di Eugeny Morozov
Agli albori di Internet, le speranze che nutrivamo in questo strumento erano molteplici. Come in qualsiasi storia d'amore che sboccia, abbiamo provato il desiderio di credere che il nostro affascinante oggetto d'amore potesse cambiare il mondo. Internet è stato esaltato come lo strumento ideale per migliorare la tolleranza, sconfiggere il nazionalismo, trasformare il pianeta in un villaggio globale interconnesso. Oggi ci accorgiamo che non è così. Non del tutto, almeno.
Come rimasero deluse le generazioni che ci hanno preceduto, constatando che né il telegrafo né la radio avevano mantenuto le promesse, così pure noi non stiamo assistendo ad alcuna particolare affermazione nel mondo di pace globale, amore e libertà, come ci era stato pronosticato.
Prendiamo Twitter, per esempio. I tweet non rovesciano i governi. Soltanto i popoli possono riuscirci. I siti di social network possono essere utili e nocivi per gli attivisti che operano in un regime autoritario. Dopo le proteste di Teheran dell'anno scorso, le autorità iraniane hanno aperto un sito che pubblica le fotografie scattate ai manifestanti, incoraggiando gli utenti a dare loro nome e cognome.
Insomma stiamo comprendendo come la tecnologia non consenta di carpire necessariamente un maggior numero di informazioni dai regimi chiusi, ma semplicemente permette a un numero maggiore di persone di avere accesso alle informazioni disponibili. Ma i governi tuttora mantengono un enorme potere nel decidere che tipo di informazione rendere nota.
Infine, la speranza delusa che forse ci sorprende di più: internet sembrava poter azzerare le distanze. Ma non è così: la geografia conta ancora al punto che alcuni paesi - Cina, Iran, Cuba e Turchia - valutano la possibilità di "internet nazionali", frazionando ulteriormente il World wide web. L'era di Splinternet - l'internet frazionato - è davvero alle porte e la cyber utopia degli appassionati della prima ora appare sempre più illusoria.
Quante speranze in quello spazio infinito che abbiamo imparato a conoscere e ad attraversare. Ma Internet, che ci ha ammaliati con la promessa di trasformare il pianeta in un villaggio globale, ha tradito alcune delle nostre attese: ha chiamato i governi a maggiori responsabilità (ma non sempre hanno risposto a dovere) e ha cercato di migliorare - a volte invano - la partecipazione alla gestione della cosa pubblica. Anche le speranze in Twitter sono evaporate: non farà tremare i dittatori come si auspicava.
1) Promessa mancata: è una forza che agisce per il bene di tutti
No. Agli albori di internet, le speranze che nutrivamo erano molteplici. Come in qualsiasi storia d'amore che sboccia, abbiamo provato il desiderio di credere che il nostro affascinante oggetto d'amore potesse cambiare il mondo. Internet è stato esaltato come lo strumento ideale per migliorare la tolleranza, sconfiggere il nazionalismo, trasformare il pianeta in un villaggio globale interconnesso. Nel 1994 alcuni appassionati di digitale, guidato da Esther Dyson e Alvin Toffler, pubblicò un manifesto, sottotitolato con scarsa modestia "La Magna Carta dell'era della conoscenza", nel quale si prospettava l'avvento di "territori elettronici legati da interessi condivisi, più che dalla geografia". L'allora capo del MediaLab dell'Mit, Nicholas Negroponte, nel 1997 predisse che internet avrebbe abbattuto le frontiere tra paesi e spalancato le porte di una nuova era di pace. Internet esiste da una ventina d'anni e ha portato grandi innovazioni. La quantità di prodotti e servizi accessibili online è sbalorditiva. Anche le comunicazioni tra paesi si sono fatte più semplici: le costose bollette delle telefonate internazionali sono state sostituite da economici abbonamenti a Skype (nella foto). Google Translate offre un aiuto per navigare tra la pagine web scritte in spagnolo, mandarino, maltese e più di una quarantina di altre lingue.
