Marco Travaglio e la sua vita da inquisitore nel ritratto di Marianna Rizzini
di Marianna Rizzini
Vita, opere, verbali e Weltanschauung del giornalista consacrato al giustizialismo. Un fuoriclasse convinto che siano sempre gli altri a dire “balle”
A Marco Travaglio non è piaciuto accendere la televisione nella quiete del sabato e vedere Silvio Berlusconi al funerale di Raimondo Vianello. Marco Travaglio il sabato si dev’essere ritratto orripilato con il telecomando ancora in mano, se la domenica, ancora colmo di basito sdegno, ha scritto sul Fatto che a quel funerale “imperversava dappertutto un altro comico, anzi un guitto tragicomico con le gote avvizzite e impiastricciate di fard fucsia e il capino spennellato di polenta arancione… era il presidente del Consiglio”. Marco Travaglio pensa che tra l’essere “politicamente un berlusconiano” (com’era Vianello secondo Travaglio e secondo Vianello) ed essere “antropologicamente e artisticamente un berlusconiano” (come Vianello secondo Travaglio mai fu) corra una differenza tale da far risaltare agli occhi “l’estremo oltraggio”: la presenza del premier alle esequie suddette. Sarà per questo che il martedì sul Fatto, giornale di cui Travaglio è cofondatore e azionista, è comparsa in prima pagina la foto (scandalo?) di Berlusconi che riceve l’eucarestia – “eppure ai divorziati risposati il sacramento della comunione è assolutamente negato”, recitava il sottotitolo. A Marco Travaglio, in seconda battuta, non è piaciuto neppure accendere la televisione e vedere, al medesimo funerale, “persino Lele Mora” incedere in un “festival di botulini e siliconi”. Non si sa in che cosa di preciso Lele Mora abbia infastidito Marco Travaglio – forse non è antropologicamente conforme ai suoi canoni di virtù.
A occhio, Lele Mora non dev’essersi fatto benvolere da Travaglio favorendo in tv la diffusione di un pettegolezzo assolutamente non veritiero sulla showgirl Ana Laura Ribas e Travaglio stesso – tutte illazioni senza fondamento, ché Travaglio non ha tempo per la mondanità ed è felicemente sposato e padre di famiglia (due figli educatissimi). Tutte “balle”, insomma, per dirla con un termine molto amato dal giornalista con più “balle” nei titoli dei suoi libri: “Le mille balle Blu” e, con leggera variante, “Palle mondiali”, cui si aggiunge “Il rompiballe”, titolo del libro intervista a Travaglio firmato da Claudio Sabelli Fioretti. Non è un mistero invece che la Ribas, politicamente e professionalmente pazza di Travaglio, avesse chiesto al giornalista Massimo Fini, amico comune, di intercedere per farle incontrare il suo idolo dal vivo anche solo per cinque minuti – l’abbiamo fatto tutti da ragazzini: papà ti prego di’ al tuo amico della Rai se mi trova un posto da Pippo Baudo che ci sono i Duran Duran. D’altronde anche Travaglio ha i suoi miti e non nasconde ai colleghi di essere un fan fervente dell’attrice Isabella Ferrari.
Fatto sta che è la seconda volta che Lele Mora appare a Travaglio in circostanze funebri – la prima fu alle esequie del comune conoscente Vittorio Corona, giornalista, padre del noto Fabrizio e antico collega di Travaglio alla Voce di Indro Montanelli. Chi era presente in chiesa ricorda un singolare trio avanzare in silenzio verso l’altare per la comunione: Marco Travaglio, Lele Mora e Massimo Donelli (“un’intera Italia in una sola fila”, dice la fonte anonima). Grande era il rispetto di Travaglio per Corona senior, tanto grande che ne ha beneficiato indirettamente anche Corona junior: un frequentatore di studi televisivi ricorda un saluto caloroso tra i due, nonostante Corona junior, idolo nero delle folle troniste – più che mai venerato nei giorni del carcere e del processo – sfoggi idee e abitudini non proprio in linea con il Travaglio che chiede trasparenza negli affari e manetta certa (ma quando gli danno di manettaro non sembra gradire e aggiunge: “Per chi la merita!”).
