«Non è accettabile la riduzione della Resistenza in schemi di parte e neppure l’intento di sottovalutare la partecipazione dei credenti: un apporto che fu determinante»
di Bruno Olini
L’Italia celebra il 65° anniversario della Liberazione e la fine del secondo conflitto, rendendo innanzitutto il doveroso omaggio a tutti coloro che sacrificarono la vita per ridare libertà al Paese. Una celebrazione quanto mai significativa, con il richiamo a quei valori che hanno caratterizzato un periodo drammatico della nostra storia nella lotta al nazifascismo, nella ribellione alla prepotenza, all’ingiustizia, alla negazione della dignità della persona.
Malgrado il tempo trascorso, non possiamo ignorare il travaglio di uomini che hanno saputo lottare fino a dare la propria vita per gli ideali che ritenevano giusti; le grandi sofferenze di intere popolazioni che hanno pagato un prezzo altissimo; il dramma di molti giovani strappati ai loro affetti, costretti a impugnare le armi; l’Olocausto di milioni di ebrei nei campi di sterminio. Eventi vissuti da un popolo che anelava a vivere in pace, con dignità e nella solidarietà.Vivere una nuova vita, fondata sui valori di libertà e di eguaglianza, di ripudio della guerra e nella manifestata volontà della collaborazione internazionale.
Nessuno può ignorare che l’antifascismo operante durante il regime mussoliniano fu, indubbiamente, la ragione 'storicistica' in cui si sprigionò la forza propulsiva della rivolta e che oggi costituisce un baluardo di garanzia democratica contro qualsiasi totalitarismo. Tuttavia la Resistenza non fu solo un glorioso fatto d’armi ma, soprattutto, un travolgente moto di popolo, un grande movimento di ideali e di azioni; la presa di coscienza di una nazione nelle giornate più tristi della sua storia; una rivolta che vide impegnati uomini e donne uniti dall’ansia di poter essere cittadini di una società libera, in nome di quella democrazia senza la quale non può esserci giustizia sociale.
Ecco perché, a coloro che ancora oggi si chiedono se la Resistenza fu 'guerra giusta', va risposto che lo fu, in quanto non mirava alla conquista di territori e neppure ad abbattere un tiranno, dato che con la caduta del fascismo il 25 luglio 1943 e la costituzione del governo Badoglio, il futuro di Mussolini era segnato. Ma fu lotta ai soprusi, alle intimidazioni, ai massacri, alle deportazioni. Era la ribellione dell’oppresso contro l’oppressore. Certamente fu una guerra dura, con il coinvolgimento di intere popolazioni, con i sacrifici, gli orrori e gli errori della guerra. E anche dopo, malauguratamente, non mancarono episodi gravi di violenza e di vendetta che però nulla avevano a che fare con la Resistenza.
A chi parla di 'guerra civile', va osservato che guerra civile si ha quando una popolazione si spacca su due fronti contrapposti con forze del tutto o quasi equivalenti. Non basta, infatti, che vi sia dall’altra parte un certo numero di connazionali per poter definire una guerra di liberazione 'guerra civile'. E, per la Resistenza, il nemico da combattere era il tedesco invasore, anche se, in minima parte, fu guerra fratricida, per l’esistenza della Repubblica sociale di Salò al servizio dei nazisti.
Non c’è dubbio che anche senza la Resistenza, le forze angloamericane che al momento dell’armistizio (8 settembre 1943) già erano sbarcate nel Sud, ci avrebbero liberati. Ma se Alcide De Gasperi, quale presidente del Consiglio, nell’immedato dopoguerra potè parlare a fronte alta ai governanti dei Paesi vincitori lo si deve soprattutto a chi, in quel drammatico periodo, scelse di stare dalla parte giusta. Va perciò detto che non è accettabile la monopolizzazione della Resistenza in schemi di parte e neppure l’intento di taluni storici che tendono a sottovalutare la partecipazione dei cattolici: un apporto che fu consistente, non raramente determinante, comunque sempre essenziale.
Il passato – non lo dimentichino le nuove generazioni – va studiato e meditato, anche perché la memoria è l’anima profonda di un popolo. Perché, allora, potremmo chiederci, talune celebrazioni previste dal nostro calendario, quali la Giornata della Memoria (27 gennaio) a ricordo della liberazione dei deportati di Auschwitz e delle vittime dell’Olocausto; l’anniversario della Liberazione (25 aprile); la Festa della Repubblica (2 giugno); la Giornata delle Forze Armate e dell’Unità nazionale (4 novembre), perché non dovrebbero avere l’unanime partecipazione e condivisione dei cittadini, a comprova della ritrovata pacificazione nazionale? Guardandoci intorno, dove sembra prevalere un clima di continua conflittualità, non è fuori luogo affermare che c’è bisogno di un risveglio delle coscienze, del recupero di una comprensione generale, del rispetto delle opinioni altrui, del dialogo costruttivo per il bene comune, di una 'memoria condivisa', per costruire, giorno per giorno, l’edificio della libertà e della giustizia sociale. Astenersi da questo impegno, significherebbe offendere il passato e compromettere il futuro.
