di Gianni Riotta
Quando lo conobbi a Silicon Valley negli anni '90, Jaron Lanier era proprio come lo vedete nella foto qui accanto, con i «dreadlocks», i boccoli alla Bob Marley a cascata, e sulla mano il guanto della Virtual reality, la realtà virtuale di cui la sua azienda era pioniera.
Con la sua visione e il suo guanto Jaron mutava lo schermo davanti a sé e entrava in una diversa realtà, volando su un bosco, duellando con un Cavaliere Templare, operando un paziente al cervello. Le sue simulazioni hanno poi dato vita a videogiochi, programmi di addestramento per l'aviazione, sistemi di training per ingegneri e medici.
Oggi però Lanier, guru di internet e dei new media, celebre firma della rivista Wired, è perplesso. E nel suo ultimo libro «You are not a gadget: a manifesto», mette in guardia contro la deriva del Web 2.0 con toni preoccupati che faranno applaudire i vecchi professori che si vantano «Io? Io non ho mai usato un computer!». Cosa è accaduto perché uno dei leader della rivoluzione internet denunci il Web 2010? Lanier lamenta l'appiattimento dei contenuti online, che motori di ricerca come Google e l'enciclopedia scritta dagli utenti Wikipedia, importano sulla rete.
Mettere ogni giorno insieme, senza alcuna selezione, gli argomenti dei filosofi e le arrabbiature del tizio davanti al cappuccino tiepido, l'analisi economica di un Nobel e lo sfogo del qualunquista di turno, può essere celebrato dagli ingenui alla moda come «open source» e «democrazia di rete». Il pericolo è invece riassunto bene nelle parole del guru Lanier: «I blog anonimi, con i loro inutili commenti, gli scherzi frivoli di tanti video» ci hanno tutti ridotti a formichine liete di avere la faccina su Facebook, la battuta su Twitter e la pasquinata firmata «Zorro» sul sito. In realtà questa poltiglia di informazione amorfa rischia di distruggere le idee, il dibattito, la critica.
Sui primi due giornali italiani, Repubblica e Corriere, i video più visti online questo sabato comprendono la ragazza che si tuffa nel lago e sbatte il sedere perché è gelato, la scema che fa la capriola e cade dal letto, il fusto che solleva 150 chili e sviene, il reporter sfiorato da un aereo e la cliente infuriata che devasta il locale perché il panino non le piace troppo.
Lamenta Lanier: «Ai tempi della rivoluzione internet io e i miei collaboratori venivamo sempre irrisi, perché prevedevamo che il web avrebbe potuto dare libera espressione a milioni di individui. Macché, ci dicevano, alla gente piace guardare la tv, non stare davanti a un computer. Quando la rivoluzione c'è stata, però, la creatività è stata uccisa, e il web ha perso la dignità intellettuale. Se volete sapere qualcosa la chiedete a Google, che vi manda a Wikipedia, punto e basta. Altrimenti la gente finisce nella bolla dei siti arrabbiati, degli ultras, dove ascolta solo chi rafforza le sue idee».
Che cosa è diventata dunque la discussione su internet nel 2010? Il pioniere Lanier, come tanti rivoluzionari del '900, non potrebbe essere più amaro e realista. «Ovviamente un coro collettivo non può servire a scrivere la storia, né possiamo affidare l'opinione pubblica a capannelli di assatanati sui blog. La massa ha il potere di distorcere la storia, danneggiando le minoranze, e gli insulti dei teppisti online ossificano il dibattito e disperdono la ragione».
Non saprei condensare meglio la preoccupazione e la delusione di Lanier e ho provato a sostenere le stesse tesi un anno fa, nella serie di Conferenze sul giornalismo all'Auditorium di Roma. Avendo creduto - e credendo - nella potenza sociale, culturale, economica e creativa della rete, e avendo a lungo scocciato colleghi e amici sulle sue virtù (al Corriere Paolo Mieli scherzava: ti vedo volentieri Gianni, basta che non mi parli più di internet!), è giusto che oggi mi faccia carico del dilemma: come è possibile riportare gerarchia di valori (il bene migliore del male), autorevolezza di tesi (il Nobel Amartya Sen la sa più lunga sulla crisi asiatica del suo anonimo aguzzino via blog), limpidezza di discussione (i siti e i Tersite che denunciano, a destra e a sinistra, in Italia e negli Usa, chi non è d'accordo con loro come «venduto» non sono «informazione»)?
La rete è e resterà il nostro futuro. I nostri figli ragioneranno sulla rete. L'informazione dell'opinione pubblica critica passerà sempre più dalla carta alla rete. Dunque non dobbiamo - come ci ammonisce Jaron Lanier - permettere ai teppisti di inquinarla con le loro farneticazioni e garantirne l'informazione, la cultura e l'eccellenza contro l'omogeneizzazione e il qualunquismo.