Come rimasero deluse le generazioni che ci hanno preceduto, constatando che né il telegrafo né la radio avevano mantenuto le promesse, così pure noi non stiamo assistendo ad alcuna particolare affermazione nel mondo di pace globale, amore e libertà, come ci era stato pronosticato. Verosimilmente non vedremo cambi neppure in futuro. Molti dei network transnazionali sorti grazie a internet presumibilmente peggioreranno, invece di migliorare, il mondo che conosciamo. A un convegno sulle strategie per contrastare il traffico illecito di animali a rischio di estinzione, internet è stato individuato come il principale motore del commercio globale di specie protette. La Rete è un mondo nel quale gli attivisti omofobici serbi si ritrovano su Facebook per lottare contro i gay, e dove i conservatori dell'Arabia Saudita mettono online l'equivalente della Commissione per la promozione della virtù e la repressione dei vizi. E tutto ciò malgrado la "libertà di connessione" esaltata dal segretario di stato americano Hillary Clinton nel suo discorso su internet e diritti umani. Purtroppo, un mondo interconnesso non è automaticamente un mondo più giusto.
2) Twitter sa far tremare i dittatori e smaschera i limiti dei patiti politici
Sbagliato. I tweet non rovesciano i governi. Soltanto i popoli possono riuscirci. I siti di social network possono essere utili e nocivi per gli attivisti che operano in un regime autoritario. I sostenitori delle odierne proteste virtuali che proliferano e si moltiplicano in Rete fanno notare che i servizi online quali Twitter, Flickr e YouTube hanno reso più semplice la circolazione delle informazioni, molto più che in passato, quando il controllo esercitato dallo stato era rigido e inflessibile, specialmente per ciò che concerne fotografie o filmati raccapriccianti o le prove di violenze e abusi perpetrati dalla polizia o di ingiustizie commesse nei tribunali. Basti pensare ai blogger dell'opposizione che in Russia hanno lanciato Shpik.info sulla falsariga di Wikipedia, un sito che consente a chiunque di caricare foto, nomi e dettagli dei contatti di presunti "nemici della democrazia" - giudici, poliziotti, in qualche caso anche politici - accusati di complicità nell'imbavagliare la libertà di espressione. Il primo ministro britannico Gordon Brown l'anno scorso ha affermato che nell'era di Twitter il genocidio del Rwanda sarebbe stato impossibile.
Siamo sicuri che maggiore informazione si traduca in maggiori possibilità di raddrizzare ciò che non funziona? Non necessariamente. Né il regime iraniano (nella foto, i twitter con il volto di Neda) né quello burmese sono crollati sotto le pressioni delle foto digitali delle violenze e delle violazioni dei diritti umani fatte girare e postate sui siti di social network. Anzi, le autorità iraniane sono state leste a sfruttare i vantaggi offerti da internet, tanto quanto i loro oppositori di verde vestiti. Dopo le proteste di Teheran dell'anno scorso, le autorità iraniane hanno aperto un sito che pubblica le fotografie scattate ai manifestanti, incoraggiando gli utenti a dare loro nome e cognome. Contando sulle fotografie e i filmati caricati su Flickr e YouTube dai manifestanti e dai simpatizzanti in Occidente, la polizia segreta dispone di un'ingente quantità di documenti incriminanti. Né Twitter né Facebook offrono la sicurezza di cui necessiterebbe una rivoluzione di successo, e potrebbero finire col fungere da precoci campanelli d'allarme per i governanti più dispotici. Se nel 1989 i tedeschi della Germania Est avessero potuto utilizzare i tweet per esprimere i loro sentimenti, siamo sicuri che la Stasi non sarebbe intervenuta per reprimere il dissenso?
Anche nel caso in cui Twitter e Facebook consentissero di ottenere vittorie parziali, nessun giocatore d'azzardo oserebbe scommettere due volte sul successo di uno stesso trucchetto. Si prenda una delle campagne preferite degli utopisti digitali: a inizio 2008 un gruppo su Facebook fondato da un ingegnere colombiano di 33 anni portò a manifestazioni di massa e fino a due milioni di persone sfilarono nelle strade di Bogotà per dimostrare contro la violenza dei ribelli marxisti delle Farc. Quando questi stessi "rivoluzionari del digitale" a settembre hanno cercato di organizzare una marcia analoga contro il leader venezuelano e sponsor delle Farc Hugo Chávez, si sono trovati in grossa difficoltà.
I motivi per i quali le campagne di pressione falliscono nel loro intento non hanno nulla a che vedere con Facebook e Twitter, ma molto con i problemi legati all'organizzazione dei movimenti politici. Gli entusiasti di internet sostengono che la Rete ha reso l'organizzazione più semplice, ma ciò è vero in parte: per sfruttare i vantaggi dell'organizzazione online occorre un movimento strutturato e disciplinato, che abbia obiettivi definiti, gerarchie e procedure operative trasparenti (basti pensare alla campagna per la presidenza di Barack Obama). Se un movimento politico è disorganizzato, internet mette in luce i punti deboli e catalizza i conflitti interni.
