Un saggio sul feroce controllo culturale in Urss e la macchina repressiva ancora attiva fino agli anni Ottanta La storica: "Kgb e Unione degli scrittori controllavano anche le traduzioni, stravolte per cambiarne il senso"
s. i. a.
Maria Zalambani è professore associato di Lingua e Letteratura Russa presso l’Università di Bologna (sede di Forlì). Si è occupata prevalentemente di avanguardia russa e di letteratura sovietica. È autrice, fra l’altro, di L’arte nella produzione. Avanguardia e rivoluzione nella Russia Sovietica degli anni ’20 (Longo, 1998) e La morte del romanzo (Carocci, 2003). Il nuovo saggio che ha appena dato alle stampe si intitola: Censura, istituzioni e politica letteraria in URSS (1964-1985) (Firenze University Press pagg. 284, euro 29.90).
Partiamo dall’inizio. La censura in Russia esisteva anche prima di Lenin.
«La censura sovietica ha ereditato quella di tipo zarista. La discontinuità consiste nel fatto che mentre la censura zarista era prevalentemente repressiva, la censura sovietica è anche propositiva, prescrive. Molto è stato scritto relativamente alla censura sovietica repressiva. Un po’ più trascurato è stato l’altro fenomeno, quello che scorre parallelamente al meccanismo repressivo, e che è in grado invece di produrre, di prescrivere a monte, così che alla fine non è quasi più necessaria la censura repressiva».
Normalmente si dice che la censura sovietica abbia imposto delle regole ferree a partire dal 1934, cioè dal I Congresso degli Scrittori Sovietici che varò il Realismo socialista come stile a cui adeguarsi obbligatoriamente. Ma cosa succede tra il 1917 e il 1934?
«Occorre distinguere due tappe: la prima va dal 1917 al 1922. In questo periodo non c’è una censura previa sulle pubblicazioni. Tuttavia, fin dal ’17, Lenin aveva varato il Decreto sulla stampa con cui l’editoria borghese era stata messa al bando: se era stata eliminata la censura previa, i Bolscevichi controllavano però la distribuzione della carta, avevano requisito le tipografie e nel 1919 avevano instaurato il monopolio delle case editrici... Nel 1922, con la NEP, la Nuova Politica Economica, nascono molti editori, si rimette in moto il mercato librario, vengono pubblicati Mandel’štam, l’Achmatova, autori che poi non compariranno più nelle librerie. Ed è proprio allora, credo non casualmente, che viene istituito il Glavlit (Glavnoe Upravlenie po Delam Literatury i Izdatelstv) la Direzione generale per gli affari letterari ed editoriali. È questo l’organo che si occuperà della censura repressiva. Il ripristino della censura avviene immediatamente dopo l’arresto dei menscevichi del Comitato Centrale, la proibizione delle frazioni interne al partito, l’esilio forzato degli intellettuali scomodi. L’istituzionalizzazione della censura fa parte del disciplinamento del corpo sociale sovietico, del tentativo di forgiare l’homo sovieticus. Contemporaneamente, sul versante prescrittivo, nel 1921, nascono le prime riviste sovietiche di critica letteraria, come Krasnaja nov’. Lenin capisce che questi sono i pulpiti da cui viene pronunciato il discorso letterario, che non è solo letterario, ma anche storico, politico, filosofico».
Il suo libro è dedicato al periodo che va dal 1964 al 1985, quello della cosiddetta stagnazione brezneviana e dei suoi successori fino a Gorbacev. Perché hai scelto proprio di analizzare la censura in questi anni?
«L’ho scelto anzitutto perché sembra uno dei più stabili mentre non lo è, e in secondo luogo perché in questo periodo vanno ricercate le cause del crollo dell’Unione Sovietica. Molti si chiedono come è possibile che un sistema che sembrava eterno, immutabile e immobile crolli rovinosamente nel giro di cinque anni. Probabilmente bisogna studiare il periodo precedente, che è un periodo di grandi contraddizioni. Pensiamo a Sinjavskij e Daniel, arrestati nel 1965 perché non scrivevano secondo i canoni del Realismo socialista e non passavano attraverso i canali ufficiali. Il fatto è che, per la prima volta non si cerca neanche un reato “di copertura”, come era stato appena pochi anni prima quando Brodskij era stato incarcerato per parassitismo. Nel 1965 il potere non ha più bisogno di nascondersi dietro a menzogne».