Quando maligne balle, secondo Travaglio, cadono su Travaglio, Travaglio solitamente dice “ci mancherebbe”, un “ci mancherebbe” rabbuiato e molto diverso dal “ci mancherebbe” educatissimo e torinesissimo che pronuncia quando qualcuno lo ringrazia di qualcosa, qualsiasi cosa, dall’intervista rilasciata a un giornale non amico all’invettiva contro i troppo molli difensori della Costituzione (i fan di Travaglio adorano il Travaglio che dipietrescamente borbotta contro il Quirinale). Di sicuro i fan di Travaglio hanno adorato l’editoriale del Fatto in cui il Marco editorialista stigmatizzava la firma “dell’undicesima legge vergogna” al grido di “chissà se” Napolitano “va a bere” al Vinitaly “per festeggiare o per dimenticare”. Ma forse era soltanto la solenne disapprovazione dell’astemio, ché Travaglio non tocca alcolico e predilige la Coca-Cola. C’è chi in passato ha affermato di averlo visto sorseggiare chinotto e aranciata a ora di pranzo, ma lui si è affrettato a smentire.
Quando Travaglio perde una causa per diffamazione, può capitare che la colpa ricada su altri (accadde a proposito di un articolo su Cesare Previti scritto da Travaglio sull’Indipendente: il responsabile della mancata assoluzione, spiegò Travaglio a Sabelli Fioretti, era appunto l’avvocato dell’Indipendente che aveva omesso di dimostrare il dimostrabile). I fan di Travaglio non si soffermano su simili dettagli e, a questo punto della storia d’Italia, raccontata nei suoi ultimi quindici anni da Travaglio a teatro, appenderebbero senza indugio il poster del divo Marco sul muro della cameretta. Basta andare alla presentazione di un libro dell’opinionista di Annozero – opinionista nel cui mondo è vietato mettere le opinioni davanti ai fatti – per vedere orde di ammiratori prostrarsi ai piedi dell’idolo che, spuntando aguzzo al di sopra della camicia bianca o celestina, gentilmente piega la testa, sorride, si sporge, stringe la mano e preferisce non fare foto (ma se gli ammiratori proprio insistono si concede). Poi l’idolo sgrana gli occhi, abbassa la fronte e si guarda attorno (“è un ex timido”, dice un giovane amico giornalista; “è contento di sé ma annoiato dagli altri”, dice un vecchio amico giornalista). Basta assistere a una replica della pièce-monologo “Promemoria”, da due anni in tournée, per vedere gente che si accalca all’ingresso degli artisti con la speranza di imbattersi nel Travaglio rockstar, magari solo per gridare la parola più pronunciata dai travaglisti: “Coraggio” (non si sa bene se è lode o esortazione). Certo è che Ruggero Cara, regista di “Promemoria”, si mostra estasiato da Travaglio almeno quanto le persone che si accalcano all’ingresso artisti. Alla domanda “come avete costruito lo spettacolo lei e Travaglio?” il regista parla con estrema reverenza di “un uomo di professionalità sconcertante”, di una rappresentazione-racconto lunga tre ore “costruita come una scommessa attorno allo scritto di un grande giornalista e di un grande narratore”, di simboli inequivocabili come “la zattera bianca della memoria” che coadiuvano “lo sforzo scenico di un non attore incredibilmente efficace” e di “un pubblico che contribuisce alla colorazione della tragicommedia che prende forma attraverso il racconto”. Pare che lo spettatore medio di Travaglio, a differenza dello spettatore medio di altri autori, non si azzardi a far scrocchiare in sala cartacce di patatine fritte (“non si sente nemmeno un colpo di tosse”, dice il regista).
