di Cristiano Gatti
C’è una nuova scoperta che il genere umano dovrebbe festeggiare. Il lieto evento è annunciato su Science, autorevole - e come no - rivista scientifica americana. A livello ideale, è un altro passo avanti nell’antico sogno umano di conoscere il proprio futuro, di sapere in anticipo quanto il tempo a disposizione. Da un punto di vista tecnico, spiegano i ricercatori di Boston che sono arrivati alla storica conclusione, è la possibilità di stabilire attraverso il Dna - sempre lui - se un essere umano sforerà il secolo, con una percentuale di precisione pari al 77 per cento. Quasi con certezza, il domani svelato.
Per gli appassionati del genere, qualche dettaglio: analizzando le caratteristiche genetiche di mille americani in età compresa tra 95 e 119 anni, sono emerse impronte comuni che spiegano il segreto di tanta longevità. Nei geni è già scritta buona parte del destino, adesso esiste la chiave per leggerlo in anticipo. Mi rendo conto che la spiegazione possa apparire un po’ approssimativa, ma questo chiarisce perché non scrivo su Science. Chi ha bisogno di un saggio completo e rigoroso si rivolga alla specifica rivista. Qui, a noi, interessa il risultato. Le conseguenze pratiche. Thomas Perls, che ha firmato la scoperta assieme alla collega italiana Paola Sebastiani, rivela con giusto orgoglio il significato vero del proprio lavoro: «L’identificazione di queste firme genetiche rappresenta un nuovo passo nella genomica personalizzata e nella medicina predittiva», dichiarazione tra l’altro sufficiente anche a spiegare perché lui non scriva su un giornale. Mettiamola così: poco o molto che sia, la scienza può prevedere qualcosa in più del futuro di un uomo. Il longevo ha un Dna particolare, basta saperlo riconoscere.
Lasciando alla comunità scientifica la discussione sugli sviluppi pratici, perché pare che se ne possa approfittare per la cura di alcune patologie senili, su di noi mortali tornano subito ad incombere gli interrogativi più pesanti. Inevitabilmente, riesplode la nostra insanabile schizofrenia esistenziale: l’istinto di voler sapere tutto del futuro, seguito immediatamente dall’istinto di chiudere gli occhi per non vedere nulla.
Finisce così che scoperte come questa, in sé importantissime e lietissime, non riescono a scatenare l’euforia. Non aggiungono un solo milligrammo di felicità alla nostra insanabile fame di felicità. Sarà che siamo così irrimediabilmente fragili e confusi, ma si avverte solo una strisciante malinconia. La scienza fa il suo mestiere, ma anche noi facciamo il nostro mestiere di uomini. Se c’è una cosa che davvero aiuta, in questo durissimo mestiere, è non sapere niente dell’attimo che seguirà. Certo c’è un sacco di gente che offre la mano alla zingara o chiede alla cartomante quanto gli resta da vivere. Ma il più delle volte, quando lo sa, vorrebbe non averlo mai chiesto. Perché nella sua idiozia il gioco comunque lascia qualcosa. Se la previsione è una vita felice e millenaria, nessuno riesce a credere davvero. Se la previsione è fosca e di breve periodo, una sottile angoscia compare.
Quando entra in gioco la scienza, non ne parliamo. L’ossessione dei ricercatori è prevedere quanto più possibile. Il loro obiettivo finale è consegnare all’individuo, nel primo giorno di vita, il certificato di nascita e il certificato di morte, entrambi debitamente compilati con precisione rigorosa. Specificando da dove veniamo, dove andremo, quando andremo, perché andremo. Come s’è visto, adesso sono in grado di dire se festeggeremo i cent’anni.
Così loro. Ma noi? Siamo davvero sicuri che questo vogliamo? Sapere che vivremo un secolo può essere consolante, a venti o a cinquant’anni. Ma già a novanta può risultare meno rassicurante. A novantacinque, comincia a diventare seccante. Noi siamo fatti di una pasta particolare: a 99 anni ci piace pensare che arriveremo a 110, o a 120. Comunque, fosse pure il giorno dopo, non ci va di saperlo: abbiamo bisogno di una prospettiva infinita, davanti. Anche se poi è la prospettiva reale di un solo secondo.
Tanti complimenti e tanti auguri ai ricercatori di Boston. Con i complimenti, solo una richiesta personale. Sarà meschina, ma ci tengo. Per quanto mi riguarda, preferirei che le vostre previsioni restassero chiuse in una cassetta di sicurezza, sepolta sotto due metri di sedimenti carsici. Perdonerete la bassezza, ma conoscere il mio destino non è poi così importante. Scelgo il finale aperto. Anche per evitare spiacevoli disguidi. Nella mia pochezza, penso al tizio cui potete predire che vivrà fino a 112 anni: pensa l’amarezza se uscendo allegramente dall’ospedale non si accorge che alle sue spalle sta arrivando il tram.
