di Maurizio Cucchi
Novant’anni appena compiuti… E una splendida, intatta lucidità. Parlo di uno dei nostri maggiori poeti, Nelo Risi, milanese trapiantato da oltre mezzo secolo a Roma, un uomo di acutissima intelligenza ed eleganza, che oltre ai suoi versi ci ha anche dato alcuni film che i più attenti e meno giovani non hanno certo dimenticato. Ma andiamo con ordine, dicendo che Risi nasce come poeta, presto riconosciuto e antologizzato negli anni Cinquanta (penso alla fin troppo celebre «Linea lombarda» di Luciano Anceschi), e va all’esordio con un libro di chiara energia come «Polso teso» (1956). La sua figura è peraltro soprattutto quella di un poeta civile e pariniano, capace di inquadrare ironicamente il proprio tempo in versi indimenticabili, presenti in raccolte, tra le altre, come «Dentro la sostanza» (1965) e «Di certe cose» (1970), che gli era valso il premio Viareggio. In quegli anni, tra i Sessanta e i Settanta, escono anche i suoi film più importanti, come «Andremo in città» (1966, con Geraldine Chaplin e Nino Castelnuovo) e più ancora il «Diario di una schizofrenica» (’68), che ebbe una grande attenzione non solo da parte della critica, anche per l’equilibrio e la raffinatezza poetica con cui Risi riusciva a rappresentare una drammatica realtà psichica. Poco dopo uscì «Ondata di calore» (1970, con Jean Seberg), seguito da un film su Rimbaud e dalla «Colonna infame», del 1973, con un cast di prim’ordine: Francisco Rabal, Helmut Berger, Vittorio Caprioli, Lucia Bosè, Salvo Randone. Un film che ricordo con emozione, per il modo vibrante e antiretorico con il quale Risi riusciva a raccontare l’orrendo processo agli untori del 1630 partendo ovviamente dal Manzoni. Il film, però, non ebbe l’attenzione che avrebbe meritato. Ma l’estro vivace di Risi doveva dare altre notevoli prove, come le poesie di «Amica mia nemica» (’76), capaci di proporci un suo nuovo volto, e cioè quello di un poeta aperto con discrezione al sentimento, e dunque sempre nella impeccabile misura del suo stile, e capace anche di recuperare le radici borghesi della sua vicenda personale, la sua Milano mai dimenticata. In lui, il poeta civile e testimone dei mutamenti d’epoca è sempre sostenuto dalla grazia del verso e dunque dal senso del bello, sempre esente dalla pur minima ombra di sottolineatura enfatica. E appunto a proposito della bellezza, va ricordata la sua esplorazione nel laboratorio e nella mente di grandi artefici in ogni forma espressiva compiuta in «I fabbricanti del 'bello'» (1983). Ma dispetto di un suo titolo, «Ruggine» (2004), la sua vena non si è mai arrugginita. Lo dimostra l’energia reattiva e un poco sinistra del suo recente «Né il giorno né l’ora», che conferma in Risi la solida presenza costante di un autore capace di conservare la tensione e la concisione del linguaggio poetico riuscendo nel contempo a comunicare con forza e chiarezza. Un domani, chi volesse capire il carattere e la complessità di questi decenni, potrà ben avvalersi dell’alta qualità della sua opera, dell’asciutta verità della sua voce.
«Avvenire» del 27 aprile 2010
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