di Luca De Biase
Nei primi dieci anni del nuovo millennio, il mondo ha assistito a una fioritura eccezionale di iniziative nel sistema dell'informazione. Centinaia di milioni di persone hanno avviato i loro blog, scambiato notizie sui social network, condiviso immagini, mescolando le comunicazioni personali e le informazioni di rilevanza pubblica. Intanto, migliaia di nuovi giornali, web tv e piattaforme editoriali si sono presentati al pubblico. Alcune hanno trovato il successo, come dimostra il Pulitzer di ProPublica, il peso politico di Huffington Post, l'influenza di TechCrunch. Il pubblico ha adottato queste novità con interesse crescente. Sicché anche i flussi economici si sono modificati. Ma le novità non lo restano a lungo. E, dopo le scosse di assestamento, emergerà un assetto rinnovato della mediasfera. Quale ne sarà la forma?
Alla ricerca di interpretazioni, si affacciano due visioni alternative. La prima immagina l'informazione come un mercato: non è la benevolenza dei lettori che li porta a comprare i giornali, ma il loro interesse per ciò che offrono. La seconda vede l'informazione come un ecosistema: e qui, tra l'altro, è la benevolenza dei lettori e del pubblico attivo verso ciò che i giornali significano a sostenerli. Le due visioni convivono nella realtà. Ma il mercato si è trasformato. Perché è cambiata la sorgente del valore: la scarsità non è più nell'accesso allo spazio limitato dell'informazione, spiazzato dalla moltiplicazione delle alternative; la nuova scarsità è il tempo e l'attenzione del pubblico. Il baricentro si sposta dall'offerta alla domanda. E tocca all'offerta il compito di fare tutto il possibile per farsi adottare dal pubblico. Il che significa investire in ricerca, design e sperimentazione, trasformare il business in un processo innovativo, dimostrare che il servizio di generazione professionale di informazione può contribure alla valorizzazione dello spazio culturale comune alla comunità cui si rivolge. Un tempo si sarebbe chiamato opinione pubblica. Domani forse sarà l'intelligenza collettiva. Oggi è la costruzione di una prospettiva, contro il disorientamento.
E dunque ProPublica vince il Pulitzer. Huffington Post conquista un posto centrale nel dibattito politico americano. I blog TechCrunch, Gizmodo, Engadget diventano notiziari massimamente influenti nel loro settore. Iniziative "posteditoriali" esemplari che hanno colto con successo l'onda anomala della grande trasformazione generata dal terremoto delle tecnologie dei media digitali, accolte dal pubblico con tale entusiasmo da dimostrare che ne aveva bisogno. Tanto che nei primi dieci anni del nuovo millennio, il mondo ha assistito a una fioritura eccezionale di partecipazione al sistema dell'informazione. Centinaia di milioni di persone hanno avviato i loro blog, scambiato notizie e segnalazioni sui loro social network, condiviso foto, video, testi, mescolando a loro piacimento le comunicazioni personali e le informazioni di rilevanza pubblica. Talvolta – come nel caso del terremoto dell'Abruzzo o dell'attentato terroristico di Londra – con maggiore tempestività dei giornali tradizionali, i quali ne hanno dato conto aggiungendo a loro volta i servizi di approfondimento, controllo e verifica. Intanto, migliaia di nuove testate, web tv e piattaforme di aggregazione editoriale si sono offerte ai navigatori della rete, a livello locale e internazionale. Difficile giudicare tutto questo come "crisi" dell'editoria: in realtà è un'esplosione di speranze.
Ci si può chiedere quanto dureranno tutte queste novità. E se i giornali tradizionali resisteranno. Del resto, se lo chiedeva già nel 1999 Andy Grove, allora capo dell'Intel, che dava ai giornali di carta ancora soltanto tre anni di vita. Non è un caso che la sua previsione si sia rivelata sbagliata. L'interpretazione di un fenomeno come questo non va cercata in una linea inesistente dell'evoluzione tecnologica: va condotta con lo sguardo ampio, per quanto possibile, dello storico allenato a interrogarsi sulla dinamica dei fatti, evitando di sopravalutare le conseguenze di breve periodo ma anche di sottovalutare le conseguenze di lungo termine. Del resto, le novità non lo restano a lungo. E le tradizioni non sono eterne.
