto ha sempre inteso, ci sono i suoi studi teologici a testimoniarlo, la riforma come un’autoriforma, qualcosa che ha a che fare con il ritorno all’essenziale della fede, a un maggior rigore di esperienza, e non certo uno smantellamento della istituzione. Per citare il titolo di un famoso libro del teologo domenicano (come Schönborn) padre Yves Congar, il problema è sempre tra “Vera e falsa riforma della chiesa”. Ed è sicuro che gli strappi, e nemmeno gli scismi, per quanto “striscianti”, rientrano nell’idea di “riforma” cara a Benedetto XVI. Lui che ha voluto sanare uno scisma a destra – pagando un prezzo pesante – per amore dell’unità della chiesa, non sembra intenzionato a farsi imporre strappi a sinistra. Forse i falsi amici hanno pensato, per un po’, di poterlo trasformare in un Celestino V, un papa in fuga dai veleni della curia e del mondo. Sembrerebbe di no, al momento.
Certo la lingua del suo papato può non apparire quella tonante che occorrerebbe per non essere buttati fuori dal mondo, in tempo di sgozzamenti a oriente e sventramenti a occidente. In un tempo in cui i falsi amici e i nemici dichiarati si presentano uniti a falange. La lingua del pontificato ratzingeriano non è quella del papato di Karol Wojtyla. E il dubbio, anche degli amici veri, se possa davvero bastare è per molti versi legittimo. Riguarda, a ben guardare, proprio il giudizio da dare su due pontificati così vicini, così lontani. Sempre ricordando che per Benedetto XVI il governo della chiesa è “pensiero e preghiera”. E che la vigna è pur sempre del Signore.
«Il Foglio» del 4 luglio 2010
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