Nuovi contesti, stessa avventura
di Alessandro Zaccuri
In fondo è semplice: sono gli uomini che fanno l’umanesimo. È stato così in ogni epoca, da quella del papiro fino a quella della stampa, e non è diverso oggi, non sarà diverso domani. Mediale e cross-mediale, digitale e convergente sono concetti nuovi, d’accordo, processi che possono addirittura risultare rivoluzionari. Ma alla fine tocca ancora a noi fare la differenza. Tocca a ciascuno di noi, come sempre, assumere l’onere della testimonianza. Non si tratta di entusiasmarsi per qualsiasi dispositivo alimentato da una batteria al litio. Si tratta piuttosto di imparare a riconoscere i segni dei tempi, senza ignorare le zone d’ombre e senza lasciarsene assorbire. È un panorama sorprendente, quello che emerge dai lavori del convengo sui 'Testimoni digitali' che si conclude oggi a Roma al cospetto e con la parola di Benedetto XVI. E la sorpresa proviene dalla realtà, in perfetta coerenza con la tradizione del cristianesimo, che è scuola altissima – e severa – di realismo. Si annuncia il Vangelo nel mondo così com’è, non nel mondo così come vorremmo che fosse. Se il mondo della contemporaneità è un contesto 'aumentato', interconnesso e annodato da fili invisibili, è lì che i cristiani si danno appuntamento: nella nuova agorà, in una piazza che cessa di essere fittizia e secondaria perché è abitata da una concretezza radicale, da un’istintiva adesione alle ragioni ultime dell’essere uomo e dell’essere donna.
Tecno-ottimismo? Non esattamente. Anche per chi appartiene alla generazione degli 'immigrati digitali', persone nate e cresciute prima dell’avvento di computer e smart phone, quello che si sta delineando è un fenomeno che impone di evitare i luoghi comuni, i più radicati dei quali riguardano, al contrario, i cosiddetti 'nativi digitali'. Sono i ragazzi dai 25 anni in giù, solitamente rappresentati come incapaci di sottrarsi alla seduzione del virtuale, liquidi nei rapporti e instabili nei valori. La ricerca che l’Università cattolica ha realizzato in vista del convegno romano restituisce invece l’immagine di un universo giovanile smaliziato e consapevole, abilissimo nel dosare tempi e modi della presenza in rete. Forse noi adulti ancora non lo abbiamo capito, ma essere reperibili su Facebook non equivale a costruirsi un profilo su MySpace e l’amicizia vera, spesa nella consuetudine quotidiana, è simboleggiata dal numero di telefono. Anzi, di telefonino, un dettaglio che rimanda alla traccia creaturale della voce, il più immateriale e nel contempo il più riconoscibile fra i segni con cui la persona comunica la propria presenza.
In continuità ideale con 'Parabole mediatiche', il convegno che nel 2002 diede la dimensione dell’impegno della Chiesa italiana nell’ambito della comunicazione, 'Testimoni digitali' è un evento che si affaccia su un decennio caratterizzato da una rinnovata preoccupazione educativa. Un’impresa che non si compie solo per mezzo di allarmi e divieti, ma che diventa efficace quando rimodula 'l’alfabeto dell’umano' in un ambiente mediale che, già di per sé, fa a meno dei confini e costruisce ponti, come ha ricordato ieri il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco. Con queste parole la Chiesa indica una prospettiva che non ignora la leggerezza della relazioni on line, ma che proprio per questo fa appello alla densità originaria di un annuncio fondato sulla «presenza delle presenze», e cioè sulla verità del Risorto. Perché sono gli uomini che fanno l’umanesimo, certo. Ma è l’umanità di Cristo a infondere speranza in ogni avventura, anche quella che inizia nel momento in cui uno schermo si illumina davanti ai nostri occhi e il mondo che conoscevamo allarga i suoi orizzonti.
Tecno-ottimismo? Non esattamente. Anche per chi appartiene alla generazione degli 'immigrati digitali', persone nate e cresciute prima dell’avvento di computer e smart phone, quello che si sta delineando è un fenomeno che impone di evitare i luoghi comuni, i più radicati dei quali riguardano, al contrario, i cosiddetti 'nativi digitali'. Sono i ragazzi dai 25 anni in giù, solitamente rappresentati come incapaci di sottrarsi alla seduzione del virtuale, liquidi nei rapporti e instabili nei valori. La ricerca che l’Università cattolica ha realizzato in vista del convegno romano restituisce invece l’immagine di un universo giovanile smaliziato e consapevole, abilissimo nel dosare tempi e modi della presenza in rete. Forse noi adulti ancora non lo abbiamo capito, ma essere reperibili su Facebook non equivale a costruirsi un profilo su MySpace e l’amicizia vera, spesa nella consuetudine quotidiana, è simboleggiata dal numero di telefono. Anzi, di telefonino, un dettaglio che rimanda alla traccia creaturale della voce, il più immateriale e nel contempo il più riconoscibile fra i segni con cui la persona comunica la propria presenza.
In continuità ideale con 'Parabole mediatiche', il convegno che nel 2002 diede la dimensione dell’impegno della Chiesa italiana nell’ambito della comunicazione, 'Testimoni digitali' è un evento che si affaccia su un decennio caratterizzato da una rinnovata preoccupazione educativa. Un’impresa che non si compie solo per mezzo di allarmi e divieti, ma che diventa efficace quando rimodula 'l’alfabeto dell’umano' in un ambiente mediale che, già di per sé, fa a meno dei confini e costruisce ponti, come ha ricordato ieri il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco. Con queste parole la Chiesa indica una prospettiva che non ignora la leggerezza della relazioni on line, ma che proprio per questo fa appello alla densità originaria di un annuncio fondato sulla «presenza delle presenze», e cioè sulla verità del Risorto. Perché sono gli uomini che fanno l’umanesimo, certo. Ma è l’umanità di Cristo a infondere speranza in ogni avventura, anche quella che inizia nel momento in cui uno schermo si illumina davanti ai nostri occhi e il mondo che conoscevamo allarga i suoi orizzonti.
«Avvenire» del 24 aprile 2010
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