di Nicola Pini
L’immagine di Mao Tze Dong vigila ancora su piazza Tienammen, dall’ingresso della città proibita. La Cina immaginata dal Grande Timoniere invece non c’è più già da molto tempo. E quella che l’ha sostituta oggi è arrivata a un altro punto di svolta. Ancora prima dei dati macroeconomici, lo raccontano il traffico di scooter elettrici che attraversa la grande piazza di Pechino, le file di Volkswagen e Toyota d’importazione che superano le poche biciclette. Lo confermano le schiere di turisti e ragazzini che escono armeggiando tra cellulari e fotocamere dalla vicina fermata della metropolitana, una delle 10 linee della nuova scintillante rete della capitale cinese. In una frenesia della modernità che almeno in apparenza oscura il passato millenario.
Nella capitale politica dell’impero tirata a lucido dopo le Olimpiadi del 2008, enorme e trafficata ma funzionale e moderna da fare invidia alle nostre piccole e inefficienti metropoli, nella "Manhattan d’Oriente" Shanghai che in questi mesi ospita l’Expo, il passaggio della Cina da grande fabbrica proletaria del mondo a nuova enorme società di consumo è già realtà. Che ora si sta allargando al resto del Paese.
Una metamorfosi che la grande crisi globale del 2008-2009 invece di frenare ha favorito, con una virata della politica economica a sostegno del mercato interno. Anche la decisione delle autorità alla vigilia dell’ultimo G20 di Toronto con l’avvio di una graduale rivalutazione dello yuan va nella stessa direzione, favorendo per la prima volta le importazioni.
Il nuovo corso promette e già in parte permette alla popolazione un benessere più diffuso. Dopo un ventennio di industrializzazione accelerata senza nessuna tenerezza per le condizioni di lavoro, sociali e ambientali, dopo aver inondato il mondo di merci di bassa qualità a poco prezzo, oggi Pechino sta virando decisamente verso una crescita del tenore di vita, la diversificazione produttiva, il risparmio energetico, un’urbanizzazione meno distruttiva.
Più che di buone intenzioni si tratta scelte in qualche modo obbligate. Di fronte alla caduta del commercio internazionale e al calo dell’export, nel 2009 il governo ha reagito con un maxi-piano di stimolo da 480 miliardi di dollari, una spinta formidabile a investimenti, opere pubbliche e consumi interni. Il Pil del Paese l’anno scorso è rallentato (si fa per dire) all’8% ma già quest’anno è previsto che torni alla doppia cifra (+10,1%). Anche i rischi legati alla bolla immobiliare, secondo gli analisti, sono contenuti perché a differenza che in occidente la corsa al mattone non si basata sull’indebitamento: i cinesi pagano soprattutto in contanti. Del resto i «paperoni» (milionari in dollari) nel 2009 sono aumentati del 31% e sfiorano ormai le 500mila persone, più che in Gran Bretagna o Francia.
Ma la vera rivoluzione sta nell’espansione della classe media, stimata in 200 milioni di persone, e ormai paragonabile per dimensione e stili di vita a quella europea o americana. Anche se la regia dell’economia, soprattutto dei settori strategici, è saldamente in mano ai dirigenti del partito comunista, il 90% delle imprese è privato e c’è quindi un ampio ceto imprenditoriale e professionale a sostenere i consumi.
Non a caso proprio lo scorso anno il più grande Paese esportatore del mondo è diventato anche il secondo importatore, dopo gli Usa. Ma per reggere gli attuali tassi di sviluppo c’è bisogno di ulteriore estensione del mercato interno. Per questo le prime proteste dei lavoratori sottopagati delle fabbriche, gli scioperi per chiedere aumenti salariali hanno "bucato" la censura fino ad arrivare nei mesi scorsi sulla stampa nazionale e internazionale. È il segnale che il governo, in questo strano sistema comunista e di mercato, non osteggia una rivalutazione degli stipendi, come dimostrano anche i contenuti aumenti del salario minimo stabiliti dalle autorità locali.
Il nuovo corso offre alle imprese estere un gigantesco mercato di sbocco. Non si viene più a delocalizzare in Cina per vendere in Occidente. Oggi si produce qui per vendere ai cinesi e a tutta l’enorme area di libero scambio tra Pechino e il Sud-est asiatico. Una grande occasione anche per il Made in Italy, come spesso sottolineato nel corso della missione economica italiana in Cina organizzata un mese fa da Confindustria, Abi, Ice e dal nostro governo.