Google come aggregatore industriale di sapere, Wikipedia come aggregatore volontario di sapere, un'azienda strepitosa e un gruppo sterminato di volontari, non possono continuare a mischiare diamanti e cocci di bottiglia. Chi segue il dibattito su Wikipedia - vedi il Financial Times del 2 gennaio con l'inchiesta di Richard Waters – sa quanto questo riequilibrio sia importante: «È ormai duro controllare la qualità su Wikipedia, e interessi occulti possono fare correzioni con facilità, secondo il loro punto di vista. Andrew Lih dell'University of Southern California ci mette in guardia nel suo saggio «The Wikipedia Revolution»: «Il mio terrore è che poco a poco la verità goccioli tutta via, senza che nessuno se ne accorga».
È così, in nome di un egualitarismo che puzza di ideologia, e mettendo sullo stesso piano esperti e dilettanti, osservatori equanimi e faziosi ululanti, Wikipedia rischia di passare da invenzione geniale a piazza scalmanata (e chiunque abbia visto l'articolo a suo nome dell'enciclopedia online cambiato e ricambiato da fans e ultras sa di che parlo).
Il compito non è immane, ma è urgente. Riportare sulla rete quei canoni di serenità, autorevolezza, vivacità, impegno, buona volontà, dibattito, critica che sono da sempre trade mark della libertà, dell'onestà, della ragione. Senza perderne la ricchezza, la spontaneità, l'uguaglianza.
Per avere proposto questa discussione Lanier è già fatto a pezzi sulla rete come reazionario, traditore, snob, fallito, ferrovecchio (stessa sorte mi capitò quando il Corsera pubblicò la mia conferenza dell'Auditorium). Assurdo. In un'intervista oggi al Domenicale lo scrittore Francesco Piccolo racconta di come il suo amico Niccolò Ammaniti, giovane come lui, lo chiami inorridito per gli insulti che gli rivolgono online: prima regola, dice il saggio Piccolo, mai leggere i commenti anonimi dei blog.
Riportare sulla rete i valori della ragione, della saggezza e della buona volontà. A Wikipedia son coscienti del problema, se il grande Craig Newmark, fondatore di Craiglist, impero degli annunci pubblicitari online e consigliere della Fondazione Wikipedia, conclude «Abbiamo bisogno di esperti bilanciati dai cittadini, e viceversa». La rete 2010 deve diventare questa città ugualitaria: dove gli esperti e l'informazione di qualità parlano ai cittadini, e i cittadini fanno sentire la propria voce senza rancori e follie anonime. (Quanto alle Sturmtruppen dei siti all'arrabbiata anticipo gli insulti: questo articolo è stato imposto dal Kgb, la Spectre, la Cia e la Banda Bassotti per nascondere i mandanti dell'omicidio Kennedy, nascosti si sa in Vaticano e al Crazy Horse...).
Con la sua visione e il suo guanto Jaron mutava lo schermo davanti a sé e entrava in una diversa realtà, volando su un bosco, duellando con un Cavaliere Templare, operando un paziente al cervello. Le sue simulazioni hanno poi dato vita a videogiochi, programmi di addestramento per l'aviazione, sistemi di training per ingegneri e medici.
Oggi però Lanier, guru di internet e dei new media, celebre firma della rivista Wired, è perplesso. E nel suo ultimo libro «You are not a gadget: a manifesto», mette in guardia contro la deriva del Web 2.0 con toni preoccupati che faranno applaudire i vecchi professori che si vantano «Io? Io non ho mai usato un computer!». Cosa è accaduto perché uno dei leader della rivoluzione internet denunci il Web 2010? Lanier lamenta l'appiattimento dei contenuti online, che motori di ricerca come Google e l'enciclopedia scritta dagli utenti Wikipedia, importano sulla rete.
Mettere ogni giorno insieme, senza alcuna selezione, gli argomenti dei filosofi e le arrabbiature del tizio davanti al cappuccino tiepido, l'analisi economica di un Nobel e lo sfogo del qualunquista di turno, può essere celebrato dagli ingenui alla moda come «open source» e «democrazia di rete». Il pericolo è invece riassunto bene nelle parole del guru Lanier: «I blog anonimi, con i loro inutili commenti, gli scherzi frivoli di tanti video» ci hanno tutti ridotti a formichine liete di avere la faccina su Facebook, la battuta su Twitter e la pasquinata firmata «Zorro» sul sito. In realtà questa poltiglia di informazione amorfa rischia di distruggere le idee, il dibattito, la critica.
Sui primi due giornali italiani, Repubblica e Corriere, i video più visti online questo sabato comprendono la ragazza che si tuffa nel lago e sbatte il sedere perché è gelato, la scema che fa la capriola e cade dal letto, il fusto che solleva 150 chili e sviene, il reporter sfiorato da un aereo e la cliente infuriata che devasta il locale perché il panino non le piace troppo.
Lamenta Lanier: «Ai tempi della rivoluzione internet io e i miei collaboratori venivamo sempre irrisi, perché prevedevamo che il web avrebbe potuto dare libera espressione a milioni di individui. Macché, ci dicevano, alla gente piace guardare la tv, non stare davanti a un computer. Quando la rivoluzione c'è stata, però, la creatività è stata uccisa, e il web ha perso la dignità intellettuale. Se volete sapere qualcosa la chiedete a Google, che vi manda a Wikipedia, punto e basta. Altrimenti la gente finisce nella bolla dei siti arrabbiati, degli ultras, dove ascolta solo chi rafforza le sue idee».