3) Non sempre la trasparenza del web impone a chi è al potere responsabilità
Non necessariamente. Molti entusiasti del web, che in passato non si interessavano ai dibattiti politici, hanno iniziato a raccogliere la sfida di farsi controllori dei governi, trascorrendo notti e giorni a digitalizzare le informazioni e a caricarle nei database online. Dal britannico TheyWorkforYou (nella foto), al keniano Mzalendo, a vari progetti affiliati alla Sunlight Foundation con sede negli Stati Uniti, come MAPLight.org, un gran numero di siti web indipendenti hanno iniziato a monitorare le attività parlamentari, e alcuni offrono addirittura paragoni tra i voti dei parlamentari e le loro promesse fatte in campagna elettorale. Simili sforzi sono sfociati in una politica migliore o anche solo più onesta? Finora i risultati sono alquanto contrastanti. Anche i più idealistici fanatici stanno iniziando a comprendere che le barriere più insormontabili a una politica più aperta e partecipata sono le patologie croniche del mondo politico e istituzionale, e non le carenze tecnologiche. La tecnologia non consente di carpire necessariamente un maggior numero di informazioni dai regimi chiusi, ma permette a un numero maggiore di persone di avere accesso alle informazioni disponibili. I governi tuttora mantengono un enorme potere nel decidere che tipo di informazione rendere nota. Per ora, perfino l'amministrazione Obama, autoproclamatasi paladina del "governo aperto", si attira qualche critica da parte dei gruppi che tengono d'occhio la trasparenza dell'informazione per aver reso note le informazioni sui numeri dei cavalli e degli asini esistenti e aver tenuto invece sotto silenzio alcune informazioni più delicate riguardanti petrolio e gas. Ma anche nel caso in cui fossero rese note informazioni più dettagliate, non sempre queste portano necessariamente a politiche riformate, come ha sottolineano Lawrence Lessig nel suo incisivo articolo di fondo su New Republic dell'anno scorso. Per instaurare rapporti e connessioni significativi tra informazione, trasparenza e responsabilità sarà necessario qualcosa di più che limitarsi ad armeggiare con i fogli di calcolo elettronici. Sarà indispensabile dar vita a istituzioni sane e democratiche, sistemi di controllo e vigilanza efficienti. Internet potrà sicuramente dare una mano, ma soltanto fino a un certo punto. Troppo spesso, ancora adesso, a mancare è la volontà politica, e non un numero maggiore di informazioni.
4) Spazi per l'impegno civico ma la partecipazione non sempre aumenta
Dipende. Internet ha sicuramente creato nuove strade per scambiarsi idee e opinioni, ma ancora oggi non sappiamo se ciò basti ad alimentare il fascino e la pratica globali di cui gode la democrazia. Dove alcuni vedono un rinnovamento dell'impegno civico, altri vedono un esempio di "slacktivism", neologismo che sta per "attivismo degli scansafatiche", peggiorativo di moda per indicare le campagne politiche superficiali, marginali, facili e che paiono aver tanto successo su internet, spesso a discapito di campagne ben più efficaci nel mondo reale. E laddove alcuni plaudono alle nuove campagne online finalizzate ad accrescere la partecipazione civica - per esempio, la decisione dell'Estonia (nella foto, il sito web del governo) di procedere nel 2011 a elezioni via sms o messaggi di testo - altri, tra i quali mi schiero anch'io - si chiedono fino a che punto la seccatura di andare di persona a un seggio ogni tre o quattro anni per esprimere la propria preferenza sia davvero ciò che preclude a così tanti cittadini di esercitare il loro diritto/dovere nei confronti del processo politico.
Il dibattito sull'impatto di internet sulla partecipazione politica riflette da vicino una controversia del passato, quella sugli ambigui effetti politici e sociali della televisione via cavo. Ben prima che fossero inventati i blog, studiosi e sapientoni si sperticavano in accese discussioni per chiarire se il televisore stesse o meno trasformando gli elettori in passivi e apolitici maniaci dell'intrattenimento, così che qualora avessero avuto a disposizione maggiori possibilità di scelta, avrebbero preferito i film di James Bond o anche le ennesime repliche di Happy Days ai telegiornali della sera, o se la televisione li avrebbe trasformati in cittadini iperattivi e ossessionati, disposti a seguire ininterrottamente C-Span. La tesi di fondo, allora come ora, era che la democrazia in stile americano stava trasformandosi in un mercato di nicchia della politica, alla televisione e nei seggi elettorali, con le masse ossessionate per i programmi di intrattenimento da un lato, pronte a tirarsi indietro e a non partecipare attivamente alla politica, e i fanatici divoratori di notiziari dall'altro, pronti a sorbirsi aggiornamenti incessanti sull'incessante catena dell'informazione. Internet è ormai una televisione via cavo alla massima potenza: sintonizzarsi o non sintonizzarsi sul dibattito politico non è mai stato più facile.
