di Carlo Carena
Ipazia è nella storiografia filosofica antica la filosofo. Figlia del matematico Teone, nata e vissuta ad Alessandria fra il 370 e il 415, coltivò anch’essa la matematica, la fisica, l’astronomia, la filosofia imparata ad Atene. I contemporanei ne testimoniano l’ardore nell’apprendere e nell’insegnare, la bravura nelle lezioni che dalle scienze ascendevano alla metafisica, il fascino anche fisico invano occultato davanti al suo uditorio maschile dalla mantellina degli antichi cinici che essa indossava. Il successo di questo insegnamento, che era tanto un sistema quanto un’ispirata iniziazione al sapere filosofico, le attraeva, come la devozione e l’ammirazione dei discepoli, così l’invidia e l’astio di nemici in un’epoca e in una particolare città dove si scontravano mortalmente due culture e due continenti, l’antico pensiero pagano e il nuovo cristiano. Il conflitto, teologico, politico e di potere, s’incentrava sul prefetto Oreste, ammiratore della filosofo, e il vescovo Cirillo – poi protagonista del Concilio di Efeso e santo. Nel 415 una folla di cristiani scatenati assaltò Ipazia e la linciò ferocemente.
Come istigatore della barbara operazione è indicato da alcune fonti il vescovo; la critica recente osserva più cauta e riflessiva degli sfoghi ottocenteschi che esse (lo storico costantinopolitano Socrate) non sono al di sopra di ogni sospetto e non garantiscono imparzialità assoluta. Certo rimane la tragedia del personaggio, una figura che sembra ancora intagliata, un po’ anacronisticamente, nello stampo degli alti spiriti dell’antichità. Tuttora, ai nostri giorni Mario Luzi introducendo e spiegando il suo testo teatrale Ipazia del ’72 si dichiarava suo prigioniero, preso da «una sorta di esaltazione» nei suoi riguardi, per la giovinezza? per la bellezza? per la scienza o per la fierezza? certamente assorbito dal carisma di colei che fu leader e anche enfant gâté del tardo neoplatonismo. C’è in questa donna, nella sua resistenza disperata, nel suo ascetismo monacale un che di romantico, e ne suscita nel tempo comparse e ricomparse sotto vari profili. Il suo discepolo e poi vescovo di Tolemaide, Sinesio, ne conserva ed esprime nella sua corrispondenza un ricordo devoto, guarda costantemente a lei come a una madre, a una sorella, alla maestra, a una benefattrice che lo ha introdotto nei «mistici festini» della filosofia. Un epigramma di Pallada di quegli stessi anni nell’ Antologia Palatina la «adora», lei e il suo «verbo», quale «stella immacolata» nel firmamento della cultura. In tempi moderni la sua popolarità fu rinverdita nell’Ottocento e non solo in Inghilterra da un romanzo di grande successo Ipazia o Nuovi nemici sotto un volto antico (1851) del reverendo Charles Kinsley, cappellano della regina Vittoria e professore di storia a Cambridge, esponente di quei «socialisti cristiani» e di quel «cristianesimo muscoloso» rigido e allora attivo in Inghilterra, a cui non piaceva nemmeno la conversione di Newman e che nella storia di Ipazia, nei suoi contorni e nei suoi personaggi trovava una vicenda metaforica ed esemplare. Su tutti si vada però a rileggere l’ispirato, profondo e inflessibile monito di Péguy con una sottile vena nostalgica, con l’ammirazione e la pietà per tutti i vinti espresse in un Cahier del 1907, e la sdegnata invettiva in una pagina di due anni prima contro i suoi carnefici, «sporchi monaci grossolani usciti dalla Tebaide come un branco notturno di scarni mastini…», eruzione della lebbra che si annida nella società e nell’animo umano, del fanatismo che si ritrova in ogni tempo e luogo.
Mentre il suo, quello di lei, è «lo spettacolo più bello che l’umanità pura abbia mai potuto presentare». Quale sia nel film Agora e nel battage che l’accompagna vedano e giudichino gli spettatori.
Come istigatore della barbara operazione è indicato da alcune fonti il vescovo; la critica recente osserva più cauta e riflessiva degli sfoghi ottocenteschi che esse (lo storico costantinopolitano Socrate) non sono al di sopra di ogni sospetto e non garantiscono imparzialità assoluta. Certo rimane la tragedia del personaggio, una figura che sembra ancora intagliata, un po’ anacronisticamente, nello stampo degli alti spiriti dell’antichità. Tuttora, ai nostri giorni Mario Luzi introducendo e spiegando il suo testo teatrale Ipazia del ’72 si dichiarava suo prigioniero, preso da «una sorta di esaltazione» nei suoi riguardi, per la giovinezza? per la bellezza? per la scienza o per la fierezza? certamente assorbito dal carisma di colei che fu leader e anche enfant gâté del tardo neoplatonismo. C’è in questa donna, nella sua resistenza disperata, nel suo ascetismo monacale un che di romantico, e ne suscita nel tempo comparse e ricomparse sotto vari profili. Il suo discepolo e poi vescovo di Tolemaide, Sinesio, ne conserva ed esprime nella sua corrispondenza un ricordo devoto, guarda costantemente a lei come a una madre, a una sorella, alla maestra, a una benefattrice che lo ha introdotto nei «mistici festini» della filosofia. Un epigramma di Pallada di quegli stessi anni nell’ Antologia Palatina la «adora», lei e il suo «verbo», quale «stella immacolata» nel firmamento della cultura. In tempi moderni la sua popolarità fu rinverdita nell’Ottocento e non solo in Inghilterra da un romanzo di grande successo Ipazia o Nuovi nemici sotto un volto antico (1851) del reverendo Charles Kinsley, cappellano della regina Vittoria e professore di storia a Cambridge, esponente di quei «socialisti cristiani» e di quel «cristianesimo muscoloso» rigido e allora attivo in Inghilterra, a cui non piaceva nemmeno la conversione di Newman e che nella storia di Ipazia, nei suoi contorni e nei suoi personaggi trovava una vicenda metaforica ed esemplare. Su tutti si vada però a rileggere l’ispirato, profondo e inflessibile monito di Péguy con una sottile vena nostalgica, con l’ammirazione e la pietà per tutti i vinti espresse in un Cahier del 1907, e la sdegnata invettiva in una pagina di due anni prima contro i suoi carnefici, «sporchi monaci grossolani usciti dalla Tebaide come un branco notturno di scarni mastini…», eruzione della lebbra che si annida nella società e nell’animo umano, del fanatismo che si ritrova in ogni tempo e luogo.
Mentre il suo, quello di lei, è «lo spettacolo più bello che l’umanità pura abbia mai potuto presentare». Quale sia nel film Agora e nel battage che l’accompagna vedano e giudichino gli spettatori.
«Avvenire» del 18 aprile 2010
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