Il filosofo Agazzi: «Per i Greci l’indagine sulla natura e quella sullo spirito erano tutt’uno: a dividerle è stato il positivismo ottocentesco. E adesso lo scientismo pretende di spiegare qualsiasi cosa in termini puramente fisici»
di Luigi Dell'Aglio
'Scienze della natura' e 'scienze dello spirito': sono i due grandi ambiti nei quali si organizza il sapere umano, almeno a partire dall’Ottocento. La coesistenza, però, è stata tutt’altro che pacifica, e negli ultimi anni si è acceso doppio un campanello d’allarme: da una parte si sottolinea la tendenza scientista a fagocitare nell’ambito delle scienze naturali ogni ambito del reale, inclusi quelli morali o addirittura spirituali; dall’altro, nella formazione degli scienziati naturali la componente umanistica, una volta fondamentale, ha uno spazio sempre più ridotto. Iniziamo oggi una serie di interviste per fare il punto sulla questione
«Il divorzio tra scienza e discipline umanistiche è avvenuto meno di due secoli fa, innescato in Europa dalla filosofia positivista dell’Ottocento. Ma per venticinque secoli, cioè a partire dal VI secolo avanti Cristo – quando nasce, nella Grecia classica, la cultura europea – scienza e umanesimo, sbocciati simultaneamente, avevano camminato uniti e in perfetta simbiosi». Il filosofo Evandro Agazzi ha scavato nel passato, e ha scoperto che la separazione tra scienza e ' studia humanitatis' si può far risalire addirittura a Immanuel Kant. Ma nel senso che, secondo l’autore della Critica della ragion pura, le scienze debbono occuparsi del mondo della natura mentre il mondo dell’uomo va riservato alla filosofia e alle altre discipline umanistiche. Il positivismo si appropria della tesi kantiana, la enfatizza, e decreta che anche la filosofia e le altre forme di conoscenza umanistica debbono rientrare nella giurisdizione della scienza. Cioè questa avrebbe il diritto di interpretare con il metodo sperimentale – rileva Agazzi – anche «questioni come il senso della vita, il destino ultimo dell’uomo, la dignità della persona, la libertà e il senso morale». Ecco lo scientismo, che attribuisce alla scienza un potere assoluto, ossia la capacità, anzi il diritto, di «risolvere tutti i problemi umani». La cultura umanistica può finire in soffitta. A questo punto i filosofi reagiscono. Gli idealisti Benedetto Croce e Giovanni Gentile proclamano la superiorità degli studi umanistici su quelli scientifici. La divisione diventa contrapposizione e, a cavallo fra il XX e XXI secolo, si inasprisce.
Evandro Agazzi, uno dei più autorevoli filosofi italiani, pensatore che gode di grande prestigio internazionale, è attualmente professore emerito di Filosofia teoretica presso l’Università di Genova e insegna a Città del Messico. Qui l’Università Autonoma Metropolitana gli ha creato una cattedra per chiara fama. Agazzi viene invitato in tutto il mondo a tenere conferenze, soprattutto sul rapporto scienza-fede.
Professore, perché Kant divise due campi discplinari che erano rimasti uniti per tanti secoli?
«Gli eccezionali progressi conseguiti dalla scienza naturale, fondata da Galileo e Newton , indussero il filosofo di Königsberg a vedere nella scienza il paradigma del 'sapere' in senso generale. Ma Kant non sottrasse minimamente alla filosofia le questioni fondamentali dell’uomo, come la moralità, la libertà, il senso della vita e il destino ultimo. Le considerava 'razionalmente giustificabili' anche se non conoscenza scientifica in senso proprio».
Cioè riconobbe il diritto delle scienze umane di avere uno spazio insopprimibile?
«Certo. E si pensi che, a ben guardare, le moderne scienze umane erano nate con almeno un secolo di anticipo sulle scienze naturali. Il decollo avviene con quel fenomeno storico che nei manuali viene definito 'umanesimo': si riscoprono i classici antichi e non solo le opere di letterati, storici e giuristi; anche i testi scientifici ricevono un trattamento rigoroso sul piano filologico».
Ma quali sono le ragioni oggettive dello scontro attuale? Si vuole affermare il principio che tutto ciò che non può essere dimostrato scientificamente non ha diritto di esistere?