Che cosa è diventata dunque la discussione su internet nel 2010? Il pioniere Lanier, come tanti rivoluzionari del '900, non potrebbe essere più amaro e realista. «Ovviamente un coro collettivo non può servire a scrivere la storia, né possiamo affidare l'opinione pubblica a capannelli di assatanati sui blog. La massa ha il potere di distorcere la storia, danneggiando le minoranze, e gli insulti dei teppisti online ossificano il dibattito e disperdono la ragione».
Non saprei condensare meglio la preoccupazione e la delusione di Lanier e ho provato a sostenere le stesse tesi un anno fa, nella serie di Conferenze sul giornalismo all'Auditorium di Roma. Avendo creduto - e credendo - nella potenza sociale, culturale, economica e creativa della rete, e avendo a lungo scocciato colleghi e amici sulle sue virtù (al Corriere Paolo Mieli scherzava: ti vedo volentieri Gianni, basta che non mi parli più di internet!), è giusto che oggi mi faccia carico del dilemma: come è possibile riportare gerarchia di valori (il bene migliore del male), autorevolezza di tesi (il Nobel Amartya Sen la sa più lunga sulla crisi asiatica del suo anonimo aguzzino via blog), limpidezza di discussione (i siti e i Tersite che denunciano, a destra e a sinistra, in Italia e negli Usa, chi non è d'accordo con loro come «venduto» non sono «informazione»)?
La rete è e resterà il nostro futuro. I nostri figli ragioneranno sulla rete. L'informazione dell'opinione pubblica critica passerà sempre più dalla carta alla rete. Dunque non dobbiamo - come ci ammonisce Jaron Lanier - permettere ai teppisti di inquinarla con le loro farneticazioni e garantirne l'informazione, la cultura e l'eccellenza contro l'omogeneizzazione e il qualunquismo.
Google come aggregatore industriale di sapere, Wikipedia come aggregatore volontario di sapere, un'azienda strepitosa e un gruppo sterminato di volontari, non possono continuare a mischiare diamanti e cocci di bottiglia. Chi segue il dibattito su Wikipedia - vedi il Financial Times del 2 gennaio con l'inchiesta di Richard Waters – sa quanto questo riequilibrio sia importante: «È ormai duro controllare la qualità su Wikipedia, e interessi occulti possono fare correzioni con facilità, secondo il loro punto di vista. Andrew Lih dell'University of Southern California ci mette in guardia nel suo saggio «The Wikipedia Revolution»: «Il mio terrore è che poco a poco la verità goccioli tutta via, senza che nessuno se ne accorga».
È così, in nome di un egualitarismo che puzza di ideologia, e mettendo sullo stesso piano esperti e dilettanti, osservatori equanimi e faziosi ululanti, Wikipedia rischia di passare da invenzione geniale a piazza scalmanata (e chiunque abbia visto l'articolo a suo nome dell'enciclopedia online cambiato e ricambiato da fans e ultras sa di che parlo).
Il compito non è immane, ma è urgente. Riportare sulla rete quei canoni di serenità, autorevolezza, vivacità, impegno, buona volontà, dibattito, critica che sono da sempre trade mark della libertà, dell'onestà, della ragione. Senza perderne la ricchezza, la spontaneità, l'uguaglianza.
Per avere proposto questa discussione Lanier è già fatto a pezzi sulla rete come reazionario, traditore, snob, fallito, ferrovecchio (stessa sorte mi capitò quando il Corsera pubblicò la mia conferenza dell'Auditorium). Assurdo. In un'intervista oggi al Domenicale lo scrittore Francesco Piccolo racconta di come il suo amico Niccolò Ammaniti, giovane come lui, lo chiami inorridito per gli insulti che gli rivolgono online: prima regola, dice il saggio Piccolo, mai leggere i commenti anonimi dei blog.
Riportare sulla rete i valori della ragione, della saggezza e della buona volontà. A Wikipedia son coscienti del problema, se il grande Craig Newmark, fondatore di Craiglist, impero degli annunci pubblicitari online e consigliere della Fondazione Wikipedia, conclude «Abbiamo bisogno di esperti bilanciati dai cittadini, e viceversa». La rete 2010 deve diventare questa città ugualitaria: dove gli esperti e l'informazione di qualità parlano ai cittadini, e i cittadini fanno sentire la propria voce senza rancori e follie anonime. (Quanto alle Sturmtruppen dei siti all'arrabbiata anticipo gli insulti: questo articolo è stato imposto dal Kgb, la Spectre, la Cia e la Banda Bassotti per nascondere i mandanti dell'omicidio Kennedy, nascosti si sa in Vaticano e al Crazy Horse...).
«Il Sole 24 Ore» del 10 gennaio 2010
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