Sciascia narra lo sbarco degli americani in Sicilia, quando anche gli ex fascisti corsero a festeggiare la «repubblica stellata». Un vecchio vizio nazionale
di Leonardo Sciascia
La sera del 9 luglio 1943, nel caffè che ormai da mesi il proprietario apriva soltanto per amore della conversazione, altro non offrendo agli avventori che gazose, il signor Chiarenza, impiegato municipale, accese la radio, girò la lancetta velocemente cogliendo un orizzonte di note e di sillabe, d’improvviso la fermò su una parola italiana, una frase, un discorso. La voce era lontana, soffocata; sembrava galleggiare su un mare in tempesta. Ma quel che diceva della guerra, del fascismo, di Hitler sembrava abbastanza sensato, abbastanza vero. Il signor Chiarenza approvava muovendo la testa, gli altri si facevano attenti. Il più pronto a prendere coscienza di quel che stava accadendo fu il brigadiere. Una prontezza professionale. Si alzò e spense la radio con un colpo secco; girò terribile sguardo sulle facce degli avventori, lo fermò su quella, innocente e sorpresa, del signor Chiarenza. «Lei ha preso radio Londra» disse, sibilando collera. «Davvero? » fece il signor Chiarenza. «Radio Londra» disse ancora il brigadiere. «Non lo sapevo» disse l’altro. «Non lo sapeva, ma approvava» disse il brigadiere. «Per approvare, approvavo»; ammise il signor Chiarenza «però credevo fosse una stazione italiana». «Una stazione italiana!» il brigadiere quasi soffocava. «E le cose che ha sentito lei crede che potessero venire da una stazione nostra?». «Le abbiamo sentite tutti» precisò il signor Chiarenza. «Già» disse il brigadiere: e nella sua espressione la collera si ritirò per cedere alla preoccupazione, all’indecisione. «Se vuole» offrì con angelica comprensione il signor Chiarenza «posso rompere la radio». Il brigadiere si precipitò fuori. Così a R., paese a una ventina di chilometri dal mare di Porto Empedocle e a poco più da quello di Licata, qualche ora prima che le forze alleate mettessero piede sulle spiagge siciliane, il fascismo finiva.
E come tutti sentissero preciso avvertimento dell’ora che stava per scattare, non è possibile capire attraverso una giustapposizione di elementi concreti. Si sentiva, ecco tutto. E gli storici possono rompersi la testa, a tentare di capire comemai un segreto rigorosamente custodito al vertice degli eserciti alleati non fosse per tanti siciliani un segreto. Verso la mezzanotte, dai balconi e dalle terrazze del paese, tutti quelli che vi si attardavano per cogliere, dopo l’affocata giornata, i freschi refoli notturni, videro dalla parte di Licata il cielo farsi luminoso. Pareva che la luna si fosse schiantata alla marina, che continuasse a bruciare del suo tranquillo fuoco bianco sull’orlo dell’isola. Gli americani stavano sbarcando, ne fummo tutti certi. E si aveva il senso che quella luce lontana fosse come di una festa; che gli americani— gli zii, i nipoti, i cugini d’America — facessero splendere la volta notturna in gloria di quei santi neri e barbuti per i quali sempre avevano mandato, tra i foglietti delle lettere ai parenti o al parroco, il biglietto da cinque o da dieci dollari. L’alba spense quella luce. Ma dello sbarco degli americani ebbero certa notizia i carabinieri, i soldati. Le campane suonarono a martello, il banditore gridò per le strade lo stato di emergenza. Il cielo cominciò a vibrare del ronzio di un aereo: si avvicinava e svaniva, continuamente, senza che si riuscisse a scorgerlo; e finalmente, con un breve crepitio di mitraglia, comparve tra le case. Era di forma inconsueta, a due code (si chiamava, seppimo dopo, B 29): e doveva, per tutta una settimana, rappresentare una specie di legame tra il paese, isolato e ansioso, e la realtà della guerra, della invasione, della presenza americana. E che quella breve sventagliata di mitraglia avesse, al margine del paese, ucciso un carrettiere e ferito un bambino, i più erano disposti a considerarlo un errore: l’americano si era ingannato; dall’alto chi sa che gli era parso, quel carretto.
