Posto quest'articolo per far vedere sino a che punto può arrivare l'ottusità di certa pseudocritica letteraria ...
Un intervento dopo l'articolo sul vincitore del premio Strega. "Lo scrittore descrive la vicenda dell'Agro Pontino glorificandola e ignorando la tragedia degli antifascisti"
di Simone Oggionni
L’intervento di Luciano Lanna pubblicato sabato scorso dal Secolo d’Italia descrive in termini esatti la questione. Il tema è l’assegnazione del Premio Strega all’ultimo romanzo di Antonio Pennacchi, Canale Mussolini, edito da Mondadori.
Lanna scrive che non si tratta di una semplice notizia di cronaca letteraria, ma del «segnale evidente di un’Italia che è cambiata». E aggiunge: di un’Italia che «si è riconciliata nel profondo con la sua storia, la sua memoria, i suoi “vinti” e i suoi “dimenticati”».
Ha terribilmente ragione. La vittoria di Pennacchi allo Strega è il segno di un’Italia che si è riconciliata con la storia dei vinti e cioè con l’intera parabola del fascismo, letta e romanzata nel ventennio che si apre con la bonifica dell’Agro pontino e si chiude con la «resistenza» (così la definisce Pennacchi) dei repubblichini e dei nazisti contro gli Alleati.
Questa riconciliazione avviene per decreto di un Governo che ha dato il “la” ad un’operazione di espansione egemonica della propria ideologia paragonabile, nella nostra storia nazionale, soltanto al fascismo. Non appagato dal fatto di aver messo le mani ormai stabilmente sulla formazione di base, su quella universitaria e sulla ricerca e non acquietato dal fatto di avere definitivamente plasmato di sé – attraverso la dittatura catodica di Rai-Mediaset – una parte sempre crescente di popolazione, ora l’obiettivo è imporre definitivamente l’industria culturale, spazzando via i residui di arte, cinema e letteratura critici e indipendenti.
Canale Mussolini è il quarto testo edito dalla casa editrice di proprietà della famiglia del presidente del Consiglio che vince, consecutivamente, il Premio Strega.
È un romanzo esteticamente scadente, enfatizzato mediaticamente da un battage di regime ossessionante, e il cui valore coincide esattamente con il suo significato culturale e politico.
Come i libri di Pansa, si arroga il diritto di occuparsi di Storia violando qualunque regola storiografica: esplicitazione delle fonti, separazione tra fatti e interpretazione soggettiva, distanza tra narratore e narrato. Tutto ciò, a riprova della potenza egemonica della cultura berlusconiana, senza che la comunità scientifica insorga, ponendo limiti a questo abuso indecente.
Come i libri di Pansa, ci racconta una favola che non esiste, o se esiste è il controcanto idealizzato di un ventennio di orrori, violenza e miseria.
Il romanzo descrive le vicende di una famiglia patriarcale contadina che dalla Bassa Padana emigra nell’Agro pontino per colonizzare la paludi appena bonificate dal regime. È l’occasione per lodare l’orgoglioso e condiviso sostegno al regime (come negli sterilizzati cine-giornali di propaganda, dimenticando quel che ci ha ricordato Vittorio Emiliani sull’Unità, e cioè che persino tra i bonificatori vi erano numerosissimi comunisti e socialisti, schedati come sovversivi, e costretti a fare la spola tra il carcere, la caserma e il lavoro coatto); e per ricordare lo sbarco alleato di Anzio e quindi l’«eroica resistenza» dei nazisti, dei fascisti repubblichini e dei coloni che difendono con «onore» il «suolo patrio», «fecondando con il proprio sangue» (da un’intervista di Pennacchi al giornale web della Fondazione Farefuturo) il Circeo.
E quello che era già accaduto o che nel frattempo accadde? L’assassinio di Matteotti, le leggi fascistissime, la persecuzione dei comunisti e di tutti i democratici, il confino, le imprese coloniali, le leggi “razziali” e le deportazioni, la lucida follia della guerra e, di contro, l’organizzazione della cultura anti-fascista, la costruzione in clandestinità (questa sì, eroica) della Resistenza, e poi la guerra partigiana, la guerra di Liberazione insieme agli Alleati, l’avvio della ricostruzione della democrazia?
Questa storia evidentemente non fa parte della riconciliazione e non fa più parte della memoria del nostro Paese. Anzi: non fa parte della riconciliazione perché non fa più parte della memoria del nostro Paese.
Preoccupano due aspetti. In primo luogo, il fatto che questa straordinaria operazione di riabilitazione del fascismo avvenga attraverso le forme più pervasive e più immediate della comunicazione letteraria. In secondo luogo che ciò avvenga attraverso un’operazione pedagogica, di cui l’autore del romanzo si fa carico insieme ai tanti alfieri del mainstreaming (inteso esattamente come corrente culturale dominante e di regime) che popolano il nostro paesaggio culturale, di rilettura da sinistra del fascismo. In questo aspetto sta il carattere obliquo e viscoso del libro di Pennacchi: in un fascismo che viene presentato come regime sociale e popolare e non reazionario. E dunque prova a parlare anche a noi, a sottrarre certezze, a sostituire alle presunte mitologie sulla Resistenza verità più laiche e più problematiche che si anniderebbero nelle zone d’ombra della nostra storia.
L’impressione è che qui il segno si sia oltrepassato, e che con l’alibi della problematicità si sia aperto un varco pericolosissimo. Come scrive Lanna sul Secolo d’Italia «non ci sono più egemonie che stabiliscono i recinti e i limiti del discorso pubblico». È esattamente così. Aggiungerei che se ne è affermata un’altra, che definisce altri recinti e altri limiti, dai quali noi tutti – la nostra storia, persino il nostro giudizio estetico, e la ratifica di entrambi gli elementi nell’ufficialità dei concorsi letterari – siamo stati espulsi, forse che ce ne accorgessimo.
