Gli adepti dell’evoluzionismo hanno tradito il loro padre
di Umberto Silva
Tra pochi giorni uscirà il libro di Jerry Fodor e Massimo Piattelli Palmarini “Gli errori di Darwin” (Feltrinelli). Tutte le interviste e gli articoli che il Foglio ha dedicato al dibattito sono disponibili su www.ilfoglio.it
Adolescente leggevo con gran diletto L’Origine delle specie insieme ai libri di Verne e di Salgari, sicché ora le ben articolate argomentazioni pro o contro l’opera di Darwin mi suonano comicamente surreali, come se qualcuno mi dicesse che è storicamente dimostrato, ma anche no, che la Tigre della Malesia si è scopata la Perla di Labuan. Darwin, Anassimandro, Lucrezio, Agostino, Newton, Marx, Freud... sono incorreggibili. Darwin è assai più di un darwinista o di un creazionista, è un creatore: le sue pagine confermano che quando l’uomo viaggia oltre se stesso, lontano da quel che crede di essere – un ammasso di cellule, un re o un povero scemo – quando si abbandona all’ispirazione, allo sguardo, al desiderio, è davvero figlio di Dio e, a Sua immagine e somiglianza, anch’egli crea. Adamo ed Eva, le tartarughe delle Galapagos... favole belle, antiche e moderne; quale vera quale falsa? E’ la loro audacia, la loro inventiva, a testimoniarlo, poiché verità è bellezza, bellezza verità. A ciascun umano il mito dell’origine in cui ritrovarsi principe azzurro o brutto anatroccolo. Da dove veniamo? Dai pensieri quando folgoranti ci sorprendono privi della corazza del pregiudizio, pensieri che giungono da regioni oscure confinanti con l’impensabile. Il mondo si disegna nel dialogo dell’uomo con Dio.
La scienza può prendere dall’opera di Darwin quel che ritiene opportuno, evitando però di farne il perno per una visione del mondo. La fissazione all’origine è il modo per negare quanto di originario c’è in ciascun pensiero. Passato, futuro e presente esistono nell’attuale, in quell’atto di parola in cui ciascuno, a modo suo, racconta, di geni e progenitori. Un racconto monotono fino all’asfissia quando non si ha il coraggio d’incontrare Altro nell’ascolto di quel che si va facendo e dicendo, ché le nostre azioni e parole ne sanno più di noi. I geni non sono i nostri genitori, ma, eventualmente, i nostri figli. Noi li creiamo. Noi li osserviamo, li nominiamo, li educhiamo. Attorno ad essi ci accapigliamo in tragicomiche dispute e anche per questo resteranno nella nostra storia. Un giorno, forse, riusciremo a sorriderne. Nel frattempo, che tra un palestratissimo cervello e un’anima nera e raggrinzita... io ed altri temerariamente scegliamo l’anima, è la prova della sua esistenza. I darwinisti e gli antidarwinisti puntano a una lettura canonica dell’opera di Darwin; tale integralismo comporta una messa a morte del Padre, del Figlio e dello Spirito. I fedelissimi imbalsamano il Padre e siedono sopra la pesante pietra sepolcrale, affinché non risorga. Darwin, evoluzionista in perenne evoluzione, risorge eccome, nelle teste dei suoi sedicenti discepoli innanzitutto, che sennò non si affannerebbero a dire che lui è quella cosa lì e nient’altro, marmoreo nel tempo, implacabile testamento, morto, morto, morto. A che pro volere a tutti i costi vedere morto il Padre, se non per spartirsene le spoglie a piacimento e agitarne il cadavere come un burattino?
Darwinismo e feticismo genetico si sostengono in un delirio che è vano inseguire in tutti i suoi giri e raggiri al fine di confutarlo; il delirio non si confuta né si sopisce, il delirio parla e va ascoltato, per intenderne la logica: nessuno può dire la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità, ma in ciò che ciascuno dice c’è del vero. Perché i darwinisti – tali non sono i veri scienziati ma gli ateologi predicatori – insistono nel loro credo, sempre più irrigiditi, schiacciati dalla propria sé-elezione che di naturale non ha nulla, frutto piuttosto di un fantasma di fratricidio? Pare che vogliano convincerci e soprattutto convincersi che il nulla regna sovrano, che tutto è stato scritto all’inizio dei tempi e noi siamo solo le conseguenze di un eterno disamore. Di quale peccato inespiabile i figli di Dio si credono colpevoli per accanirsi in tal modo contro l’idea di essere incessantemente creati e creatori? Cosa li spaventa al punto da costringerli a rifugiarsi nello sterile deserto dello scientismo, laddove potersi dichiarare orfani? Pensano di avere ucciso il Padre, un assassinio certificato dal loro suicidio? Non abbiate paura, signori, ma nemmeno sforzatevi troppo di mentirvi: il Padre non muore. In “Totem e Tabù” Sigmund Freud sfata ogni pretesa deicida ed evoluzionista: la gloria del primato ciascuno la conquista con la forza del proprio pensiero, singolare e non ereditabile. “Morto – v’è scritto nel grande libro – il Padre risorge più forte di prima”.
Il Padre – pensiero, parola, amore – spaventa; intollerabile l’idea d’incontrarlo, di autorizzarsi a un’invenzione, di librarsi nei cieli della creazione, della propria esistenza innanzitutto. Per viltà ci s’imparenta con la scimmia che non vede, non sente, non parla. Tuttavia, al di là delle loro peggiori intenzioni, gli ateologi darwinisti costituiscono una delle prove dell’esistenza di Dio: il loro accanimento contro di Lui dice quanto Egli sia vivo. Dio provoca, non lascia in pace, non lascia morire. I figli ribelli vegliano insonni, nel timore d’essere sorpresi da quel sogno di cui parla Amleto. Dalla croce di superbia cui si sono inchiodati lanciano la sfida: “Gettami nella polvere, mostrati Dio!”. Ma già sono vinti. Solo chi si sente trascinato dal vento divino può sentirsi così minacciato da aggrapparsi al cosiddetto gene, l’innocente acido nucleico innalzato a principio e fine di tutte le cose. Denigrando Dio i darwinisti Lo invocano, bramano qualcosa che faccia loro perdere la testa, che li porti in terre sconosciute, ove il sovrano sapere possa smarrirsi e mendicare briciole di mistero.
«Il Foglio» del 15 aprile 2010
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