Altro pericolo incombente è che perfino le notizie che leggiamo arriveranno sempre più spesso da fonti selezionate, quali i nostri amici su Facebook, che potrebbero restringere la gamma di opinioni alle quali siamo esposti. Tre quarti degli americani che accedono soltanto online all'informazione dicono di riceverne in buona parte grazie a messaggi di posta elettronica o post su siti di social network, secondo quanto ha appurato uno studio 2010 del Pew Research Center's Internet & American Life Project. Oggi meno del 10% degli americani afferma di affidarsi a un'unica piattaforma, ma le cose potrebbero cambiare facilmente, a mano a mano che le fonti tradizionali di informazione perderanno quote di mercato a favore della Rete.
5) Non è vero che la geografia non conta più: c'è chi pensa a network nazionali
No. La geografia conta ancora qualcosa. Nel suo bestseller del 1997, La fine delle distanze, pubblicato in Italia nel 2002, Frances Cairncross, allora direttore dell'Economist, preannunciò che la rivoluzione delle comunicazioni alimentata da internet avrebbe «accresciuto la comprensione, favorito la tolleranza e infine promosso la pace nel mondo». Dichiarare la morte delle distanze è stato in ogni caso prematuro.
Anche in un mondo interconnesso, il desiderio nei confronti di beni di consumo e di informazione è tuttora legato ai gusti personali, e dove si vive è altrettanto importante dell'interesse personale. Da uno studio risalente al 2006 pubblicato sul Journal of International Economics, per esempio, risulta che per alcuni prodotti digitali - quali musica, giochi, pornografia - ogni aumento percentuale di un punto nella distanza oggettiva dagli Stati Uniti riduceva del 3,25% il numero di visite che un americano avrebbe fatto a un determinato sito web.
Non solo le preferenze dell'utente, ma anche le azioni dei governi e delle multinazionali - motivate spesso da spese e diritti d'autore, come pure da agende politiche vere e proprie - possono significare la fine dell'era dell'unico internet. Ciò implica che potrebbero presto volgere al termine i giorni in cui tutti possono navigare nei medesimi siti web, a prescindere dalla loro ubicazione geografica, perfino nel mondo "libero". Assistiamo a un numero sempre maggiore di tentativi - soprattutto da parte delle multinazionali e dei loro avvocati - volti a tenere lontani da alcune proprietà in Rete alcuni cittadini stranieri. Per esempio, il contenuto digitale disponibile ai britannici tramite l'innovativa piattaforma iPlayer della Bbc (nella foto) è sempre meno disponibile ai tedeschi. I norvegesi già ora hanno accesso gratuitamente a circa 50mila libri online coperti dal diritto d'autore grazie al sito nazionale Bookshelfinitiative, ma per usufruirne occorre essere norvegesi, e tenuto conto che il governo paga ben 900mila dollari l'anno di diritti di licenza è evidente che non si prefigga di finanziare il resto del mondo.
Oltre tutto, molti famosi pionieri di internet - quali Google, Twitter e Facebook - sono aziende statunitensi, che altri governi temono sempre più per il loro peso politico. Le autorità di Cina, Cuba, Iran e perfino Turchia stanno già parlando di "sovranità dell'informazione", eufemismo al quale fanno ricorso per sostituire i servizi offerti da alcune società occidentali su internet con loro omologhi nazionali più limitati, ma in un certo senso più facili da controllare, frazionando ulteriormente il World wide web in vari internet nazionali. Si avvicina così l'era di "Splinternet" (da splint e internet, internet frazionato, ndt).
A venti anni dalla sua nascita, internet non ha destituito alcun dittatore né cancellato i confini tra i vari paesi. Di sicuro non ha spianato la strada a una nuova epoca post-politica di arte di governo razionale e ispirata alle informazioni. Ha accelerato e amplificato molte forze già esistenti e all'opera nel mondo, rendendo spesso la politica maggiormente infiammabile e imprevedibile. Sempre più spesso, infine, internet appare una visione appesantita del mondo reale, sovraccarica di promesse e pericoli, nella quale la cyber-utopia che gli entusiasti della Rete originariamente predissero appare sempre più illusoria.