Lanna scrive che non si tratta di una semplice notizia di cronaca letteraria, ma del «segnale evidente di un’Italia che è cambiata». E aggiunge: di un’Italia che «si è riconciliata nel profondo con la sua storia, la sua memoria, i suoi “vinti” e i suoi “dimenticati”».
Ha terribilmente ragione. La vittoria di Pennacchi allo Strega è il segno di un’Italia che si è riconciliata con la storia dei vinti e cioè con l’intera parabola del fascismo, letta e romanzata nel ventennio che si apre con la bonifica dell’Agro pontino e si chiude con la «resistenza» (così la definisce Pennacchi) dei repubblichini e dei nazisti contro gli Alleati.
Questa riconciliazione avviene per decreto di un Governo che ha dato il “la” ad un’operazione di espansione egemonica della propria ideologia paragonabile, nella nostra storia nazionale, soltanto al fascismo. Non appagato dal fatto di aver messo le mani ormai stabilmente sulla formazione di base, su quella universitaria e sulla ricerca e non acquietato dal fatto di avere definitivamente plasmato di sé – attraverso la dittatura catodica di Rai-Mediaset – una parte sempre crescente di popolazione, ora l’obiettivo è imporre definitivamente l’industria culturale, spazzando via i residui di arte, cinema e letteratura critici e indipendenti.
Canale Mussolini è il quarto testo edito dalla casa editrice di proprietà della famiglia del presidente del Consiglio che vince, consecutivamente, il Premio Strega.
È un romanzo esteticamente scadente, enfatizzato mediaticamente da un battage di regime ossessionante, e il cui valore coincide esattamente con il suo significato culturale e politico.
Come i libri di Pansa, si arroga il diritto di occuparsi di Storia violando qualunque regola storiografica: esplicitazione delle fonti, separazione tra fatti e interpretazione soggettiva, distanza tra narratore e narrato. Tutto ciò, a riprova della potenza egemonica della cultura berlusconiana, senza che la comunità scientifica insorga, ponendo limiti a questo abuso indecente.
Come i libri di Pansa, ci racconta una favola che non esiste, o se esiste è il controcanto idealizzato di un ventennio di orrori, violenza e miseria.
Il romanzo descrive le vicende di una famiglia patriarcale contadina che dalla Bassa Padana emigra nell’Agro pontino per colonizzare la paludi appena bonificate dal regime. È l’occasione per lodare l’orgoglioso e condiviso sostegno al regime (come negli sterilizzati cine-giornali di propaganda, dimenticando quel che ci ha ricordato Vittorio Emiliani sull’Unità, e cioè che persino tra i bonificatori vi erano numerosissimi comunisti e socialisti, schedati come sovversivi, e costretti a fare la spola tra il carcere, la caserma e il lavoro coatto); e per ricordare lo sbarco alleato di Anzio e quindi l’«eroica resistenza» dei nazisti, dei fascisti repubblichini e dei coloni che difendono con «onore» il «suolo patrio», «fecondando con il proprio sangue» (da un’intervista di Pennacchi al giornale web della Fondazione Farefuturo) il Circeo.
E quello che era già accaduto o che nel frattempo accadde? L’assassinio di Matteotti, le leggi fascistissime, la persecuzione dei comunisti e di tutti i democratici, il confino, le imprese coloniali, le leggi “razziali” e le deportazioni, la lucida follia della guerra e, di contro, l’organizzazione della cultura anti-fascista, la costruzione in clandestinità (questa sì, eroica) della Resistenza, e poi la guerra partigiana, la guerra di Liberazione insieme agli Alleati, l’avvio della ricostruzione della democrazia?
Questa storia evidentemente non fa parte della riconciliazione e non fa più parte della memoria del nostro Paese. Anzi: non fa parte della riconciliazione perché non fa più parte della memoria del nostro Paese.
Preoccupano due aspetti. In primo luogo, il fatto che questa straordinaria operazione di riabilitazione del fascismo avvenga attraverso le forme più pervasive e più immediate della comunicazione letteraria. In secondo luogo che ciò avvenga attraverso un’operazione pedagogica, di cui l’autore del romanzo si fa carico insieme ai tanti alfieri del mainstreaming (inteso esattamente come corrente culturale dominante e di regime) che popolano il nostro paesaggio culturale, di rilettura da sinistra del fascismo. In questo aspetto sta il carattere obliquo e viscoso del libro di Pennacchi: in un fascismo che viene presentato come regime sociale e popolare e non reazionario. E dunque prova a parlare anche a noi, a sottrarre certezze, a sostituire alle presunte mitologie sulla Resistenza verità più laiche e più problematiche che si anniderebbero nelle zone d’ombra della nostra storia.
L’impressione è che qui il segno si sia oltrepassato, e che con l’alibi della problematicità si sia aperto un varco pericolosissimo. Come scrive Lanna sul Secolo d’Italia «non ci sono più egemonie che stabiliscono i recinti e i limiti del discorso pubblico». È esattamente così. Aggiungerei che se ne è affermata un’altra, che definisce altri recinti e altri limiti, dai quali noi tutti – la nostra storia, persino il nostro giudizio estetico, e la ratifica di entrambi gli elementi nell’ufficialità dei concorsi letterari – siamo stati espulsi, forse che ce ne accorgessimo.
«Liberazione» del 9 luglio 2010
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