Per gli appassionati del genere, qualche dettaglio: analizzando le caratteristiche genetiche di mille americani in età compresa tra 95 e 119 anni, sono emerse impronte comuni che spiegano il segreto di tanta longevità. Nei geni è già scritta buona parte del destino, adesso esiste la chiave per leggerlo in anticipo. Mi rendo conto che la spiegazione possa apparire un po’ approssimativa, ma questo chiarisce perché non scrivo su Science. Chi ha bisogno di un saggio completo e rigoroso si rivolga alla specifica rivista. Qui, a noi, interessa il risultato. Le conseguenze pratiche. Thomas Perls, che ha firmato la scoperta assieme alla collega italiana Paola Sebastiani, rivela con giusto orgoglio il significato vero del proprio lavoro: «L’identificazione di queste firme genetiche rappresenta un nuovo passo nella genomica personalizzata e nella medicina predittiva», dichiarazione tra l’altro sufficiente anche a spiegare perché lui non scriva su un giornale. Mettiamola così: poco o molto che sia, la scienza può prevedere qualcosa in più del futuro di un uomo. Il longevo ha un Dna particolare, basta saperlo riconoscere.
Lasciando alla comunità scientifica la discussione sugli sviluppi pratici, perché pare che se ne possa approfittare per la cura di alcune patologie senili, su di noi mortali tornano subito ad incombere gli interrogativi più pesanti. Inevitabilmente, riesplode la nostra insanabile schizofrenia esistenziale: l’istinto di voler sapere tutto del futuro, seguito immediatamente dall’istinto di chiudere gli occhi per non vedere nulla.
Finisce così che scoperte come questa, in sé importantissime e lietissime, non riescono a scatenare l’euforia. Non aggiungono un solo milligrammo di felicità alla nostra insanabile fame di felicità. Sarà che siamo così irrimediabilmente fragili e confusi, ma si avverte solo una strisciante malinconia. La scienza fa il suo mestiere, ma anche noi facciamo il nostro mestiere di uomini. Se c’è una cosa che davvero aiuta, in questo durissimo mestiere, è non sapere niente dell’attimo che seguirà. Certo c’è un sacco di gente che offre la mano alla zingara o chiede alla cartomante quanto gli resta da vivere. Ma il più delle volte, quando lo sa, vorrebbe non averlo mai chiesto. Perché nella sua idiozia il gioco comunque lascia qualcosa. Se la previsione è una vita felice e millenaria, nessuno riesce a credere davvero. Se la previsione è fosca e di breve periodo, una sottile angoscia compare.
Quando entra in gioco la scienza, non ne parliamo. L’ossessione dei ricercatori è prevedere quanto più possibile. Il loro obiettivo finale è consegnare all’individuo, nel primo giorno di vita, il certificato di nascita e il certificato di morte, entrambi debitamente compilati con precisione rigorosa. Specificando da dove veniamo, dove andremo, quando andremo, perché andremo. Come s’è visto, adesso sono in grado di dire se festeggeremo i cent’anni.
Così loro. Ma noi? Siamo davvero sicuri che questo vogliamo? Sapere che vivremo un secolo può essere consolante, a venti o a cinquant’anni. Ma già a novanta può risultare meno rassicurante. A novantacinque, comincia a diventare seccante. Noi siamo fatti di una pasta particolare: a 99 anni ci piace pensare che arriveremo a 110, o a 120. Comunque, fosse pure il giorno dopo, non ci va di saperlo: abbiamo bisogno di una prospettiva infinita, davanti. Anche se poi è la prospettiva reale di un solo secondo.
Tanti complimenti e tanti auguri ai ricercatori di Boston. Con i complimenti, solo una richiesta personale. Sarà meschina, ma ci tengo. Per quanto mi riguarda, preferirei che le vostre previsioni restassero chiuse in una cassetta di sicurezza, sepolta sotto due metri di sedimenti carsici. Perdonerete la bassezza, ma conoscere il mio destino non è poi così importante. Scelgo il finale aperto. Anche per evitare spiacevoli disguidi. Nella mia pochezza, penso al tizio cui potete predire che vivrà fino a 112 anni: pensa l’amarezza se uscendo allegramente dall’ospedale non si accorge che alle sue spalle sta arrivando il tram.
«Il Giornale» del 3 luglio 2010
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