Come rimasero deluse le generazioni che ci hanno preceduto, constatando che né il telegrafo né la radio avevano mantenuto le promesse, così pure noi non stiamo assistendo ad alcuna particolare affermazione nel mondo di pace globale, amore e libertà, come ci era stato pronosticato.
Prendiamo Twitter, per esempio. I tweet non rovesciano i governi. Soltanto i popoli possono riuscirci. I siti di social network possono essere utili e nocivi per gli attivisti che operano in un regime autoritario. Dopo le proteste di Teheran dell'anno scorso, le autorità iraniane hanno aperto un sito che pubblica le fotografie scattate ai manifestanti, incoraggiando gli utenti a dare loro nome e cognome.
Insomma stiamo comprendendo come la tecnologia non consenta di carpire necessariamente un maggior numero di informazioni dai regimi chiusi, ma semplicemente permette a un numero maggiore di persone di avere accesso alle informazioni disponibili. Ma i governi tuttora mantengono un enorme potere nel decidere che tipo di informazione rendere nota.
Infine, la speranza delusa che forse ci sorprende di più: internet sembrava poter azzerare le distanze. Ma non è così: la geografia conta ancora al punto che alcuni paesi - Cina, Iran, Cuba e Turchia - valutano la possibilità di "internet nazionali", frazionando ulteriormente il World wide web. L'era di Splinternet - l'internet frazionato - è davvero alle porte e la cyber utopia degli appassionati della prima ora appare sempre più illusoria.
Quante speranze in quello spazio infinito che abbiamo imparato a conoscere e ad attraversare. Ma Internet, che ci ha ammaliati con la promessa di trasformare il pianeta in un villaggio globale, ha tradito alcune delle nostre attese: ha chiamato i governi a maggiori responsabilità (ma non sempre hanno risposto a dovere) e ha cercato di migliorare - a volte invano - la partecipazione alla gestione della cosa pubblica. Anche le speranze in Twitter sono evaporate: non farà tremare i dittatori come si auspicava.
1) Promessa mancata: è una forza che agisce per il bene di tutti
No. Agli albori di internet, le speranze che nutrivamo erano molteplici. Come in qualsiasi storia d'amore che sboccia, abbiamo provato il desiderio di credere che il nostro affascinante oggetto d'amore potesse cambiare il mondo. Internet è stato esaltato come lo strumento ideale per migliorare la tolleranza, sconfiggere il nazionalismo, trasformare il pianeta in un villaggio globale interconnesso. Nel 1994 alcuni appassionati di digitale, guidato da Esther Dyson e Alvin Toffler, pubblicò un manifesto, sottotitolato con scarsa modestia "La Magna Carta dell'era della conoscenza", nel quale si prospettava l'avvento di "territori elettronici legati da interessi condivisi, più che dalla geografia". L'allora capo del MediaLab dell'Mit, Nicholas Negroponte, nel 1997 predisse che internet avrebbe abbattuto le frontiere tra paesi e spalancato le porte di una nuova era di pace. Internet esiste da una ventina d'anni e ha portato grandi innovazioni. La quantità di prodotti e servizi accessibili online è sbalorditiva. Anche le comunicazioni tra paesi si sono fatte più semplici: le costose bollette delle telefonate internazionali sono state sostituite da economici abbonamenti a Skype (nella foto). Google Translate offre un aiuto per navigare tra la pagine web scritte in spagnolo, mandarino, maltese e più di una quarantina di altre lingue.
Come rimasero deluse le generazioni che ci hanno preceduto, constatando che né il telegrafo né la radio avevano mantenuto le promesse, così pure noi non stiamo assistendo ad alcuna particolare affermazione nel mondo di pace globale, amore e libertà, come ci era stato pronosticato. Verosimilmente non vedremo cambi neppure in futuro. Molti dei network transnazionali sorti grazie a internet presumibilmente peggioreranno, invece di migliorare, il mondo che conosciamo. A un convegno sulle strategie per contrastare il traffico illecito di animali a rischio di estinzione, internet è stato individuato come il principale motore del commercio globale di specie protette. La Rete è un mondo nel quale gli attivisti omofobici serbi si ritrovano su Facebook per lottare contro i gay, e dove i conservatori dell'Arabia Saudita mettono online l'equivalente della Commissione per la promozione della virtù e la repressione dei vizi. E tutto ciò malgrado la "libertà di connessione" esaltata dal segretario di stato americano Hillary Clinton nel suo discorso su internet e diritti umani. Purtroppo, un mondo interconnesso non è automaticamente un mondo più giusto.