Come funziona il sistema censorio di quegli anni?
«Negli anni della stagnazione brezneviana il sistema politico si rende conto che la macchina censoria è molto antiquata, non adeguata a una società civile che si sta inventando nuovi linguaggi, nuovi spazi (non a caso sono gli anni in cui si sviluppa il Samizdat). Per questa ragione il sistema politico inventa nuove forme: l’intervento di Andropov, che dirige il Kgb per quindici anni, è importante. Andropov inventa la politica della profilassi: in alternativa alla repressione e all’arresto, si chiamano a colloqui privati gli intellettuali, gli scrittori, gli artisti. Viene messa in campo una rete di delatori, che non sono le vecchie spie del Kgb, ma spesso membri dell’intelligencija che fanno rapporto. Dalla punizione alla sorveglianza».
Nel libro lei parla di manuali ad uso dei censori. Restano in vigore anche sotto Chrušcev e Breznev?
«Sì, c’è una continuità perfetta. Nel 1922 escono i manuali per i censori che poi vengono costantemente aggiornati perché chi giudica deve sempre sapere come comportarsi».
Anche la traduzione era un aspetto della censura «positiva». Lei racconta il caso di un testo di Sartre censurato.
«Purtroppo ci sono ancora pochi studi sulla questione: tutti concordano nel dire che la traduzione sovietica era una traduzione censoria, però c’è ancora molto da studiare. Quel che è certo è che prima viene deciso quale autore si può tradurre, poi che cosa si può tradurre di quel determinato autore, e infine si decide come. Alle volte si riscrive, come nell’esempio di Sartre che riporto».
Come avveniva tecnicamente? Chi sceglieva il traduttore?
«È un campo ancora piuttosto sconosciuto. Per ora sappiamo che il traduttore veniva reclutato dall’Unione degli Scrittori, la quale aveva tutta una serie di divisioni, tra cui anche quella della traduzione».
Immagino che andasse avanti non chi traduceva meglio ma chi riusciva a tradurre rispettando le direttive del partito ...
«Il primo requisito per essere membro dell’Unione degli Scrittori era la lealtà al partito. Poi la capacità, il talento, tutte queste nozioni metafisiche che il socialismo reale non ha mai amato e che erano del tutto secondarie. È tutto un sistema culturale all’insegna della partijnost’ - la partiticità. La partijnost’ è la parola d’ordine: in Urss il campo culturale dipende completamente dal campo del potere proprio perché tutto è all’insegna della partijnost’».
Partiamo dall’inizio. La censura in Russia esisteva anche prima di Lenin.
«La censura sovietica ha ereditato quella di tipo zarista. La discontinuità consiste nel fatto che mentre la censura zarista era prevalentemente repressiva, la censura sovietica è anche propositiva, prescrive. Molto è stato scritto relativamente alla censura sovietica repressiva. Un po’ più trascurato è stato l’altro fenomeno, quello che scorre parallelamente al meccanismo repressivo, e che è in grado invece di produrre, di prescrivere a monte, così che alla fine non è quasi più necessaria la censura repressiva».
Normalmente si dice che la censura sovietica abbia imposto delle regole ferree a partire dal 1934, cioè dal I Congresso degli Scrittori Sovietici che varò il Realismo socialista come stile a cui adeguarsi obbligatoriamente. Ma cosa succede tra il 1917 e il 1934?
«Occorre distinguere due tappe: la prima va dal 1917 al 1922. In questo periodo non c’è una censura previa sulle pubblicazioni. Tuttavia, fin dal ’17, Lenin aveva varato il Decreto sulla stampa con cui l’editoria borghese era stata messa al bando: se era stata eliminata la censura previa, i Bolscevichi controllavano però la distribuzione della carta, avevano requisito le tipografie e nel 1919 avevano instaurato il monopolio delle case editrici... Nel 1922, con la NEP, la Nuova Politica Economica, nascono molti editori, si rimette in moto il mercato librario, vengono pubblicati Mandel’štam, l’Achmatova, autori che poi non compariranno più nelle librerie. Ed è proprio allora, credo non casualmente, che viene istituito il Glavlit (Glavnoe Upravlenie po Delam Literatury i Izdatelstv) la Direzione generale per gli affari letterari ed editoriali. È questo l’organo che si occuperà della censura repressiva. Il ripristino della censura avviene immediatamente dopo l’arresto dei menscevichi del Comitato Centrale, la proibizione delle frazioni interne al partito, l’esilio forzato degli intellettuali scomodi. L’istituzionalizzazione della censura fa parte del disciplinamento del corpo sociale sovietico, del tentativo di forgiare l’homo sovieticus. Contemporaneamente, sul versante prescrittivo, nel 1921, nascono le prime riviste sovietiche di critica letteraria, come Krasnaja nov’. Lenin capisce che questi sono i pulpiti da cui viene pronunciato il discorso letterario, che non è solo letterario, ma anche storico, politico, filosofico».