I soldati, intanto, non sapevano che fare. Ad ogni buon conto, si misero in giro a cercare vestiti. Bussavano con esitazione, timidamente chiedevano: si accontentavano di un pantalone, di una camicia; col caldo che c’era non avevano bisogno di giacca. Pensando ai figli lontani, ai mariti, ai fratelli — e che altrove, dovunque si trovassero, su loro si riversasse uguale pietà — le donne del paese tiravano fuori dagli armadi e dalle casse vestiti vecchi e nuovi. E il riconoscimento di coloro che appena avevano lasciato la divisa militare poteva essere fatto a fiuto, per il dolciastro odore di naftalina che quei vestiti emanavano. Quel giorno, nell’ora in cui tutti si sedevano per buttar giù le quattro forchettate di lasagne fatte in casa, si sentì per le strade la voce di un vecchio fascista, irreale, patetica, gridare: «Li abbiamo respinti, li abbiamo ributtati a mare». In ogni casa la notizia fu, con lievi varianti, commentata da un ironico e compassionevole: «Sì, con le corna che hai in testa». E scendendo infatti la controra, la sonnolenza e il silenzio che qui sempre succede al pasto meridiano, affiorò netto il tonfo delle cannonate: e non c’era dubbio, secondo quelli che avevano fatto una guerra, che quei colpi cadessero a non più di quindici chilometri, in linea d’aria. Del tutto rassicuranti furono poi le notizie che portò un venditore ambulante. Era scappato, all’alba, da Licata: un po’ a piedi, un po’ su un camion militare, era riuscito a tornare a casa. Pieno di stupore, quasi allucinato, raccontava di aver visto il mare, fin dove l’occhio arrivava, fitto di navi. Ripeteva: «Cornuto! E come voleva vincere?». Quelli che lo ascoltavano, quasi tutti sorridevano con approvazione; qualche fanatico, che ancora c’era, fingeva di non capire a chi quell’insulto fosse diretto. All’ospedale del paese, verso sera, arrivarono una ventina di feriti. Erano del X Bersaglieri, quasi tutti veneti. Il reggimento (o forse un solo battaglione) valorosamente aveva resistito a più di un urto, ma poi era stato annientato. I feriti, quasi tutti in grado di camminare, sembravano più smarriti che sofferenti. E avevano fame. Poi passarono i tedeschi: seduti per quattro sugli autocarri, l’arma al piede, zuppi di sudore ma immobili, impassibili. Venivano dalla parte di Aragona e andavano verso il fronte di Licata. La gente, preoccupata, contò gli autocarri: cinque, sei, un’automobile scoperta con due ufficiali. «Non ce la fanno... Ma vedi però che ordine».
Tornarono indietro che era già notte: evidentemente, avevano visto persa la partita. Da quella sera, per sei giorni di fila, non ci fu che il lontano tuonare delle cannonate e quell’aereo a due code che ogni tanto, per rompere la noia, scendeva a sgranare quattro colpi sempre oltre le ultime case: sui fichidindia, sui covoni di grano ammonticchiati nelle aie. La corrente elettrica non c’era più, nessuno si arrischiava a uscire dal paese: non si aveva notizia alcuna della guerra che dilagava nell’isola, soltanto il 14 (o il 15) uno era riuscito, da una radio a galena che aveva un soldato di passaggio, a sentire il bollettino di Roma: e che le forze d’invasione, superata la fascia costiera, si addentravano nella zona montuosa della Sicilia. E si era privi di tutto: di farina, non funzionando più i mulini; di verdura, ché gli orti erano appunto al margine del paese, dove il B 29 cercava bersagli; di frutta, grande risorsa che la stagione ci offriva per sopravvivere. Cominciavano a diventare cornuti gli americani, che non venivano. Il 16 luglio, di pomeriggio, gli americani finalmente apparvero. Fu davvero un’apparizione, quasi incredibile. All’estremità del corso, dove la facciata della Matrice lo chiude, davanti al caffè, una ventina di persone stava a godersi la striscia d’ombra che cominciava a cadere dalle case, e anche i carabinieri: ed ecco che all’altro estremo, nella deserta e abbagliante prospettiva, tenendosi al centro con un suo passo lento e guardingo, spuntò l’americano. Ai suoi lati, camminando sotto i balconi e coi fucili puntati alle imposte chiuse, c’erano altri soldati. Tutta la nostra attenzione era però incentrata su quello che camminava al centro: alto; il passo leggermente «fianchino», da cow boy; le braccia indolentemente scostate dal corpo, le mani quasi sospese: ma pronte, si sentiva, braccia e mani a scattare, a fare affiorare l’arma, il fuoco.
