di Claudio Risé
Che effetto ha sulla psiche individuale e collettiva l’enfasi data dai media alle storie di corruzione, e agli usi e costumi dei corrotti o supposti tali?
A giudicare da sogni e vissuti riferiti in psicoterapia parrebbe che trascrizioni di conversazioni senza scrupoli, ricostruzioni dettagliate di abitudini perverse e illegali generino soprattutto un vissuto depressivo. Le persone si sentono come accerchiate dal male, ed hanno l’impressione che non ci sia nulla da fare per cambiare la situazione.
Questa sensazione è generata sia dal ripetersi incessante di questo tipo di episodi, sia dal fatto che finora la maggior parte delle persone presentate inizialmente come colpevoli è stata poi assolta nei diversi livelli di giudizio. Ciò crea spaesamento e depressione un po’ in tutti. Sia in coloro che ritengono gli indiziati colpevoli, e dunque pensano che i giudici che li mandano assolti non rispettino la verità. Sia in chi crede invece al verdetto di innocenza (che spesso si aspetta fin dall’inizio della vicenda), e trae dall’accaduto il senso di una grande ingiustizia verso chi era stato accusato a torto, e verso il pubblico, indotto in ogni modo a credere nella colpevolezza.
Il diffondersi di questa sensazione depressiva, generata da un male ritenuto non arginabile, oppure artificialmente manipolato, ammala in modo profondo la coscienza collettiva. Tanto che uno dei fondatori della sociologia, Vilfredo Pareto, associava ad esso l’affermazione delle dittature, aiutate appunto dal senso di impotenza dei cittadini di fronte al male diffuso nello Stato e nella società.
Allora però (nei primi decenni del secolo scorso), il sistema delle comunicazioni ed i media erano estremamente arretrati e la loro influenza molto ristretta rispetto ad oggi. Da allora il megafono comunicativo è diventato molto più potente, ed anche l’effetto depressivo delle ripetute e martellanti denunce del male e della corruzione sociale è cresciuto. Tanto più che oggi anche nelle cronache di corruzione si manifesta l’effetto della «overdose di informazioni», tipico dell’attuale società della comunicazione, come non caso è definita da tempo. Esso consiste nel fatto che le informazioni sono ormai troppo numerose e distribuite con eccessiva frequenza per poter essere assorbite in modo utile (come i dati sui movimenti dei terroristi che non vengono assimilati in tempo dai servizi di sicurezza).
A questo fenomeno generale non sfuggono le campagne mediatiche sulla corruzione: ormai esse sono talmente ampie, dettagliate e frequenti, da provocare appunto un’overdose, una sorta di reazione anafilattica. Nella quale la depressione e la rabbia moltiplica l’assuefazione cinica da un lato, e dall’altro atteggiamenti paranoidi, di linciaggio indiscriminato di colpevoli non ancora accertati (il Web è il teatro ideale per questi fenomeni, spesso impressionanti).
Che fare dunque visto che la corruzione è tragicamente diffusa e i cittadini hanno diritto di essere informati delle iniziative giudiziarie per combatterla?
Può essere intanto utile la diffusione della consapevolezza dei rischi sopra descritti. Il fascino dello scoop, della battaglia per il bene, ed anche l’irresistibile attrazione per la vita privata degli altri, specialmente se farcita di mascalzonate e doppiezze, devono essere mediati dal senso di responsabilità per il male che si va a propalare con informazioni morbose, o che violano la privacy prima che venga stabilita una colpevolezza.
Una maggiore serenità nel corpo sociale può valere il rischio di uno share più ridotto, o di qualche copia in meno.
A giudicare da sogni e vissuti riferiti in psicoterapia parrebbe che trascrizioni di conversazioni senza scrupoli, ricostruzioni dettagliate di abitudini perverse e illegali generino soprattutto un vissuto depressivo. Le persone si sentono come accerchiate dal male, ed hanno l’impressione che non ci sia nulla da fare per cambiare la situazione.
Questa sensazione è generata sia dal ripetersi incessante di questo tipo di episodi, sia dal fatto che finora la maggior parte delle persone presentate inizialmente come colpevoli è stata poi assolta nei diversi livelli di giudizio. Ciò crea spaesamento e depressione un po’ in tutti. Sia in coloro che ritengono gli indiziati colpevoli, e dunque pensano che i giudici che li mandano assolti non rispettino la verità. Sia in chi crede invece al verdetto di innocenza (che spesso si aspetta fin dall’inizio della vicenda), e trae dall’accaduto il senso di una grande ingiustizia verso chi era stato accusato a torto, e verso il pubblico, indotto in ogni modo a credere nella colpevolezza.
Il diffondersi di questa sensazione depressiva, generata da un male ritenuto non arginabile, oppure artificialmente manipolato, ammala in modo profondo la coscienza collettiva. Tanto che uno dei fondatori della sociologia, Vilfredo Pareto, associava ad esso l’affermazione delle dittature, aiutate appunto dal senso di impotenza dei cittadini di fronte al male diffuso nello Stato e nella società.
Allora però (nei primi decenni del secolo scorso), il sistema delle comunicazioni ed i media erano estremamente arretrati e la loro influenza molto ristretta rispetto ad oggi. Da allora il megafono comunicativo è diventato molto più potente, ed anche l’effetto depressivo delle ripetute e martellanti denunce del male e della corruzione sociale è cresciuto. Tanto più che oggi anche nelle cronache di corruzione si manifesta l’effetto della «overdose di informazioni», tipico dell’attuale società della comunicazione, come non caso è definita da tempo. Esso consiste nel fatto che le informazioni sono ormai troppo numerose e distribuite con eccessiva frequenza per poter essere assorbite in modo utile (come i dati sui movimenti dei terroristi che non vengono assimilati in tempo dai servizi di sicurezza).
A questo fenomeno generale non sfuggono le campagne mediatiche sulla corruzione: ormai esse sono talmente ampie, dettagliate e frequenti, da provocare appunto un’overdose, una sorta di reazione anafilattica. Nella quale la depressione e la rabbia moltiplica l’assuefazione cinica da un lato, e dall’altro atteggiamenti paranoidi, di linciaggio indiscriminato di colpevoli non ancora accertati (il Web è il teatro ideale per questi fenomeni, spesso impressionanti).
Che fare dunque visto che la corruzione è tragicamente diffusa e i cittadini hanno diritto di essere informati delle iniziative giudiziarie per combatterla?
Può essere intanto utile la diffusione della consapevolezza dei rischi sopra descritti. Il fascino dello scoop, della battaglia per il bene, ed anche l’irresistibile attrazione per la vita privata degli altri, specialmente se farcita di mascalzonate e doppiezze, devono essere mediati dal senso di responsabilità per il male che si va a propalare con informazioni morbose, o che violano la privacy prima che venga stabilita una colpevolezza.
Una maggiore serenità nel corpo sociale può valere il rischio di uno share più ridotto, o di qualche copia in meno.
«Il Mattino di Napoli» dell'8 marzo 2010
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