17 aprile 2010

Cinema e pedofili

‘Vietato l’ingresso agli adulti non accompagnati da ragazzini’ (Solondz)
di Mariarosa Mancuso
Ho visto un cartello, all’entrata di un parco. Diceva ‘Vietato l’ingresso agli adulti non accompagnati da ragazzini’”. In un’intervista all’Independent, Todd Solondz misura così i dieci anni trascorsi tra “Happiness” e “Perdona e dimentica”. Il film del 1998 raccontava, tra altre vicende familiari, un padre psicoanalista che insidiava i compagni di scuola del figlio undicenne. La materia era tanto sulfurea che il regista non riuscì a trovare neanche una bibita da far bere ai personaggi: nessuna marca conosciuta voleva essere coinvolta nello scandalo. Nel film del 2009 (in programmazione da venerdì 16 aprile) ritroviamo il padre appena uscito di galera. Con i due figli piccoli l’ex moglie Trish finge che il marito sia morto, il grande ormai all’università sa esattamente come sono andate le cose, ma non ha la minima voglia di rivangare. Quando al dormitorio scatta il gioco “chi ha la famiglia più incasinata?” e tutti dettagliano violenze, crudeltà e sciagure, borbotta soltanto: “Mio padre è morto. Ho dimenticato come”.
In “Happiness” era sua la battuta più straziante, da bambino curioso, dopo che i poliziotti avevano fatto irruzione in casa. “Papà, quel che hai fatto al mio amico Joe lo faresti anche a me?”. “Morirei, piuttosto”, risponde il genitore, che di mestiere fa lo psicoanalista (e all’inizio del film pensa ai fatti propri mentre il paziente molestatore telefonico si dilunga in chiacchiere).
Nel decennio trascorso tra i due film, l’allarme pedofilia – accompagnato, bisogna dirlo, da una quantità di falsi allarmi – ha circondato di un alone sospettoso i rapporti tra adulti e minori. Retroattivamente, ha messo sotto accusa due signori per niente indegni come Vladimir Nabokov e Lewis Carroll, campioni nell’arte di peccare con la mente senza bisogno di passare all’atto. Anche Todd Solondz è finito nel mucchio: “Happiness”, un film meraviglioso e lontanissimo da qualsiasi intento di denuncia, ha rischiato di stroncargli la carriera, dopo il notevole credito conquistato con il suo primo lungometraggio, “Fuga dalla scuola media”.
Il regista e il pedofilo finivano per sovrapporsi, le domande dei giornalisti puntavano a una dichiarazione buona per un instant-movie sui vizi degli altri: americani, borghesi, benpensanti, genitori, educatori. Secondo Moni Ovadia, che ha adattato in italiano i dialoghi di “Perdona e dimentica”, siamo di fronte alla “crisi della famiglia tradizionale”. Addirittura, questa puntata della saga avrebbe – a dispetto del titolo – l’intento di mostrare il padre in tutta la sua indegnità. Come se il primo capitolo fosse stato troppo tenero, infatti lo spettatore non esce dal cinema urlando “a morte i pedofili”. Più facile che ricordi un fraseggio tra marito e moglie. Lui che le confessa “sono malato” e lei che ribatte “prendi un’aspirina, domani starai meglio”.
Tra “Happiness” e “Perdona e dimentica” (titolo originale “Life During Wartime”) il cinquantenne regista nato a Newark, New Jersey, ha scritto e girato “Palindromes”. Un singolare esperimento cinematografico dove una tredicenne incinta voleva tenersi il figlio, e i genitori – saranno questi i valori tradizionali in via di sparizione? – insistevano per un aborto, “sennò ti rovinerai la vita”. Nella parte di Aviva (nome palindromo come il film, che dopo un lungo vagabondaggio dal New Jersey al Kansas tornava al punto di partenza) una decina di interpreti diversi per età, colore della pelle, perfino sesso. Più che un film, una chiamata in correità per lo spettatore: ogni distinzione tra buoni e cattivi veniva sistematicamente messa in crisi.
Todd Solondz lavora così, per questo resiste eroicamente alla vulgata del manifesto politico o sociale o morale. Passando da “Happiness” a “Perdona e dimentica” cambia tutti gli attori (tra cui Philip Seymour Hoffman nella parte del segaiolo solitario, ruolo che poteva stroncare una nascente carriera). Conserva le tre sorelle Trish, Joy e Helen, incapaci di pronunciare una sola parola che non sia intinta nel veleno, e inzuccherata di “come ti capisco e quanto ti voglio bene”. Trish e Helen considerano Joy il massimo della sfigataggine, non combinerà mai nulla e non avrà mai fortuna con gli uomini: il primo si è suicidato, il secondo viene riconosciuto dalla cameriera al ristorante come molestatore (“Lo fai ancora?” “Solo di domenica”), mentre la buona samaritana si dedica a qualunque disperato trovi fuori casa, immigrati che la baciano per rubarle lo stereo o carcerati da rieducare. “Non hai pensato di lavorare con le vittime, qualche volta?” le chiede Helen, poetessa e poi sceneggiatrice di successo a Hollywood, una carriera costruita su poesie come “Violentata a dodici anni”. Anche l’antipatica che si lamenta per il peso della celebrità, ogni tanto ne dice una giusta.
Poi si butta sul letto e smania: “Sono un bluff. Se fossi stata stuprata da bambina almeno avrei il dono dell’autenticità”. In quel momento telefona il maniaco della porta accanto, le promette sfondamenti, mette giù la cornetta e viene all’istante richiamato per dare un seguito alla faccenda. Le ragazzine vanno al doposcuola per imparare il karaoke, prendono lo xanax, piangono per la sofferenza delle carote che hanno nel piatto. Solo un minuscolo florilegio, dal vecchio e dal nuovo film. Sarebbe colpevole perderli: parlano di noi senza riguardi, cortesie, concessioni o attenuanti, come nessuno usa più fare.
«Il Foglio» del 17 aprile 2010

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