«Tra cultura scientifica e cultura umanistica si è giunti a questa lotta perché sono scattate tre condizioni principali. La specializzazione, il tecnicismo dei linguaggi e soprattutto il riduzionismo. Una disciplina pretende di possedere i principi e i metodi per spiegare i fatti studiati dalle altre discipline. Le scienze della natura, ma anche l’economia o la psicoanalisi, pretendono di 'interpretare tutto'. In questo modo si dilata arbitrariamente l’aspirazione di ogni disciplina a spiegare, mediante i propri mezzi, il maggior numero possibile di questioni. Così la scienza finisce per ignorare i propri limiti oggettivi».
Perciò, per lo scientismo, le discipline umanistiche sono superate. E non è invece superato il materialismo di quegli scienziati i quali si rifanno, in pratica, ai pensatori pre-socratici che consideravano l’uomo una 'cosa fra le cose' e furono smentiti da Socrate e Platone?
«Si assiste a una sorta di regresso. I primi filosofi greci (poi detti 'fisici') sostenevano che tutto è materia e manifestazione di proprietà materiali. E anche l’uomo è materia. Socrate e Platone sconfissero questa ideologia. Portarono alla luce l’essenziale differenza specifica tra l’uomo e la natura fisica: lo spirito, cioè l’intelligenza, la coscienza morale, la capacità di creare il mondo della civiltà e della storia, insomma le forme e i valori della cultura umanistica».
Dietro lo scientismo e l’insistenza con cui si vuole ridurre lo spazio del sapere umanistico c’è dunque quella che lei ha chiamato 'metafisica materialista'?
«Con ciò non intendo sottovalutare le dimensioni naturalistiche dell’essere umano: fisiche, chimiche, fisiologiche, genetiche, neuro-fisiologiche e così via. È innegabile la ricchezza dei contributi che vengono dalle scienze della natura e che permettono una migliore conoscenza del mondo umano. Si vuole soltanto rilevare che non è corretto ignorare le altre dimensioni dell’uomo. E le discipline umanistiche indagano e coltivano proprio queste dimensioni».
L’attacco al sapere umanistico si deve insomma alla mentalità materialistica che dilaga nelle nostre società?
«In parte, sì. Ma c’è anche un’altra ragione: ormai quasi tutto viene valutato in base a un criterio puramente utilitaristico e 'pragmatico'. Si è persa la consapevolezza che le cose che veramente valgono sono quelle che 'non servono a nulla', in quanto valgono di per sé, e meritano che ci si ponga al loro servizio. L’utilitarismo fa perdere la stessa 'dimensione umanistica' della scienza, che è una forma eccellente di 'ricerca della verità'. È quindi ovvio che le conoscenze di tipo umanistico siano considerate una presenza ingombrante nell’insegnamento scolastico perché sottraggono tempo e attenzione agli studenti. Questi debbono dedicarsi soltanto alle discipline che veramente 'servono'. Ma così i giovani non incontrano le materie che fanno maturare la personalità dell’allievo e affinano il suo spirito critico, il suo senso della responsabilità, la sua capacità di valutazione e di giudizio di fronte alle situazioni della vita, la sua attitudine a compiere scelte libere e consapevoli».
Le 'discipline che servono' sono quelle richieste dal mercato del lavoro ...
«Ma ridurre a questo la formazione scolastica significa aver dimenticato che nessun essere umano è semplice manodopera. Dietro una tale politica premono massicci interessi economici, ed è un fatto che venga perseguita da istituzioni come la Banca mondiale e l’Ocse, in contrasto con gli obiettivi dell’Unesco. Certo questa mentalità prevale anche perché si sono appannati ideali e valori, perfino in Europa che pure ha una cultura 'con memoria', formatasi nell’antichità classica e nel Medioevo cristiano».
Professore, perché Kant divise due campi discplinari che erano rimasti uniti per tanti secoli?
«Gli eccezionali progressi conseguiti dalla scienza naturale, fondata da Galileo e Newton , indussero il filosofo di Königsberg a vedere nella scienza il paradigma del 'sapere' in senso generale. Ma Kant non sottrasse minimamente alla filosofia le questioni fondamentali dell’uomo, come la moralità, la libertà, il senso della vita e il destino ultimo. Le considerava 'razionalmente giustificabili' anche se non conoscenza scientifica in senso proprio».
Cioè riconobbe il diritto delle scienze umane di avere uno spazio insopprimibile?