Gary Cooper quell’entrata non l’avrebbe fatta meglio. E per quei due o tre minuti che ci vollero perché la pattuglia arrivasse davanti al caffè, ci sentimmo come al cinema, che la visione sorgesse da uno schermo e magicamente penetrasse nella realtà. Gli americani puntarono i fucili sui carabinieri, che si erano alzati in piedi: la faccia pallida, affilata; lo sguardo sperso. Uno della pattuglia girò dietro a loro, con destrezza li disarmò delle pistole. Tutto si era svolto così velocemente, e in così attonito silenzio, che il grido di Gasparino Firetto «Viva la libertà!» fu come un crollo. Gasparino più volte aveva avuto a che fare coi carabinieri, piccole truffe, piccoli furti: e a vederli disarmare l’evviva alla libertà gli era venuto dal profondo. E il momento della sua più grande gioia stava per essere l’ultimo della sua vita, se il capo della pattuglia non avesse fermato il soldato che, credendo quel grido fosse di allarme, di resistenza, con una faccia improvvisamente stravolta di paura, fu sul punto di impiombarlo. Dal grido di Gasparino alla grande festa fu questione di minuti. Il corso si riempì di gente che pareva una domenica del tempo di pace, una grande bandiera a stelle e strisce ondeggiò sulla folla, cannate piene di vino la sorvolarono fino a raggiungere gli americani. «Viva la repubblica stellata!» gridò l’avvocato Calafato, con una voce che non aveva perduto timbro e forza da quando, sei anni prima, alla stazione, era riuscito a salire sul predellino del treno per gridare «Duce, per te la vita!» sotto lo sguardo fiero e paterno di Mussolini.
E come tutti sentissero preciso avvertimento dell’ora che stava per scattare, non è possibile capire attraverso una giustapposizione di elementi concreti. Si sentiva, ecco tutto. E gli storici possono rompersi la testa, a tentare di capire comemai un segreto rigorosamente custodito al vertice degli eserciti alleati non fosse per tanti siciliani un segreto. Verso la mezzanotte, dai balconi e dalle terrazze del paese, tutti quelli che vi si attardavano per cogliere, dopo l’affocata giornata, i freschi refoli notturni, videro dalla parte di Licata il cielo farsi luminoso. Pareva che la luna si fosse schiantata alla marina, che continuasse a bruciare del suo tranquillo fuoco bianco sull’orlo dell’isola. Gli americani stavano sbarcando, ne fummo tutti certi. E si aveva il senso che quella luce lontana fosse come di una festa; che gli americani— gli zii, i nipoti, i cugini d’America — facessero splendere la volta notturna in gloria di quei santi neri e barbuti per i quali sempre avevano mandato, tra i foglietti delle lettere ai parenti o al parroco, il biglietto da cinque o da dieci dollari. L’alba spense quella luce. Ma dello sbarco degli americani ebbero certa notizia i carabinieri, i soldati. Le campane suonarono a martello, il banditore gridò per le strade lo stato di emergenza. Il cielo cominciò a vibrare del ronzio di un aereo: si avvicinava e svaniva, continuamente, senza che si riuscisse a scorgerlo; e finalmente, con un breve crepitio di mitraglia, comparve tra le case. Era di forma inconsueta, a due code (si chiamava, seppimo dopo, B 29): e doveva, per tutta una settimana, rappresentare una specie di legame tra il paese, isolato e ansioso, e la realtà della guerra, della invasione, della presenza americana. E che quella breve sventagliata di mitraglia avesse, al margine del paese, ucciso un carrettiere e ferito un bambino, i più erano disposti a considerarlo un errore: l’americano si era ingannato; dall’alto chi sa che gli era parso, quel carretto.
I soldati, intanto, non sapevano che fare. Ad ogni buon conto, si misero in giro a cercare vestiti. Bussavano con esitazione, timidamente chiedevano: si accontentavano di un pantalone, di una camicia; col caldo che c’era non avevano bisogno di giacca. Pensando ai figli lontani, ai mariti, ai fratelli — e che altrove, dovunque si trovassero, su loro si riversasse uguale pietà — le donne del paese tiravano fuori dagli armadi e dalle casse vestiti vecchi e nuovi. E il riconoscimento di coloro che appena avevano lasciato la divisa militare poteva essere fatto a fiuto, per il dolciastro odore di naftalina che quei vestiti emanavano. Quel giorno, nell’ora in cui tutti si sedevano per buttar giù le quattro forchettate di lasagne fatte in casa, si sentì per le strade la voce di un vecchio fascista, irreale, patetica, gridare: «Li abbiamo respinti, li abbiamo ributtati a mare». In ogni casa la notizia fu, con lievi varianti, commentata da un ironico e compassionevole: «Sì, con le corna che hai in testa». E scendendo infatti la controra, la sonnolenza e il silenzio che qui sempre succede al pasto meridiano, affiorò netto il tonfo delle cannonate: e non c’era dubbio, secondo quelli che avevano fatto una guerra, che quei colpi cadessero a non più di quindici chilometri, in linea d’aria. Del tutto rassicuranti furono poi le notizie che portò un venditore ambulante. Era scappato, all’alba, da Licata: un po’ a piedi, un po’ su un camion militare, era riuscito a tornare a casa. Pieno di stupore, quasi allucinato, raccontava di aver visto il mare, fin dove l’occhio arrivava, fitto di navi. Ripeteva: «Cornuto! E come voleva vincere?». Quelli che lo ascoltavano, quasi tutti sorridevano con approvazione; qualche fanatico, che ancora c’era, fingeva di non capire a chi quell’insulto fosse diretto. All’ospedale del paese, verso sera, arrivarono una ventina di feriti. Erano del X Bersaglieri, quasi tutti veneti. Il reggimento (o forse un solo battaglione) valorosamente aveva resistito a più di un urto, ma poi era stato annientato. I feriti, quasi tutti in grado di camminare, sembravano più smarriti che sofferenti. E avevano fame. Poi passarono i tedeschi: seduti per quattro sugli autocarri, l’arma al piede, zuppi di sudore ma immobili, impassibili. Venivano dalla parte di Aragona e andavano verso il fronte di Licata. La gente, preoccupata, contò gli autocarri: cinque, sei, un’automobile scoperta con due ufficiali. «Non ce la fanno... Ma vedi però che ordine».