2) Twitter sa far tremare i dittatori e smaschera i limiti dei patiti politici
Sbagliato. I tweet non rovesciano i governi. Soltanto i popoli possono riuscirci. I siti di social network possono essere utili e nocivi per gli attivisti che operano in un regime autoritario. I sostenitori delle odierne proteste virtuali che proliferano e si moltiplicano in Rete fanno notare che i servizi online quali Twitter, Flickr e YouTube hanno reso più semplice la circolazione delle informazioni, molto più che in passato, quando il controllo esercitato dallo stato era rigido e inflessibile, specialmente per ciò che concerne fotografie o filmati raccapriccianti o le prove di violenze e abusi perpetrati dalla polizia o di ingiustizie commesse nei tribunali. Basti pensare ai blogger dell'opposizione che in Russia hanno lanciato Shpik.info sulla falsariga di Wikipedia, un sito che consente a chiunque di caricare foto, nomi e dettagli dei contatti di presunti "nemici della democrazia" - giudici, poliziotti, in qualche caso anche politici - accusati di complicità nell'imbavagliare la libertà di espressione. Il primo ministro britannico Gordon Brown l'anno scorso ha affermato che nell'era di Twitter il genocidio del Rwanda sarebbe stato impossibile.
Siamo sicuri che maggiore informazione si traduca in maggiori possibilità di raddrizzare ciò che non funziona? Non necessariamente. Né il regime iraniano (nella foto, i twitter con il volto di Neda) né quello burmese sono crollati sotto le pressioni delle foto digitali delle violenze e delle violazioni dei diritti umani fatte girare e postate sui siti di social network. Anzi, le autorità iraniane sono state leste a sfruttare i vantaggi offerti da internet, tanto quanto i loro oppositori di verde vestiti. Dopo le proteste di Teheran dell'anno scorso, le autorità iraniane hanno aperto un sito che pubblica le fotografie scattate ai manifestanti, incoraggiando gli utenti a dare loro nome e cognome. Contando sulle fotografie e i filmati caricati su Flickr e YouTube dai manifestanti e dai simpatizzanti in Occidente, la polizia segreta dispone di un'ingente quantità di documenti incriminanti. Né Twitter né Facebook offrono la sicurezza di cui necessiterebbe una rivoluzione di successo, e potrebbero finire col fungere da precoci campanelli d'allarme per i governanti più dispotici. Se nel 1989 i tedeschi della Germania Est avessero potuto utilizzare i tweet per esprimere i loro sentimenti, siamo sicuri che la Stasi non sarebbe intervenuta per reprimere il dissenso?
Anche nel caso in cui Twitter e Facebook consentissero di ottenere vittorie parziali, nessun giocatore d'azzardo oserebbe scommettere due volte sul successo di uno stesso trucchetto. Si prenda una delle campagne preferite degli utopisti digitali: a inizio 2008 un gruppo su Facebook fondato da un ingegnere colombiano di 33 anni portò a manifestazioni di massa e fino a due milioni di persone sfilarono nelle strade di Bogotà per dimostrare contro la violenza dei ribelli marxisti delle Farc. Quando questi stessi "rivoluzionari del digitale" a settembre hanno cercato di organizzare una marcia analoga contro il leader venezuelano e sponsor delle Farc Hugo Chávez, si sono trovati in grossa difficoltà.
I motivi per i quali le campagne di pressione falliscono nel loro intento non hanno nulla a che vedere con Facebook e Twitter, ma molto con i problemi legati all'organizzazione dei movimenti politici. Gli entusiasti di internet sostengono che la Rete ha reso l'organizzazione più semplice, ma ciò è vero in parte: per sfruttare i vantaggi dell'organizzazione online occorre un movimento strutturato e disciplinato, che abbia obiettivi definiti, gerarchie e procedure operative trasparenti (basti pensare alla campagna per la presidenza di Barack Obama). Se un movimento politico è disorganizzato, internet mette in luce i punti deboli e catalizza i conflitti interni.
