di Marta Calcagno
Prima c’era il papiro, poi penna e calamaio, biro, macchina da scrivere, e arriviamo ad oggi, al computer: il modo di trasmettere le informazioni cambia, e con esso il modo di pensare che domina un periodo storico. Nel suo ultimo libro, Software Culture (ed. Olivares), presentato ieri a Milano in anteprima mondiale, Lev Manovich, professore di Teoria dei nuovi media al Dipartimento di arti visuali dell’università della California, prosegue il suo percorso di analisi dei cambiamenti sociali che i nuovi media esercitano sull’uomo: «Nessuno ha mai analizzato da vicino le enormi trasformazioni che comportano le nuove modalità di trasmissione delle informazioni. In questo libro ho sentito l’esigenza di definire il tipo di relazioni, e quindi di cultura, che deriva dall’avvento del computer».
E qual è il primo aspetto da considerare?
«Sono due. Da una parte, come il software è composto da codici numerici che trasmettono le informazioni, e cambia continuamente, anche la software culture ha come prima caratteristica la sua multiformità, la sua continua possibilità di trasformazione. Dall’altra, analizzando la storia dei software, il modo di ideare, elaborare e programmare i concetti, è sempre stato lo stesso. Quindi, nella cultura dei software, le possibilità si sono evolute e le informazioni si trasformano, ma il modo di ideare, programmare è sempre lo stesso».
Quali sono stati i principali cambiamenti nella storia dei software?
«Sicuramente nel 1963 l’arrivo di Internet, nel 1993 l’invenzione del Browser, e nel 2004-5 i Social Network».
L’ultima scoperta. In cosa sta la loro importanza?
«MySpace, Facebook, Wikipedia, ecc. rappresentano una nuova frontiera della cultura e della comunicazione soprattutto perché si estendono a tutti e sono in continuo cambiamento. Sono una parte della globalizzazione. È tutto più libero: la caratteristica di flessibilità costante della cultura mediatica, nei Social Network è portata all’estremo. Si creano profili personalizzati, si possono aggiornare continuamente le informazioni. Sono spazi completamente aperti».
Che valore hanno culturalmente? Si possono stabilire delle gerarchie, fare delle distinzioni?
«È difficile dirlo. C’è ancora un problema generale: non si considera che il software possa fare cultura. Il valore sta anzitutto nel cambiamento di mentalità che crea la loro concezione così aperta e flessibile: le conseguenze si vedono nell’arte, meno cristallizzata nei generi, e anche nella comunicazione delle informazioni».
E qual è il primo aspetto da considerare?
«Sono due. Da una parte, come il software è composto da codici numerici che trasmettono le informazioni, e cambia continuamente, anche la software culture ha come prima caratteristica la sua multiformità, la sua continua possibilità di trasformazione. Dall’altra, analizzando la storia dei software, il modo di ideare, elaborare e programmare i concetti, è sempre stato lo stesso. Quindi, nella cultura dei software, le possibilità si sono evolute e le informazioni si trasformano, ma il modo di ideare, programmare è sempre lo stesso».
Quali sono stati i principali cambiamenti nella storia dei software?
«Sicuramente nel 1963 l’arrivo di Internet, nel 1993 l’invenzione del Browser, e nel 2004-5 i Social Network».
L’ultima scoperta. In cosa sta la loro importanza?
«MySpace, Facebook, Wikipedia, ecc. rappresentano una nuova frontiera della cultura e della comunicazione soprattutto perché si estendono a tutti e sono in continuo cambiamento. Sono una parte della globalizzazione. È tutto più libero: la caratteristica di flessibilità costante della cultura mediatica, nei Social Network è portata all’estremo. Si creano profili personalizzati, si possono aggiornare continuamente le informazioni. Sono spazi completamente aperti».
Che valore hanno culturalmente? Si possono stabilire delle gerarchie, fare delle distinzioni?
«È difficile dirlo. C’è ancora un problema generale: non si considera che il software possa fare cultura. Il valore sta anzitutto nel cambiamento di mentalità che crea la loro concezione così aperta e flessibile: le conseguenze si vedono nell’arte, meno cristallizzata nei generi, e anche nella comunicazione delle informazioni».
«Il Giornale» del 17 aprile 2010
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