Siamo tempestati di informazioni e dati. «Bisogna reimparare a dimenticare»: parla il sociologo Mayer-Schönberger
di Matteo Liut
L’infinita possibilità di immagazzinare dati e ricordi offerta dalle memorie digitali e dai nuovi media oggi ha reso più dispendioso dimenticare che ricordare, condannandoci a convivere con un enorme bagaglio di ricordi passati digitalizzati che non «ci perdonano» e non sempre ci aiutano a vivere liberamente il nostro presente o a progettare il nostro futuro. Ecco perché la grande sfida è quella di «reimparare a dimenticare». Ne è convinto Viktor Mayer-Schönberger, direttore dell’Information and innovation policy research centre all’università di Singapore, autore del libro Delete. Il diritto all’oblio nell’era digitale, pubblicato di recente in italiano da Egea (192 pagine, 19 euro).
Nel libro lei afferma che il rischio oggi è di trovarci in una società che non perdona perché non dimentica. È quindi necessario dimenticare per perdonare?
«Non propriamente, direi piuttosto che nel perdonare dimentichiamo: sono due processi che procedono in parallelo. Si tratta di una struttura insita nel funzionamento del cervello che si 'ristruttura' rielaborando i ricordi in base alle nostre esperienze quotidiane. Si potrebbe dire che il nostro passato cambia perché noi cambiamo e riteniamo le cose più importanti tralasciando quelle ininfluenti. Le memorie digitali, invece, cristallizzano i ricordi rendendoli continuamente accessibili. Il rischio è questo enorme patrimonio cada sotto il controllo dei grandi enti economici e di potere. Come racconto nel libro non sono rari i casi in cui le persone sono state giudicate in base a gesti magari compiuti molto prima, quando erano molto diverse, e immagazzinati nella grande memoria di internet».
Lei pensa che il ruolo della memoria biologica possa essere marginalizzato da quelle digitali?
«Il rischio più grande è che soprattutto i giovani, i 'digitali nativi', non credano più al passato. Un rischio che nasce dal fatto che i ricordi digitali sono del tutto decontestualizzati e quindi manipolabili e interpretabili a piacimento. La conseguenza è quella di perdere la fiducia anche nel presente. Può darsi che in futuro impareremo a dare il giusto peso cognitivo alla memoria digitale ma è necessario trovare ora soluzioni efficaci, poiché quelle tecniche o quelle legislative, come gli interventi sulla privacy, proposte finora risultano insufficienti».
In cosa consiste la sua proposta?
«La mia proposta è sia tecnica che educativa: si tratterebbe di apporre una 'data di scadenza' a ogni dato digitalizzato. Ad esempio nel memorizzare le foto, magari pubblicandole su internet, dovremmo essere obbligati a decidere fino a quando esse debbano essere conservate. Questo sarebbe estremamente semplice da un punto di vista tecnico e sarebbe già fattibile. Non solo: stimolerebbe gli utenti a prendere coscienza dell’importanza di ogni singolo dato».
Quindi sarebbe necessaria anche una maggiore educazione all’uso dei media?
«Certamente. L’educazione è fondamentale ed è compito anche di chi si occupa dell’informazione puntare l’attenzione su questi processi. Ovviamente questa soluzione richiederebbe anche una maggiore responsabilità nell’uso delle nuove tecnologie. Ma il mondo sta andando verso una crescente complessità, che richiede di essere sempre più preparati a questo tipo di sfide. Il mondo digitale ci rende di certo più liberi, ma la libertà è fatta anche di responsabilità. D’altra parte il nostro cervello è perfettamente in grado di gestire complessità e responsabilità. Il cambiamento, comunque, è lento, per questo spesso non ce ne rendiamo conto. Giornalisti e informatori, quindi, hanno il compito di aprire gli occhi sui mutamenti in atto».
Se ognuno può decidere cosa ricordare non si rischia di creare «memorie multiple»?
«Anche nella creazione di una memoria collettiva non penso alla pluralità come a un rischio ma come una ricchezza. Forse il sistema della data di scadenza è una soluzione migliorabile, ma ha il merito di avvicinarsi al funzionamento biologico del cervello nel quale i ricordi non sono perfetti e 'scadono' in maniera naturale. E oggi è estremamente fondamentale prendere coscienza dell’importanza di saper dimenticare per poter elaborare il passato e costruire il futuro. Essere obbligati ad apporre date di scadenza alle informazioni aiuta a prendere coscienza di questa sfida».
Nel libro lei afferma che la Chiesa non comprese appieno l’invenzione di Gutemberg. Oggi è lo stesso davanti ai nuovi media?