Anche se ogni periodo storico appare – giustamente – unico a chi lo vive, non è la prima volta che si assiste a una moltiplicazione di mezzi di informazione: la Rivoluzione francese, il 1848, il Dopoguerra, la liberalizzazione delle radio, i primi anni Ottanta delle tv commerciali. Quasi sempre si è visto che il sistema dei media assorbiva le novità e riadattava le vecchie soluzioni ai nuovi contesti. I giornali non sono finiti a causa della radio e la radio non è morta a causa della tv: semplicemente hanno trovato una nuova collocazione.
Il primo punto da chiarire, in proposito sta nel fatto che l'adattamento al nuovo avviene in questa fase non nella forma di una concorrenza diretta e lineare tra "prodotti editoriali", ma seguendo una dinamica più complessa di competizione-cooperazione. Che cosa fa il New York Times Magazine, cartaceo, quando pubblica l'inchiesta da Pulitzer di ProPublica, digitale? E che cosa fa il New York Times quando pubblica l'inchiesta sull'inquinamento del Pacifico finanziata da Spot.us? Firmano la loro condanna? No: fanno il loro mestiere. Che cosa fa la Bbc quando si informa su Twitter del terremoto all'Aquila, spiazza le agenzie? No: le pungola ma non potrebbe farne a meno. E i giornali online che accettano di farsi indicizzare da Google News sbagliano perché si lasciano sottrarre valore o fanno la scelta giusta perché ottengono in cambio una quota di traffico che altrimenti non avrebbero? In realtà, la dinamica emergente è simile a quella di un ecosistema nel quale ogni produttore di informazione coevolve in relazione a ogni altro. E trova il suo valore se serve all'insieme.
Per adattarsi, l'informazione professionale impara a mutare, a evolversi: investendo nella sperimentazione. E forse sviluppando una visione chiara, che ne definisce l'indispensabile servizio alla società: quello di offrire un'informazione metodologicamente trasparente, destinata a costruire e presidiare uno spazio culturale e organizzativo comune alla comunità cui si riferisce. In una società più stabile, quello spazio si sarebbe chiamato opinione pubblica. Oggi è il bisogno emergente di difesa contro il disordine mentale del populismo.
Testo tratto dall'intervento di Luca De Biase al Festival internazionale del giornalismo, in programma da oggi a Perugia
Alla ricerca di interpretazioni, si affacciano due visioni alternative. La prima immagina l'informazione come un mercato: non è la benevolenza dei lettori che li porta a comprare i giornali, ma il loro interesse per ciò che offrono. La seconda vede l'informazione come un ecosistema: e qui, tra l'altro, è la benevolenza dei lettori e del pubblico attivo verso ciò che i giornali significano a sostenerli. Le due visioni convivono nella realtà. Ma il mercato si è trasformato. Perché è cambiata la sorgente del valore: la scarsità non è più nell'accesso allo spazio limitato dell'informazione, spiazzato dalla moltiplicazione delle alternative; la nuova scarsità è il tempo e l'attenzione del pubblico. Il baricentro si sposta dall'offerta alla domanda. E tocca all'offerta il compito di fare tutto il possibile per farsi adottare dal pubblico. Il che significa investire in ricerca, design e sperimentazione, trasformare il business in un processo innovativo, dimostrare che il servizio di generazione professionale di informazione può contribure alla valorizzazione dello spazio culturale comune alla comunità cui si rivolge. Un tempo si sarebbe chiamato opinione pubblica. Domani forse sarà l'intelligenza collettiva. Oggi è la costruzione di una prospettiva, contro il disorientamento.