Silenzio, applauso, “bravooo”, altro applauso, altro silenzio, qualche “vergoooogna” urlato al delinquente, mafioso, bugiardo o dittatore di turno, d’attualità o d’epoca cui Travaglio dedica brani del monologo: ecco la sequenza delle reazioni in sala o in strada quando a parlare è Marco Travaglio. E siccome qualsiasi cosa Travaglio tocchi diventa oro in senso letterale – pile di volumi intitolati “Regime” o “Inciucio” ornano, all’ennesima edizione, gli scaffali delle librerie, felici di ospitare colui che ha venduto più di un milione e mezzo di copie; picchi di audience premiano il conduttore che inviti il castigatore universale di “balle”; migliaia di biglietti se ne vanno per i suoi show-invettiva – gli imprenditori riconoscono a Travaglio il “fiuto per gli affari”. “Grande fiuto per gli affari, sì, e non è un delitto”, dice il signor Carlo Cimini, piccolo proprietario d’azienda che assicura di aver letto “tutti i saggi scritti da Travaglio negli ultimi dieci anni” e che, dopo qualche incursione in piazza ai V-day, ora vorrebbe iscriversi a uno dei gruppi pro Travaglio su Facebook (genere “Salvate il soldato Travaglio”). Ancora vivo nella memoria del signor Cimini è il giorno in cui ha avuto “l’onore di incontrare Travaglio in treno” – a quel punto Cimini non ha resistito e, pur non arrivando al punto di autopresentarsi al suo profeta, intento a leggere in un posto-corridoio, ha finto di andare al bar, gli è passato accanto e gli ha detto a mezza voce “complimenti”. Travaglio ha risposto come di consueto “grazie, ci mancherebbe” (il “ci mancherebbe” educatissimo e torinesissimo) e il signor Cimini oggi rimpiange di non aver aggiunto: “Dottor Travaglio, ricordi più spesso in tv che gli imprenditori non sono tutti marci”.
Travaglio in treno praticamente ci vive, e a volte capita – come ha scritto lo stesso Travaglio – che la sorte gli presenti proprio in treno un bel saltafosso. Che cosa fare infatti se, in piena nevicata e in pieno lancio dell’Eurostar no stop Milano-Roma, Marco Travaglio e decine di viaggiatori, dimentichi della mancanza di fermate intermedie, si accorgono troppo tardi di non poter scendere a Bologna? Non si può fare come il passeggero che nervosamente chiede al controllore di consentire l’eccezione solo per questa volta, vista la neve, pena l’immediato inserimento di Travaglio nella casella di chi predica bene la legalità e razzola male chiedendo la deroga. Non si può fare sebbene a Travaglio, scrive Travaglio, fosse venuto in quel frangente lo sghiribizzo di imitare il dirimpettaio di carrozza. La tentazione era tanta, e Travaglio, alla vista dell’attrice Francesca Neri che, nei pressi della toilette del convoglio, cercava di minimizzare la ferita provocatale da una testata contro un vetro troppo pulito, si era chiesto se non fosse il caso di sfruttare l’incidente per convincere il capotreno alla resa (la fermata a metà strada).
C’è da dire che Travaglio, oltreché in treno, vive pure in aereo, tanto che quando la nube vulcanica si è palesata nei cieli sopra Milano l’amico Peter Gomez si è trovato a dover rispondere al posto suo su Facebook: “Buongiorno, sono Peter Gomez, Marco Travaglio è stato bloccato dall’eruzione islandese, non perché si trovi in Islanda, ma perché si trovava in giro per l’Italia per una serie di presentazioni, quindi oggi cercherò di parlarvi io delle cose di cui vi avrebbe parlato Marco”. Chi frequenta gli aeroporti (tratta Torino-Roma o Milano-Roma) può facilmente scorgere Travaglio seduto davanti al gate, con i giornali sulle ginocchia, intento a strappare con estrema cura un articolo indispensabile per il suo archivio – non si sa mai. Scene di delirio divistico travaglista su un volo Torino-Roma si sono invece offerte agli occhi di Massimo Massano, editore del Borghese ai tempi in cui al Borghese dirigeva Daniele Vimercati e redigeva, tra gli altri, un giovane Travaglio: “Non squatter o strani figuri ma noti personaggi e addirittura un costruttore si alzavano in volo per andare a omaggiare Marco”, racconta Massano con la mente agli anni in cui Travaglio “chiudeva da solo mezzo Borghese, lavoratore indefesso quale è”. Accadeva allora che Massano si presentasse in riunione di redazione facendo presente a Vimercati che gli articoli di Travaglio e Massimo Fini facevano perdere “ogni volta mille copie”. Accadeva pure, dice Massano, che Travaglio “si facesse comprensivo e capisse che i suoi pezzi erano eccentrici per le aspettative dei lettori del Borghese”. All’epoca, racconta l’editore, Travaglio “non aveva ancora avviato la carriera di anti-Berlusconi. Poi ha trovato una chiave professionale che gli porta fama e guadagni – anche se si schermisce dicendo ‘se non mi portano via tutto con le querele’ – e ha assunto un ruolo anche politico che cavalca con successo. Pur non condividendo le sue idee, continuo a stimarlo molto come professionista”. Al Borghese in ogni caso finì presto: “Travaglio ce lo scipparono”, dice Massano rispolverando una gara di contratti giornalistici: “Il Borghese offriva l’articolo 1, Repubblica l’articolo 2”. Travaglio scelse il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari.