Malgrado il tempo trascorso, non possiamo ignorare il travaglio di uomini che hanno saputo lottare fino a dare la propria vita per gli ideali che ritenevano giusti; le grandi sofferenze di intere popolazioni che hanno pagato un prezzo altissimo; il dramma di molti giovani strappati ai loro affetti, costretti a impugnare le armi; l’Olocausto di milioni di ebrei nei campi di sterminio. Eventi vissuti da un popolo che anelava a vivere in pace, con dignità e nella solidarietà.Vivere una nuova vita, fondata sui valori di libertà e di eguaglianza, di ripudio della guerra e nella manifestata volontà della collaborazione internazionale.
Nessuno può ignorare che l’antifascismo operante durante il regime mussoliniano fu, indubbiamente, la ragione 'storicistica' in cui si sprigionò la forza propulsiva della rivolta e che oggi costituisce un baluardo di garanzia democratica contro qualsiasi totalitarismo. Tuttavia la Resistenza non fu solo un glorioso fatto d’armi ma, soprattutto, un travolgente moto di popolo, un grande movimento di ideali e di azioni; la presa di coscienza di una nazione nelle giornate più tristi della sua storia; una rivolta che vide impegnati uomini e donne uniti dall’ansia di poter essere cittadini di una società libera, in nome di quella democrazia senza la quale non può esserci giustizia sociale.
Ecco perché, a coloro che ancora oggi si chiedono se la Resistenza fu 'guerra giusta', va risposto che lo fu, in quanto non mirava alla conquista di territori e neppure ad abbattere un tiranno, dato che con la caduta del fascismo il 25 luglio 1943 e la costituzione del governo Badoglio, il futuro di Mussolini era segnato. Ma fu lotta ai soprusi, alle intimidazioni, ai massacri, alle deportazioni. Era la ribellione dell’oppresso contro l’oppressore. Certamente fu una guerra dura, con il coinvolgimento di intere popolazioni, con i sacrifici, gli orrori e gli errori della guerra. E anche dopo, malauguratamente, non mancarono episodi gravi di violenza e di vendetta che però nulla avevano a che fare con la Resistenza.
A chi parla di 'guerra civile', va osservato che guerra civile si ha quando una popolazione si spacca su due fronti contrapposti con forze del tutto o quasi equivalenti. Non basta, infatti, che vi sia dall’altra parte un certo numero di connazionali per poter definire una guerra di liberazione 'guerra civile'. E, per la Resistenza, il nemico da combattere era il tedesco invasore, anche se, in minima parte, fu guerra fratricida, per l’esistenza della Repubblica sociale di Salò al servizio dei nazisti.
Non c’è dubbio che anche senza la Resistenza, le forze angloamericane che al momento dell’armistizio (8 settembre 1943) già erano sbarcate nel Sud, ci avrebbero liberati. Ma se Alcide De Gasperi, quale presidente del Consiglio, nell’immedato dopoguerra potè parlare a fronte alta ai governanti dei Paesi vincitori lo si deve soprattutto a chi, in quel drammatico periodo, scelse di stare dalla parte giusta. Va perciò detto che non è accettabile la monopolizzazione della Resistenza in schemi di parte e neppure l’intento di taluni storici che tendono a sottovalutare la partecipazione dei cattolici: un apporto che fu consistente, non raramente determinante, comunque sempre essenziale.
Il passato – non lo dimentichino le nuove generazioni – va studiato e meditato, anche perché la memoria è l’anima profonda di un popolo. Perché, allora, potremmo chiederci, talune celebrazioni previste dal nostro calendario, quali la Giornata della Memoria (27 gennaio) a ricordo della liberazione dei deportati di Auschwitz e delle vittime dell’Olocausto; l’anniversario della Liberazione (25 aprile); la Festa della Repubblica (2 giugno); la Giornata delle Forze Armate e dell’Unità nazionale (4 novembre), perché non dovrebbero avere l’unanime partecipazione e condivisione dei cittadini, a comprova della ritrovata pacificazione nazionale? Guardandoci intorno, dove sembra prevalere un clima di continua conflittualità, non è fuori luogo affermare che c’è bisogno di un risveglio delle coscienze, del recupero di una comprensione generale, del rispetto delle opinioni altrui, del dialogo costruttivo per il bene comune, di una 'memoria condivisa', per costruire, giorno per giorno, l’edificio della libertà e della giustizia sociale. Astenersi da questo impegno, significherebbe offendere il passato e compromettere il futuro.
*segretario dell’Associazione nazionale partigiani cristiani (ANPC)
«Avvenire» del 25 aprile 2010
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