Tornarono indietro che era già notte: evidentemente, avevano visto persa la partita. Da quella sera, per sei giorni di fila, non ci fu che il lontano tuonare delle cannonate e quell’aereo a due code che ogni tanto, per rompere la noia, scendeva a sgranare quattro colpi sempre oltre le ultime case: sui fichidindia, sui covoni di grano ammonticchiati nelle aie. La corrente elettrica non c’era più, nessuno si arrischiava a uscire dal paese: non si aveva notizia alcuna della guerra che dilagava nell’isola, soltanto il 14 (o il 15) uno era riuscito, da una radio a galena che aveva un soldato di passaggio, a sentire il bollettino di Roma: e che le forze d’invasione, superata la fascia costiera, si addentravano nella zona montuosa della Sicilia. E si era privi di tutto: di farina, non funzionando più i mulini; di verdura, ché gli orti erano appunto al margine del paese, dove il B 29 cercava bersagli; di frutta, grande risorsa che la stagione ci offriva per sopravvivere. Cominciavano a diventare cornuti gli americani, che non venivano. Il 16 luglio, di pomeriggio, gli americani finalmente apparvero. Fu davvero un’apparizione, quasi incredibile. All’estremità del corso, dove la facciata della Matrice lo chiude, davanti al caffè, una ventina di persone stava a godersi la striscia d’ombra che cominciava a cadere dalle case, e anche i carabinieri: ed ecco che all’altro estremo, nella deserta e abbagliante prospettiva, tenendosi al centro con un suo passo lento e guardingo, spuntò l’americano. Ai suoi lati, camminando sotto i balconi e coi fucili puntati alle imposte chiuse, c’erano altri soldati. Tutta la nostra attenzione era però incentrata su quello che camminava al centro: alto; il passo leggermente «fianchino», da cow boy; le braccia indolentemente scostate dal corpo, le mani quasi sospese: ma pronte, si sentiva, braccia e mani a scattare, a fare affiorare l’arma, il fuoco.
Gary Cooper quell’entrata non l’avrebbe fatta meglio. E per quei due o tre minuti che ci vollero perché la pattuglia arrivasse davanti al caffè, ci sentimmo come al cinema, che la visione sorgesse da uno schermo e magicamente penetrasse nella realtà. Gli americani puntarono i fucili sui carabinieri, che si erano alzati in piedi: la faccia pallida, affilata; lo sguardo sperso. Uno della pattuglia girò dietro a loro, con destrezza li disarmò delle pistole. Tutto si era svolto così velocemente, e in così attonito silenzio, che il grido di Gasparino Firetto «Viva la libertà!» fu come un crollo. Gasparino più volte aveva avuto a che fare coi carabinieri, piccole truffe, piccoli furti: e a vederli disarmare l’evviva alla libertà gli era venuto dal profondo. E il momento della sua più grande gioia stava per essere l’ultimo della sua vita, se il capo della pattuglia non avesse fermato il soldato che, credendo quel grido fosse di allarme, di resistenza, con una faccia improvvisamente stravolta di paura, fu sul punto di impiombarlo. Dal grido di Gasparino alla grande festa fu questione di minuti. Il corso si riempì di gente che pareva una domenica del tempo di pace, una grande bandiera a stelle e strisce ondeggiò sulla folla, cannate piene di vino la sorvolarono fino a raggiungere gli americani. «Viva la repubblica stellata!» gridò l’avvocato Calafato, con una voce che non aveva perduto timbro e forza da quando, sei anni prima, alla stazione, era riuscito a salire sul predellino del treno per gridare «Duce, per te la vita!» sotto lo sguardo fiero e paterno di Mussolini.
«Corriere della Sera» del 30 aprile 2010
1 commento:
Mi sono commosso e divertito sino alle lacrime, qui emerge inequivocabile l'atteggiamento, tutto degli italiani, quello di salire precipitosamente sul carro del vincitore. Viva l'Italia!...
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