di Maurizio Cucchi
Il nuovo libro di Francesco Bonami, Si crede Picasso, è un ulteriore aiuto utile a un profano per cercare di districarsi nel mondo dell’arte di oggi che, in modo non del tutto diverso da quello della letteratura (leggi: narrativa, oggi divenuta incongruo sinonimo, appunto, di letteratura), propone svariati bidoni dentro un vasto campo in cui la ricerca e l’opera autentica – che pure ci sono – rischiano di essere sommerse. Bonami scheda in modo brillante e originale una quarantina di artisti, alcuni dei quali straordinari (penso, su piani diversissimi, a Burri, a Hopper a Pollock), altri alla moda e tra i più pubblicizzati, con l’intelligenza di chi sa benissimo che la realtà non è o bianca o nera e che dunque, come in poesia, esistono situazioni miste, dove la presenza dell’arte nella personalità del soggetto, può essere parziale o anche minima. Certo, quando ci si trova di fronte alle opere più note di una Beecroft, e alla loro celebrazione, viene da piangere più che da ridere. Bonami ne ricorda il passato con nostalgia, e ne osserva il presente, giudicandone le opere come «una grande vetrina del quartiere a luci rosse di Amsterdam» o la vetrina di un negozio di porcellane. In effetti, di fronte a queste messe in scena, ciò che più turba è la straordinaria, piatta banalità. Vale a dire l’idea povera che non riesce a riscattarsi neppure attraverso una elaborazione efficace della materia, procedimento ormai quasi abbandonato proprio in un tempo in cui l’arte dovrebbe opporsi alla mediazione che ci spossessa di un rapporto forte e reale con le cose, tornando in pieno alla manipolazione viva della materia. E allora mi vengono in mente le recenti chiacchiere sulle 'opere' di Maurizio Cattelan (mettiamo l’accento al posto giusto: è veneto, e non americano), il cui dito medio avrebbe prodotto scandalo e creato vistose polemiche. Scandalo sarebbe comunque la parola giusta, ma non per ciò che quel gesto goliardico significa, non per il suo contenuto, ma per il fatto che qualcuno si ostini a considerare arte una così insignificante cosa. Bonami dice che Cattelan «artista proprio non era ma furbo sì, fin da piccolino». E aggiunge che lo è diventato usando anche idee trovate altrove. Personalmente credo che un artista vero non potrebbe accontentarsi di ideuzze così puerili, che di provocatorio hanno solo l’intenzione, oltre alla pretesa di dirsi opere d’arte. Bonami aggiunge un interrogativo: «se agli altri finiscono le idee, chi darà le idee a Cattelan?» Bah, se le idee sono queste non ci vorrà molto a trovarne altre simili. Certo ci ricordiamo le stucchevoli precedenti provocazioni per ingenui di questo 'genio' della pubblicità, ma che si continui a perseverare nel prenderlo sul serio mi sembra grave. Mi sembra che episodi come questi e altri che vediamo in giro corrispondano esattamente a una realtà divenuta, come spesso mi è capitato di osservare, varietà totale, immenso studio televisivo dove tutto è possibile purché di immediata percezione e consumo. Opere d’arte come gadget da guardare ammiccando, concetti elementari per un pubblico diseducato, situazioni disambientate e decontestualizzate come se ciò bastasse a far arte. Ma in effetti è sbagliato l’approccio. Visto che siamo nel varietà totale, sarebbe il caso di guardare l’'opera' di turno e farsi una bella risata come agli sketch degli artisti di avanspettacolo. I quali, per lo meno, non si prendevano e non erano presi sul serio.
«Avvenire» del 3 luglio 2010
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