3) Non sempre la trasparenza del web impone a chi è al potere responsabilità
Non necessariamente. Molti entusiasti del web, che in passato non si interessavano ai dibattiti politici, hanno iniziato a raccogliere la sfida di farsi controllori dei governi, trascorrendo notti e giorni a digitalizzare le informazioni e a caricarle nei database online. Dal britannico TheyWorkforYou (nella foto), al keniano Mzalendo, a vari progetti affiliati alla Sunlight Foundation con sede negli Stati Uniti, come MAPLight.org, un gran numero di siti web indipendenti hanno iniziato a monitorare le attività parlamentari, e alcuni offrono addirittura paragoni tra i voti dei parlamentari e le loro promesse fatte in campagna elettorale. Simili sforzi sono sfociati in una politica migliore o anche solo più onesta? Finora i risultati sono alquanto contrastanti. Anche i più idealistici fanatici stanno iniziando a comprendere che le barriere più insormontabili a una politica più aperta e partecipata sono le patologie croniche del mondo politico e istituzionale, e non le carenze tecnologiche. La tecnologia non consente di carpire necessariamente un maggior numero di informazioni dai regimi chiusi, ma permette a un numero maggiore di persone di avere accesso alle informazioni disponibili. I governi tuttora mantengono un enorme potere nel decidere che tipo di informazione rendere nota. Per ora, perfino l'amministrazione Obama, autoproclamatasi paladina del "governo aperto", si attira qualche critica da parte dei gruppi che tengono d'occhio la trasparenza dell'informazione per aver reso note le informazioni sui numeri dei cavalli e degli asini esistenti e aver tenuto invece sotto silenzio alcune informazioni più delicate riguardanti petrolio e gas. Ma anche nel caso in cui fossero rese note informazioni più dettagliate, non sempre queste portano necessariamente a politiche riformate, come ha sottolineano Lawrence Lessig nel suo incisivo articolo di fondo su New Republic dell'anno scorso. Per instaurare rapporti e connessioni significativi tra informazione, trasparenza e responsabilità sarà necessario qualcosa di più che limitarsi ad armeggiare con i fogli di calcolo elettronici. Sarà indispensabile dar vita a istituzioni sane e democratiche, sistemi di controllo e vigilanza efficienti. Internet potrà sicuramente dare una mano, ma soltanto fino a un certo punto. Troppo spesso, ancora adesso, a mancare è la volontà politica, e non un numero maggiore di informazioni.
4) Spazi per l'impegno civico ma la partecipazione non sempre aumenta
Dipende. Internet ha sicuramente creato nuove strade per scambiarsi idee e opinioni, ma ancora oggi non sappiamo se ciò basti ad alimentare il fascino e la pratica globali di cui gode la democrazia. Dove alcuni vedono un rinnovamento dell'impegno civico, altri vedono un esempio di "slacktivism", neologismo che sta per "attivismo degli scansafatiche", peggiorativo di moda per indicare le campagne politiche superficiali, marginali, facili e che paiono aver tanto successo su internet, spesso a discapito di campagne ben più efficaci nel mondo reale. E laddove alcuni plaudono alle nuove campagne online finalizzate ad accrescere la partecipazione civica - per esempio, la decisione dell'Estonia (nella foto, il sito web del governo) di procedere nel 2011 a elezioni via sms o messaggi di testo - altri, tra i quali mi schiero anch'io - si chiedono fino a che punto la seccatura di andare di persona a un seggio ogni tre o quattro anni per esprimere la propria preferenza sia davvero ciò che preclude a così tanti cittadini di esercitare il loro diritto/dovere nei confronti del processo politico.
Il dibattito sull'impatto di internet sulla partecipazione politica riflette da vicino una controversia del passato, quella sugli ambigui effetti politici e sociali della televisione via cavo. Ben prima che fossero inventati i blog, studiosi e sapientoni si sperticavano in accese discussioni per chiarire se il televisore stesse o meno trasformando gli elettori in passivi e apolitici maniaci dell'intrattenimento, così che qualora avessero avuto a disposizione maggiori possibilità di scelta, avrebbero preferito i film di James Bond o anche le ennesime repliche di Happy Days ai telegiornali della sera, o se la televisione li avrebbe trasformati in cittadini iperattivi e ossessionati, disposti a seguire ininterrottamente C-Span. La tesi di fondo, allora come ora, era che la democrazia in stile americano stava trasformandosi in un mercato di nicchia della politica, alla televisione e nei seggi elettorali, con le masse ossessionate per i programmi di intrattenimento da un lato, pronte a tirarsi indietro e a non partecipare attivamente alla politica, e i fanatici divoratori di notiziari dall'altro, pronti a sorbirsi aggiornamenti incessanti sull'incessante catena dell'informazione. Internet è ormai una televisione via cavo alla massima potenza: sintonizzarsi o non sintonizzarsi sul dibattito politico non è mai stato più facile.
