La lezione di Napolitano e i «soliti noti»
di Giovanni Grasso
Le brutte, antidemocratiche e – per dirla tutta – 'fasciste' contestazioni a Roma e Milano contro esponenti istituzionali durante le celebrazioni del 25 aprile sono, probabilmente, un fenomeno marginale dal punto di vista numerico, visto che si tratta dei 'soliti noti', tempestivamente isolati e condannati da tutti gli altri. Ma non per questo risultano meno indegni e insopportabili, poiché negano nella sostanza i valori stessi di democrazia e convivenza che sono alla base dei festeggiamenti della ricorrenza della Liberazione. E attestano che ancora oggi in Italia esistono sacche di intolleranza politica contrarie alla pacificazione e all’unità nazionale: valori ai quali, sabato scorso a Milano, si è esplicitamente richiamato, con un discorso di altissimo spessore, il presidente Giorgio Napolitano.
Il dibattito sulla Liberazione e sulla Resistenza, che ha animato tutta la storia repubblicana, sembra essere finalmente giunto a una svolta. La prima fase è stata contraddistinta da un’enfasi retorica probabilmente eccessiva, ma funzionale alla creazione di una sorta di mitologia resistenziale.
Una seconda fase ha cominciato a mettere in evidenza alcune gravi pecche nel movimento partigiano, ma con un’ottica talvolta negazionista che offendeva la memoria delle circa 80 mila vittime dei combattenti per la libertà. Più recentemente si è espresso un giudizio più equilibrato, che ha preso atto delle molte luci e delle ombre che segnarono la lotta partigiana e che ha contribuito a riconoscere e valorizzare il ruolo di alcuni soggetti a lungo trascurati, come i militari, gli internati e la popolazione civile, che appartengono a pieno titolo alla vicenda, per usare le parole del capo dello Stato «della liberazione e della riunificazione d’Italia a conclusione di una drammatica divisione in due e di una profonda lacerazione del nostro Paese». Si sono, infine, levate molte voci di rispetto per i morti in buona fede da una parte e dall’altra, senza che questo implicasse una sorta di neutralità o equidistanza tra le ragioni di chi combatteva a fianco dei nazisti e chi a fianco delle truppe alleate. Un’impostazione , insomma, storico-politica rigorosa, frutto di ricerche e di studi, che sarebbe un errore liquidare come una sorta di compromesso accomodante e al ribasso.
Un equilibrio, raggiunto con molta fatica, che ha permesso alla stragrande maggioranza degli italiani di riconoscersi finalmente nei valori fondanti del 25 aprile, ovvero: sì alla libertà, alla democrazia, all’unità nazionale; no alla sopraffazione, alla dittatura, al razzismo.
È un destino tutto italiano quello di usare la storia come clava nella competizione politica. E probabilmente la causa di questo non sempre commendevole sport nazionale va ricercato in motivazioni profonde, ovvero che i conti con la democrazia (di stampo liberale e occidentale) molte forze li hanno fatti solo in tempi piuttosto recenti (come non ricordare la presenza devastante per anni del terrorismo rosso e nero che ha insanguinato il nostro Paese, uccidendone gli uomini migliori?). È stato per molti necessario, insomma, un processo di depurazione lento, complesso, a volte contraddittorio, ma sincero e coraggioso. Un processo che ha lasciato, qua e là, qualche scoria di irriducibili e qualche inaccettabile strascico. Ma che si è , nel suo complesso, finalmente compiuto, a destra come a sinistra. E che sarebbe, oggi, un delitto grave, davvero antipatriottico e anti-italiano, negare (come qualcuno ha tentato di fare in piazza, domenica scorsa) o, a livello politico più generale, sottovalutare.
Il dibattito sulla Liberazione e sulla Resistenza, che ha animato tutta la storia repubblicana, sembra essere finalmente giunto a una svolta. La prima fase è stata contraddistinta da un’enfasi retorica probabilmente eccessiva, ma funzionale alla creazione di una sorta di mitologia resistenziale.
Una seconda fase ha cominciato a mettere in evidenza alcune gravi pecche nel movimento partigiano, ma con un’ottica talvolta negazionista che offendeva la memoria delle circa 80 mila vittime dei combattenti per la libertà. Più recentemente si è espresso un giudizio più equilibrato, che ha preso atto delle molte luci e delle ombre che segnarono la lotta partigiana e che ha contribuito a riconoscere e valorizzare il ruolo di alcuni soggetti a lungo trascurati, come i militari, gli internati e la popolazione civile, che appartengono a pieno titolo alla vicenda, per usare le parole del capo dello Stato «della liberazione e della riunificazione d’Italia a conclusione di una drammatica divisione in due e di una profonda lacerazione del nostro Paese». Si sono, infine, levate molte voci di rispetto per i morti in buona fede da una parte e dall’altra, senza che questo implicasse una sorta di neutralità o equidistanza tra le ragioni di chi combatteva a fianco dei nazisti e chi a fianco delle truppe alleate. Un’impostazione , insomma, storico-politica rigorosa, frutto di ricerche e di studi, che sarebbe un errore liquidare come una sorta di compromesso accomodante e al ribasso.
Un equilibrio, raggiunto con molta fatica, che ha permesso alla stragrande maggioranza degli italiani di riconoscersi finalmente nei valori fondanti del 25 aprile, ovvero: sì alla libertà, alla democrazia, all’unità nazionale; no alla sopraffazione, alla dittatura, al razzismo.
È un destino tutto italiano quello di usare la storia come clava nella competizione politica. E probabilmente la causa di questo non sempre commendevole sport nazionale va ricercato in motivazioni profonde, ovvero che i conti con la democrazia (di stampo liberale e occidentale) molte forze li hanno fatti solo in tempi piuttosto recenti (come non ricordare la presenza devastante per anni del terrorismo rosso e nero che ha insanguinato il nostro Paese, uccidendone gli uomini migliori?). È stato per molti necessario, insomma, un processo di depurazione lento, complesso, a volte contraddittorio, ma sincero e coraggioso. Un processo che ha lasciato, qua e là, qualche scoria di irriducibili e qualche inaccettabile strascico. Ma che si è , nel suo complesso, finalmente compiuto, a destra come a sinistra. E che sarebbe, oggi, un delitto grave, davvero antipatriottico e anti-italiano, negare (come qualcuno ha tentato di fare in piazza, domenica scorsa) o, a livello politico più generale, sottovalutare.
«Avvenire» del 27 aprile 2010
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