Il suo libro è dedicato al periodo che va dal 1964 al 1985, quello della cosiddetta stagnazione brezneviana e dei suoi successori fino a Gorbacev. Perché hai scelto proprio di analizzare la censura in questi anni?
«L’ho scelto anzitutto perché sembra uno dei più stabili mentre non lo è, e in secondo luogo perché in questo periodo vanno ricercate le cause del crollo dell’Unione Sovietica. Molti si chiedono come è possibile che un sistema che sembrava eterno, immutabile e immobile crolli rovinosamente nel giro di cinque anni. Probabilmente bisogna studiare il periodo precedente, che è un periodo di grandi contraddizioni. Pensiamo a Sinjavskij e Daniel, arrestati nel 1965 perché non scrivevano secondo i canoni del Realismo socialista e non passavano attraverso i canali ufficiali. Il fatto è che, per la prima volta non si cerca neanche un reato “di copertura”, come era stato appena pochi anni prima quando Brodskij era stato incarcerato per parassitismo. Nel 1965 il potere non ha più bisogno di nascondersi dietro a menzogne».
Come funziona il sistema censorio di quegli anni?
«Negli anni della stagnazione brezneviana il sistema politico si rende conto che la macchina censoria è molto antiquata, non adeguata a una società civile che si sta inventando nuovi linguaggi, nuovi spazi (non a caso sono gli anni in cui si sviluppa il Samizdat). Per questa ragione il sistema politico inventa nuove forme: l’intervento di Andropov, che dirige il Kgb per quindici anni, è importante. Andropov inventa la politica della profilassi: in alternativa alla repressione e all’arresto, si chiamano a colloqui privati gli intellettuali, gli scrittori, gli artisti. Viene messa in campo una rete di delatori, che non sono le vecchie spie del Kgb, ma spesso membri dell’intelligencija che fanno rapporto. Dalla punizione alla sorveglianza».
Nel libro lei parla di manuali ad uso dei censori. Restano in vigore anche sotto Chrušcev e Breznev?
«Sì, c’è una continuità perfetta. Nel 1922 escono i manuali per i censori che poi vengono costantemente aggiornati perché chi giudica deve sempre sapere come comportarsi».
Anche la traduzione era un aspetto della censura «positiva». Lei racconta il caso di un testo di Sartre censurato.
«Purtroppo ci sono ancora pochi studi sulla questione: tutti concordano nel dire che la traduzione sovietica era una traduzione censoria, però c’è ancora molto da studiare. Quel che è certo è che prima viene deciso quale autore si può tradurre, poi che cosa si può tradurre di quel determinato autore, e infine si decide come. Alle volte si riscrive, come nell’esempio di Sartre che riporto».
Come avveniva tecnicamente? Chi sceglieva il traduttore?
«È un campo ancora piuttosto sconosciuto. Per ora sappiamo che il traduttore veniva reclutato dall’Unione degli Scrittori, la quale aveva tutta una serie di divisioni, tra cui anche quella della traduzione».
Immagino che andasse avanti non chi traduceva meglio ma chi riusciva a tradurre rispettando le direttive del partito ...
«Il primo requisito per essere membro dell’Unione degli Scrittori era la lealtà al partito. Poi la capacità, il talento, tutte queste nozioni metafisiche che il socialismo reale non ha mai amato e che erano del tutto secondarie. È tutto un sistema culturale all’insegna della partijnost’ - la partiticità. La partijnost’ è la parola d’ordine: in Urss il campo culturale dipende completamente dal campo del potere proprio perché tutto è all’insegna della partijnost’».
«Il Giornale» del 19 aprile 2010
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