di Luca Gallesi
«Con l’armistizio dell’8 settembre l’Italia si era ritrovata in ginocchio. Il suo esercito era allo sbando, e il re e il capo del governo Badoglio erano fuggiti a Brindisi». Poche parole bastano a tratteggiare la drammatica realtà di una tragedia immane, quella «morte della patria» che Prezzolini, prima di Galli della Loggia, aveva vaticinato già nel 1948. Nel suo libro The Legacy of Italy, tradotto da noi solo dieci anni più tardi, parlava infatti della fine dell’Italia che, dopo quella fatidica data, non avrebbe potuto essere altro che «una provincia dell’impero». Del resto, se la fine della Germania assume toni wagneriani con la strenua resistenza attorno al bunker di Berlino, e se sono ben due bombe atomiche a costringere il Giappone alla resa, noi ci accontentiamo del confuso voltafaccia magistralmente interpretato da Alberto Sordi nel celebre Tutti a casa! di Comencini.
La storia di quei momenti confusi e drammatici è in parte raccontata nel saggio La resistenza tricolore di Arrigo Petacco e Giancarlo Mazzuca (Mondadori, pp. 170, euro 19), da cui è tratta la citazione iniziale. In parte perché, ovviamente, riguarda la storia di quella parte di soldati italiani che – per caso o per scelta – si ritrovarono dalla parte opposta della barricata rispetto a quella da cui avevano combattuto fino al giorno prima, ignorando quegli italiani che – altrettanto in buona fede – decisero di continuare a battersi a fianco della Germania. Il libro ha il merito indiscutibile di attirare l’attenzione sui soldati italiani che ritennero giusto tener fede al giuramento fatto al re, e che in parte presero le armi al fianco degli angloamericani e in parte vennero deportati in Germania, dove furono sottoposti a turni di lavoro massacranti per sostenere l’immane sforzo bellico del Reich. Tra gli italiani combattenti troviamo personaggi ignorati dalla vulgata resistenziale perché di fede monarchica come Edgardo Sogno o Giuseppe Cordero di Montezemolo, mentre tra i deportati nei campi di lavoro ci sono inaspettati protagonisti della cultura di destra del dopoguerra come Giovanni Ansaldo o Giovannino Guareschi. L’esistenza di una resistenza non comunista ha dunque impiegato svariati decenni per essere riconosciuta ufficialmente, come è finalmente successo il 1° marzo 2001, quando il presidente Ciampi rese omaggio ai soldati che si opposero al nuovo nemico tedesco con le armi.
Il libro di Petacco e Mazzuca, però, presta il fianco ad alcune critiche di contenuto e di metodo. Per quanto riguarda il contenuto, c’è un errore di fondo a partire dal sottotitolo – «La storia ignorata dei partigiani con le stellette» – che cela un ossimoro: proprio perché i soldati che si batterono contro i tedeschi vestivano una divisa, non furono né potevano essere «partigiani», come insegna Carl Schmitt nella rigorosa Teoria del partigiano (Adelphi).
Soldati, dunque, che come tali si batterono contro altri soldati. Un errore di metodo riguarda invece un uso delle fonti decisamente superficiale, come ad esempio nel caso delle ampie citazioni (pagine da 94 a 98) del professor Massimo de Leonardis, definito testualmente «ex ufficiale del Corpo italiano di liberazione». Peccato che lo stimato accademico sia nato solo nel 1949! Detto questo, ben vengano altri libri, anche divulgativi purché non superficiali, a scavare nella voragine dell’8 settembre, affinché i morti possano essere onorati e riposare in pace, e i vivi possano voltare pagina per ricostruire, anzi far resuscitare la nostra patria.
La storia di quei momenti confusi e drammatici è in parte raccontata nel saggio La resistenza tricolore di Arrigo Petacco e Giancarlo Mazzuca (Mondadori, pp. 170, euro 19), da cui è tratta la citazione iniziale. In parte perché, ovviamente, riguarda la storia di quella parte di soldati italiani che – per caso o per scelta – si ritrovarono dalla parte opposta della barricata rispetto a quella da cui avevano combattuto fino al giorno prima, ignorando quegli italiani che – altrettanto in buona fede – decisero di continuare a battersi a fianco della Germania. Il libro ha il merito indiscutibile di attirare l’attenzione sui soldati italiani che ritennero giusto tener fede al giuramento fatto al re, e che in parte presero le armi al fianco degli angloamericani e in parte vennero deportati in Germania, dove furono sottoposti a turni di lavoro massacranti per sostenere l’immane sforzo bellico del Reich. Tra gli italiani combattenti troviamo personaggi ignorati dalla vulgata resistenziale perché di fede monarchica come Edgardo Sogno o Giuseppe Cordero di Montezemolo, mentre tra i deportati nei campi di lavoro ci sono inaspettati protagonisti della cultura di destra del dopoguerra come Giovanni Ansaldo o Giovannino Guareschi. L’esistenza di una resistenza non comunista ha dunque impiegato svariati decenni per essere riconosciuta ufficialmente, come è finalmente successo il 1° marzo 2001, quando il presidente Ciampi rese omaggio ai soldati che si opposero al nuovo nemico tedesco con le armi.
Il libro di Petacco e Mazzuca, però, presta il fianco ad alcune critiche di contenuto e di metodo. Per quanto riguarda il contenuto, c’è un errore di fondo a partire dal sottotitolo – «La storia ignorata dei partigiani con le stellette» – che cela un ossimoro: proprio perché i soldati che si batterono contro i tedeschi vestivano una divisa, non furono né potevano essere «partigiani», come insegna Carl Schmitt nella rigorosa Teoria del partigiano (Adelphi).
Soldati, dunque, che come tali si batterono contro altri soldati. Un errore di metodo riguarda invece un uso delle fonti decisamente superficiale, come ad esempio nel caso delle ampie citazioni (pagine da 94 a 98) del professor Massimo de Leonardis, definito testualmente «ex ufficiale del Corpo italiano di liberazione». Peccato che lo stimato accademico sia nato solo nel 1949! Detto questo, ben vengano altri libri, anche divulgativi purché non superficiali, a scavare nella voragine dell’8 settembre, affinché i morti possano essere onorati e riposare in pace, e i vivi possano voltare pagina per ricostruire, anzi far resuscitare la nostra patria.
«Avvenire» del 20 aprile 2010
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