I cliché sulla Cina invecchiano in fretta. «Per capire la forza di questo Paese – racconta Antonino Laspina, direttore del nostro Istituto per il Commercio estero a Pechino – bisogna ricordare che sono andati nello spazio e che fanno ricerca i tutti i settore più avanzati. Ad esempio, stanno investendo molto nel settore dell’aviazione commerciale, hanno sviluppato un treno veloce tutto cinese, avanzano nel nucleare di nuova generazione con l’obiettivo di coprire con l’atomo il 10% del fabbisogno energetico entro il 2020, sono attrezzatissimi nelle rinnovabili». Il Paese si sta progressivamente affrancando dalla necessità di importare alta tecnologia perché le grandi imprese straniere hanno potuto investire qui solo grazie all’obbligo di cedere tecnologia ai partner locali. Così in pochi anni hanno recuperato lo svantaggio e oggi hanno, per dirne una, la più grande centrale eolica del mondo con 1.500 pale.
Il direttore dell’Ice vede due grandi vettori dello crescita cinese: uno sviluppo multipolare sul piano geografico, con il fronte del benessere che si allarga verso il centro e l’ovest del Paese, e uno multiprodotto sul piano industriale. «Sempre meno canottiere e sempre più tecnologia», sintetizza in una battuta. Un esempio è la città di Chongqin, la metropoli nuovo polo di sviluppo (non a caso una delle tappe della missione italiana) dove nei prossimi anni si costruiranno 500 chilometri di metropolitana monorotaia.
L’altra scelta obbligata è quella ambientale. Nel 2015 è previsto che la popolazione urbana superi quella delle campagne. Oggi la Cina consuma circa il doppio dell’energia dell’occidente a parità di produzione del Pil. Il territorio ha già subìto danni devastanti in un ventennio di industrializzazione accelerata. Con il nuovo inurbamento uno sviluppo più ecocompatibile è diventato imprescindibile. E questo significa prodotti a più basso consumo, più sofisticati.
In questo quadro la classe media non può che allargarsi ancora, nel territorio e verticalmente. I nuovi posti di lavoro saranno infatti meglio qualificati, specializzati e pagati. È un’evoluzione economica che avrà ricadute anche sui lavoratori di basso livello, gli immigrati dalla campagne che finora con salari da sussistenza e nessun diritto, hanno alimentato il boom del Paese e oggi chiedono accesso al dividendo della crescita, come testimoniano gli scioperi dei mesi scorsi. Con buona pace di Mao, la nuova rivoluzione in corso renderà un po’ più giusta la Cina grande potenza. I poveri di ieri potranno fare spesa nei centri commerciali. Mentre aziende e fondi sovrani, con lo yuan rivalutato, probabilmente verranno a fare shopping a casa nostra.
Nella capitale politica dell’impero tirata a lucido dopo le Olimpiadi del 2008, enorme e trafficata ma funzionale e moderna da fare invidia alle nostre piccole e inefficienti metropoli, nella "Manhattan d’Oriente" Shanghai che in questi mesi ospita l’Expo, il passaggio della Cina da grande fabbrica proletaria del mondo a nuova enorme società di consumo è già realtà. Che ora si sta allargando al resto del Paese.
Una metamorfosi che la grande crisi globale del 2008-2009 invece di frenare ha favorito, con una virata della politica economica a sostegno del mercato interno. Anche la decisione delle autorità alla vigilia dell’ultimo G20 di Toronto con l’avvio di una graduale rivalutazione dello yuan va nella stessa direzione, favorendo per la prima volta le importazioni.
Il nuovo corso promette e già in parte permette alla popolazione un benessere più diffuso. Dopo un ventennio di industrializzazione accelerata senza nessuna tenerezza per le condizioni di lavoro, sociali e ambientali, dopo aver inondato il mondo di merci di bassa qualità a poco prezzo, oggi Pechino sta virando decisamente verso una crescita del tenore di vita, la diversificazione produttiva, il risparmio energetico, un’urbanizzazione meno distruttiva.
Più che di buone intenzioni si tratta scelte in qualche modo obbligate. Di fronte alla caduta del commercio internazionale e al calo dell’export, nel 2009 il governo ha reagito con un maxi-piano di stimolo da 480 miliardi di dollari, una spinta formidabile a investimenti, opere pubbliche e consumi interni. Il Pil del Paese l’anno scorso è rallentato (si fa per dire) all’8% ma già quest’anno è previsto che torni alla doppia cifra (+10,1%). Anche i rischi legati alla bolla immobiliare, secondo gli analisti, sono contenuti perché a differenza che in occidente la corsa al mattone non si basata sull’indebitamento: i cinesi pagano soprattutto in contanti. Del resto i «paperoni» (milionari in dollari) nel 2009 sono aumentati del 31% e sfiorano ormai le 500mila persone, più che in Gran Bretagna o Francia.