«Se guardiamo al XX secolo la Chiesa ha fatto proprio con prontezza il mezzo della radio. Non altrettanto velocemente, purtroppo, ha saputo fare con internet. D’altra parte è vero che anche moltissime altre istituzioni non hanno compreso la portata dello sviluppo della rete, spesso condizionati dalla 'mitologia' su cosa fosse veramente internet. Ma di fatto oggi il web è uno strumento in grado di motivare le persone che condividono valori, storia, memoria e obiettivi. Ecco perché rappresenta uno strumento preziosissimo per la Chiesa».
Nel libro lei afferma che il rischio oggi è di trovarci in una società che non perdona perché non dimentica. È quindi necessario dimenticare per perdonare?
«Non propriamente, direi piuttosto che nel perdonare dimentichiamo: sono due processi che procedono in parallelo. Si tratta di una struttura insita nel funzionamento del cervello che si 'ristruttura' rielaborando i ricordi in base alle nostre esperienze quotidiane. Si potrebbe dire che il nostro passato cambia perché noi cambiamo e riteniamo le cose più importanti tralasciando quelle ininfluenti. Le memorie digitali, invece, cristallizzano i ricordi rendendoli continuamente accessibili. Il rischio è questo enorme patrimonio cada sotto il controllo dei grandi enti economici e di potere. Come racconto nel libro non sono rari i casi in cui le persone sono state giudicate in base a gesti magari compiuti molto prima, quando erano molto diverse, e immagazzinati nella grande memoria di internet».
Lei pensa che il ruolo della memoria biologica possa essere marginalizzato da quelle digitali?
«Il rischio più grande è che soprattutto i giovani, i 'digitali nativi', non credano più al passato. Un rischio che nasce dal fatto che i ricordi digitali sono del tutto decontestualizzati e quindi manipolabili e interpretabili a piacimento. La conseguenza è quella di perdere la fiducia anche nel presente. Può darsi che in futuro impareremo a dare il giusto peso cognitivo alla memoria digitale ma è necessario trovare ora soluzioni efficaci, poiché quelle tecniche o quelle legislative, come gli interventi sulla privacy, proposte finora risultano insufficienti».
In cosa consiste la sua proposta?
«La mia proposta è sia tecnica che educativa: si tratterebbe di apporre una 'data di scadenza' a ogni dato digitalizzato. Ad esempio nel memorizzare le foto, magari pubblicandole su internet, dovremmo essere obbligati a decidere fino a quando esse debbano essere conservate. Questo sarebbe estremamente semplice da un punto di vista tecnico e sarebbe già fattibile. Non solo: stimolerebbe gli utenti a prendere coscienza dell’importanza di ogni singolo dato».
Quindi sarebbe necessaria anche una maggiore educazione all’uso dei media?
«Certamente. L’educazione è fondamentale ed è compito anche di chi si occupa dell’informazione puntare l’attenzione su questi processi. Ovviamente questa soluzione richiederebbe anche una maggiore responsabilità nell’uso delle nuove tecnologie. Ma il mondo sta andando verso una crescente complessità, che richiede di essere sempre più preparati a questo tipo di sfide. Il mondo digitale ci rende di certo più liberi, ma la libertà è fatta anche di responsabilità. D’altra parte il nostro cervello è perfettamente in grado di gestire complessità e responsabilità. Il cambiamento, comunque, è lento, per questo spesso non ce ne rendiamo conto. Giornalisti e informatori, quindi, hanno il compito di aprire gli occhi sui mutamenti in atto».
Se ognuno può decidere cosa ricordare non si rischia di creare «memorie multiple»?
«Anche nella creazione di una memoria collettiva non penso alla pluralità come a un rischio ma come una ricchezza. Forse il sistema della data di scadenza è una soluzione migliorabile, ma ha il merito di avvicinarsi al funzionamento biologico del cervello nel quale i ricordi non sono perfetti e 'scadono' in maniera naturale. E oggi è estremamente fondamentale prendere coscienza dell’importanza di saper dimenticare per poter elaborare il passato e costruire il futuro. Essere obbligati ad apporre date di scadenza alle informazioni aiuta a prendere coscienza di questa sfida».
Nel libro lei afferma che la Chiesa non comprese appieno l’invenzione di Gutemberg. Oggi è lo stesso davanti ai nuovi media?
«Se guardiamo al XX secolo la Chiesa ha fatto proprio con prontezza il mezzo della radio. Non altrettanto velocemente, purtroppo, ha saputo fare con internet. D’altra parte è vero che anche moltissime altre istituzioni non hanno compreso la portata dello sviluppo della rete, spesso condizionati dalla 'mitologia' su cosa fosse veramente internet. Ma di fatto oggi il web è uno strumento in grado di motivare le persone che condividono valori, storia, memoria e obiettivi. Ecco perché rappresenta uno strumento preziosissimo per la Chiesa».
«Avvenire» del 17 aprile 2010
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