Altro pericolo incombente è che perfino le notizie che leggiamo arriveranno sempre più spesso da fonti selezionate, quali i nostri amici su Facebook, che potrebbero restringere la gamma di opinioni alle quali siamo esposti. Tre quarti degli americani che accedono soltanto online all'informazione dicono di riceverne in buona parte grazie a messaggi di posta elettronica o post su siti di social network, secondo quanto ha appurato uno studio 2010 del Pew Research Center's Internet & American Life Project. Oggi meno del 10% degli americani afferma di affidarsi a un'unica piattaforma, ma le cose potrebbero cambiare facilmente, a mano a mano che le fonti tradizionali di informazione perderanno quote di mercato a favore della Rete.
5) Non è vero che la geografia non conta più: c'è chi pensa a network nazionali
No. La geografia conta ancora qualcosa. Nel suo bestseller del 1997, La fine delle distanze, pubblicato in Italia nel 2002, Frances Cairncross, allora direttore dell'Economist, preannunciò che la rivoluzione delle comunicazioni alimentata da internet avrebbe «accresciuto la comprensione, favorito la tolleranza e infine promosso la pace nel mondo». Dichiarare la morte delle distanze è stato in ogni caso prematuro.
Anche in un mondo interconnesso, il desiderio nei confronti di beni di consumo e di informazione è tuttora legato ai gusti personali, e dove si vive è altrettanto importante dell'interesse personale. Da uno studio risalente al 2006 pubblicato sul Journal of International Economics, per esempio, risulta che per alcuni prodotti digitali - quali musica, giochi, pornografia - ogni aumento percentuale di un punto nella distanza oggettiva dagli Stati Uniti riduceva del 3,25% il numero di visite che un americano avrebbe fatto a un determinato sito web.
Non solo le preferenze dell'utente, ma anche le azioni dei governi e delle multinazionali - motivate spesso da spese e diritti d'autore, come pure da agende politiche vere e proprie - possono significare la fine dell'era dell'unico internet. Ciò implica che potrebbero presto volgere al termine i giorni in cui tutti possono navigare nei medesimi siti web, a prescindere dalla loro ubicazione geografica, perfino nel mondo "libero". Assistiamo a un numero sempre maggiore di tentativi - soprattutto da parte delle multinazionali e dei loro avvocati - volti a tenere lontani da alcune proprietà in Rete alcuni cittadini stranieri. Per esempio, il contenuto digitale disponibile ai britannici tramite l'innovativa piattaforma iPlayer della Bbc (nella foto) è sempre meno disponibile ai tedeschi. I norvegesi già ora hanno accesso gratuitamente a circa 50mila libri online coperti dal diritto d'autore grazie al sito nazionale Bookshelfinitiative, ma per usufruirne occorre essere norvegesi, e tenuto conto che il governo paga ben 900mila dollari l'anno di diritti di licenza è evidente che non si prefigga di finanziare il resto del mondo.
Oltre tutto, molti famosi pionieri di internet - quali Google, Twitter e Facebook - sono aziende statunitensi, che altri governi temono sempre più per il loro peso politico. Le autorità di Cina, Cuba, Iran e perfino Turchia stanno già parlando di "sovranità dell'informazione", eufemismo al quale fanno ricorso per sostituire i servizi offerti da alcune società occidentali su internet con loro omologhi nazionali più limitati, ma in un certo senso più facili da controllare, frazionando ulteriormente il World wide web in vari internet nazionali. Si avvicina così l'era di "Splinternet" (da splint e internet, internet frazionato, ndt).
A venti anni dalla sua nascita, internet non ha destituito alcun dittatore né cancellato i confini tra i vari paesi. Di sicuro non ha spianato la strada a una nuova epoca post-politica di arte di governo razionale e ispirata alle informazioni. Ha accelerato e amplificato molte forze già esistenti e all'opera nel mondo, rendendo spesso la politica maggiormente infiammabile e imprevedibile. Sempre più spesso, infine, internet appare una visione appesantita del mondo reale, sovraccarica di promesse e pericoli, nella quale la cyber-utopia che gli entusiasti della Rete originariamente predissero appare sempre più illusoria.
(Traduzione di Anna Bissanti)
«Il Sole 24 Ore» del 27 aprile 2010
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