Ma la vera rivoluzione sta nell’espansione della classe media, stimata in 200 milioni di persone, e ormai paragonabile per dimensione e stili di vita a quella europea o americana. Anche se la regia dell’economia, soprattutto dei settori strategici, è saldamente in mano ai dirigenti del partito comunista, il 90% delle imprese è privato e c’è quindi un ampio ceto imprenditoriale e professionale a sostenere i consumi.
Non a caso proprio lo scorso anno il più grande Paese esportatore del mondo è diventato anche il secondo importatore, dopo gli Usa. Ma per reggere gli attuali tassi di sviluppo c’è bisogno di ulteriore estensione del mercato interno. Per questo le prime proteste dei lavoratori sottopagati delle fabbriche, gli scioperi per chiedere aumenti salariali hanno "bucato" la censura fino ad arrivare nei mesi scorsi sulla stampa nazionale e internazionale. È il segnale che il governo, in questo strano sistema comunista e di mercato, non osteggia una rivalutazione degli stipendi, come dimostrano anche i contenuti aumenti del salario minimo stabiliti dalle autorità locali.
Il nuovo corso offre alle imprese estere un gigantesco mercato di sbocco. Non si viene più a delocalizzare in Cina per vendere in Occidente. Oggi si produce qui per vendere ai cinesi e a tutta l’enorme area di libero scambio tra Pechino e il Sud-est asiatico. Una grande occasione anche per il Made in Italy, come spesso sottolineato nel corso della missione economica italiana in Cina organizzata un mese fa da Confindustria, Abi, Ice e dal nostro governo.
I cliché sulla Cina invecchiano in fretta. «Per capire la forza di questo Paese – racconta Antonino Laspina, direttore del nostro Istituto per il Commercio estero a Pechino – bisogna ricordare che sono andati nello spazio e che fanno ricerca i tutti i settore più avanzati. Ad esempio, stanno investendo molto nel settore dell’aviazione commerciale, hanno sviluppato un treno veloce tutto cinese, avanzano nel nucleare di nuova generazione con l’obiettivo di coprire con l’atomo il 10% del fabbisogno energetico entro il 2020, sono attrezzatissimi nelle rinnovabili». Il Paese si sta progressivamente affrancando dalla necessità di importare alta tecnologia perché le grandi imprese straniere hanno potuto investire qui solo grazie all’obbligo di cedere tecnologia ai partner locali. Così in pochi anni hanno recuperato lo svantaggio e oggi hanno, per dirne una, la più grande centrale eolica del mondo con 1.500 pale.
Il direttore dell’Ice vede due grandi vettori dello crescita cinese: uno sviluppo multipolare sul piano geografico, con il fronte del benessere che si allarga verso il centro e l’ovest del Paese, e uno multiprodotto sul piano industriale. «Sempre meno canottiere e sempre più tecnologia», sintetizza in una battuta. Un esempio è la città di Chongqin, la metropoli nuovo polo di sviluppo (non a caso una delle tappe della missione italiana) dove nei prossimi anni si costruiranno 500 chilometri di metropolitana monorotaia.
L’altra scelta obbligata è quella ambientale. Nel 2015 è previsto che la popolazione urbana superi quella delle campagne. Oggi la Cina consuma circa il doppio dell’energia dell’occidente a parità di produzione del Pil. Il territorio ha già subìto danni devastanti in un ventennio di industrializzazione accelerata. Con il nuovo inurbamento uno sviluppo più ecocompatibile è diventato imprescindibile. E questo significa prodotti a più basso consumo, più sofisticati.
In questo quadro la classe media non può che allargarsi ancora, nel territorio e verticalmente. I nuovi posti di lavoro saranno infatti meglio qualificati, specializzati e pagati. È un’evoluzione economica che avrà ricadute anche sui lavoratori di basso livello, gli immigrati dalla campagne che finora con salari da sussistenza e nessun diritto, hanno alimentato il boom del Paese e oggi chiedono accesso al dividendo della crescita, come testimoniano gli scioperi dei mesi scorsi. Con buona pace di Mao, la nuova rivoluzione in corso renderà un po’ più giusta la Cina grande potenza. I poveri di ieri potranno fare spesa nei centri commerciali. Mentre aziende e fondi sovrani, con lo yuan rivalutato, probabilmente verranno a fare shopping a casa nostra.
«Avvenire» dell'8 luglio 2010
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