«Certo. E si pensi che, a ben guardare, le moderne scienze umane erano nate con almeno un secolo di anticipo sulle scienze naturali. Il decollo avviene con quel fenomeno storico che nei manuali viene definito 'umanesimo': si riscoprono i classici antichi e non solo le opere di letterati, storici e giuristi; anche i testi scientifici ricevono un trattamento rigoroso sul piano filologico».
Ma quali sono le ragioni oggettive dello scontro attuale? Si vuole affermare il principio che tutto ciò che non può essere dimostrato scientificamente non ha diritto di esistere?
«Tra cultura scientifica e cultura umanistica si è giunti a questa lotta perché sono scattate tre condizioni principali. La specializzazione, il tecnicismo dei linguaggi e soprattutto il riduzionismo. Una disciplina pretende di possedere i principi e i metodi per spiegare i fatti studiati dalle altre discipline. Le scienze della natura, ma anche l’economia o la psicoanalisi, pretendono di 'interpretare tutto'. In questo modo si dilata arbitrariamente l’aspirazione di ogni disciplina a spiegare, mediante i propri mezzi, il maggior numero possibile di questioni. Così la scienza finisce per ignorare i propri limiti oggettivi».
Perciò, per lo scientismo, le discipline umanistiche sono superate. E non è invece superato il materialismo di quegli scienziati i quali si rifanno, in pratica, ai pensatori pre-socratici che consideravano l’uomo una 'cosa fra le cose' e furono smentiti da Socrate e Platone?
«Si assiste a una sorta di regresso. I primi filosofi greci (poi detti 'fisici') sostenevano che tutto è materia e manifestazione di proprietà materiali. E anche l’uomo è materia. Socrate e Platone sconfissero questa ideologia. Portarono alla luce l’essenziale differenza specifica tra l’uomo e la natura fisica: lo spirito, cioè l’intelligenza, la coscienza morale, la capacità di creare il mondo della civiltà e della storia, insomma le forme e i valori della cultura umanistica».
Dietro lo scientismo e l’insistenza con cui si vuole ridurre lo spazio del sapere umanistico c’è dunque quella che lei ha chiamato 'metafisica materialista'?
«Con ciò non intendo sottovalutare le dimensioni naturalistiche dell’essere umano: fisiche, chimiche, fisiologiche, genetiche, neuro-fisiologiche e così via. È innegabile la ricchezza dei contributi che vengono dalle scienze della natura e che permettono una migliore conoscenza del mondo umano. Si vuole soltanto rilevare che non è corretto ignorare le altre dimensioni dell’uomo. E le discipline umanistiche indagano e coltivano proprio queste dimensioni».
L’attacco al sapere umanistico si deve insomma alla mentalità materialistica che dilaga nelle nostre società?
«In parte, sì. Ma c’è anche un’altra ragione: ormai quasi tutto viene valutato in base a un criterio puramente utilitaristico e 'pragmatico'. Si è persa la consapevolezza che le cose che veramente valgono sono quelle che 'non servono a nulla', in quanto valgono di per sé, e meritano che ci si ponga al loro servizio. L’utilitarismo fa perdere la stessa 'dimensione umanistica' della scienza, che è una forma eccellente di 'ricerca della verità'. È quindi ovvio che le conoscenze di tipo umanistico siano considerate una presenza ingombrante nell’insegnamento scolastico perché sottraggono tempo e attenzione agli studenti. Questi debbono dedicarsi soltanto alle discipline che veramente 'servono'. Ma così i giovani non incontrano le materie che fanno maturare la personalità dell’allievo e affinano il suo spirito critico, il suo senso della responsabilità, la sua capacità di valutazione e di giudizio di fronte alle situazioni della vita, la sua attitudine a compiere scelte libere e consapevoli».
Le 'discipline che servono' sono quelle richieste dal mercato del lavoro ...
«Ma ridurre a questo la formazione scolastica significa aver dimenticato che nessun essere umano è semplice manodopera. Dietro una tale politica premono massicci interessi economici, ed è un fatto che venga perseguita da istituzioni come la Banca mondiale e l’Ocse, in contrasto con gli obiettivi dell’Unesco. Certo questa mentalità prevale anche perché si sono appannati ideali e valori, perfino in Europa che pure ha una cultura 'con memoria', formatasi nell’antichità classica e nel Medioevo cristiano».
«Avvenire» del 27 aprile 2010
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