E dunque ProPublica vince il Pulitzer. Huffington Post conquista un posto centrale nel dibattito politico americano. I blog TechCrunch, Gizmodo, Engadget diventano notiziari massimamente influenti nel loro settore. Iniziative "posteditoriali" esemplari che hanno colto con successo l'onda anomala della grande trasformazione generata dal terremoto delle tecnologie dei media digitali, accolte dal pubblico con tale entusiasmo da dimostrare che ne aveva bisogno. Tanto che nei primi dieci anni del nuovo millennio, il mondo ha assistito a una fioritura eccezionale di partecipazione al sistema dell'informazione. Centinaia di milioni di persone hanno avviato i loro blog, scambiato notizie e segnalazioni sui loro social network, condiviso foto, video, testi, mescolando a loro piacimento le comunicazioni personali e le informazioni di rilevanza pubblica. Talvolta – come nel caso del terremoto dell'Abruzzo o dell'attentato terroristico di Londra – con maggiore tempestività dei giornali tradizionali, i quali ne hanno dato conto aggiungendo a loro volta i servizi di approfondimento, controllo e verifica. Intanto, migliaia di nuove testate, web tv e piattaforme di aggregazione editoriale si sono offerte ai navigatori della rete, a livello locale e internazionale. Difficile giudicare tutto questo come "crisi" dell'editoria: in realtà è un'esplosione di speranze.
Ci si può chiedere quanto dureranno tutte queste novità. E se i giornali tradizionali resisteranno. Del resto, se lo chiedeva già nel 1999 Andy Grove, allora capo dell'Intel, che dava ai giornali di carta ancora soltanto tre anni di vita. Non è un caso che la sua previsione si sia rivelata sbagliata. L'interpretazione di un fenomeno come questo non va cercata in una linea inesistente dell'evoluzione tecnologica: va condotta con lo sguardo ampio, per quanto possibile, dello storico allenato a interrogarsi sulla dinamica dei fatti, evitando di sopravalutare le conseguenze di breve periodo ma anche di sottovalutare le conseguenze di lungo termine. Del resto, le novità non lo restano a lungo. E le tradizioni non sono eterne.
Anche se ogni periodo storico appare – giustamente – unico a chi lo vive, non è la prima volta che si assiste a una moltiplicazione di mezzi di informazione: la Rivoluzione francese, il 1848, il Dopoguerra, la liberalizzazione delle radio, i primi anni Ottanta delle tv commerciali. Quasi sempre si è visto che il sistema dei media assorbiva le novità e riadattava le vecchie soluzioni ai nuovi contesti. I giornali non sono finiti a causa della radio e la radio non è morta a causa della tv: semplicemente hanno trovato una nuova collocazione.
Il primo punto da chiarire, in proposito sta nel fatto che l'adattamento al nuovo avviene in questa fase non nella forma di una concorrenza diretta e lineare tra "prodotti editoriali", ma seguendo una dinamica più complessa di competizione-cooperazione. Che cosa fa il New York Times Magazine, cartaceo, quando pubblica l'inchiesta da Pulitzer di ProPublica, digitale? E che cosa fa il New York Times quando pubblica l'inchiesta sull'inquinamento del Pacifico finanziata da Spot.us? Firmano la loro condanna? No: fanno il loro mestiere. Che cosa fa la Bbc quando si informa su Twitter del terremoto all'Aquila, spiazza le agenzie? No: le pungola ma non potrebbe farne a meno. E i giornali online che accettano di farsi indicizzare da Google News sbagliano perché si lasciano sottrarre valore o fanno la scelta giusta perché ottengono in cambio una quota di traffico che altrimenti non avrebbero? In realtà, la dinamica emergente è simile a quella di un ecosistema nel quale ogni produttore di informazione coevolve in relazione a ogni altro. E trova il suo valore se serve all'insieme.
Per adattarsi, l'informazione professionale impara a mutare, a evolversi: investendo nella sperimentazione. E forse sviluppando una visione chiara, che ne definisce l'indispensabile servizio alla società: quello di offrire un'informazione metodologicamente trasparente, destinata a costruire e presidiare uno spazio culturale e organizzativo comune alla comunità cui si riferisce. In una società più stabile, quello spazio si sarebbe chiamato opinione pubblica. Oggi è il bisogno emergente di difesa contro il disordine mentale del populismo.
Testo tratto dall'intervento di Luca De Biase al Festival internazionale del giornalismo, in programma da oggi a Perugia
«Il Sole 24 Ore» del 21 aprile 2010
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