Se non ci fossero gli aerei, la memoria di Travaglio, a suo agio negli archivi, non troverebbe il pane che trova persino nel tempo libero-obbligato tra una presentazione e l’altra, perché è in aereo che Travaglio stuzzica vecchi colleghi e vecchi amici alla gara dell’aneddoto – Alba Parietti, ex compagna di asilo ed elementari nella natìa Torino, dice di aver riportato alla mente episodi dimenticati grazie a Marco che un giorno in volo le ha “ricordato tutto” (sorge il dubbio che Travaglio si sia ispirato al Nanni Moretti di “Bianca”, munito di schedario su vicini e conoscenti). La piccola Alba e il piccolo Marco erano entrambi allievi delle suore, entrambi “infatuati della meravigliosa suor Nazarena”, dice Parietti, e frequentavano gli stessi giardinetti. Marco, di qualche anno più giovane di Alba, appariva a quell’epoca “uguale a ora, con qualche capello in più”, ed era molto dispettoso. I due, passati dall’asilo alle elementari “Gaspare Gozzi”, frequentavano “una zona elegante della città, nei pressi di Corso Quintino Sella”, e il pomeriggio si ritrovavano “nel parco al centro della grande piazza”. Appena passava Alba Parietti, già appariscente, già un po’ ragazza, Marco Travaglio e i suoi amici – tutti più piccoli di lei – tiravano pallonate. Marco era “magro e riservato”. Alba “se la tirava un po’”. Alba oggi pensa che Marco “indossi la maschera da cattivo, ma in realtà sia un caro amico e un vero torinese: impenetrabile e aristocratico”. Di sicuro c’è che Marco, crescendo, non ha abbandonato due tipiche abitudini da giardinetto: lo sfottò sui difetti fisici (da Al Tappone-Berlusconi in giù) e la mania di appioppare appellativi di non sempre sicuro effetto comico. E insomma non si capisce come mai nel mondo di Marco Travaglio la gente, i luoghi e i gruppi politici non compaiano quasi mai col proprio nome. Ecco allora James Bondi, Anna La Garofana, Lucky Luciano (Luciano Moggi), Polito Margherito, Zebra nel Pugno, Angelo Panegrigio, Viale Pizzini, “quello con le méches” (il giornalista Filippo Facci).
Va detto che non ci si salva neppure quando Travaglio fa i nomi per esteso – ne sanno qualcosa Walter Veltroni (uno che secondo Travaglio era “in coma vigile” agli albori del Pd), Gianni Cuperlo (definito “uno sfigato”), Giovanni Floris (a lungo chiamato “Vespino”, con somma disapprovazione per Vespa) e Fausto Bertinotti (a lungo additato per la partecipazione a feste nobiliari e per l’amicizia della moglie con Valeria Marini). Lui, invece, Marco Travaglio, appare pressoché intoccabile, sebbene non ancora intoccabile quanto Roberto Saviano – persino i nemici di Travaglio, interpellati, premettono “sia chiaro che nutro una grande stima professionale per lui” (un osservatore burlone nota: “Ti credo, quelli magari pensano: ‘Chissà che cosa tira fuori dall’archivio, con o senza montaggio creativo’”). L’intoccabile Travaglio arriva nello studio di Annozero con il quadernino degli appunti in mano, serissimo, e il pubblico esplode in boati di puro amore – a Michele Santoro arrivano caldi ma più contenuti applausi. L’intoccabile Travaglio si rende spesso impermeabile all’ironia (non la sua, profusa in ogni direzione con mannaia pignola, bensì quella proveniente dai suoi detrattori, considerata il più delle volte vile offesa o balla tra le balle). Pochi, ma degni di nota, i cedimenti di umana vanità: Travaglio mette cravatte enormi, compra giacche spallute e taglia i capelli che un giorno Maria Laura Rodotà definì con orrore “lunghi dietro”. A volte Travaglio è colto da impeto hollywoodiano. Dice: “Nel tempo libero se voglio cazzeggiare cazzeggio” e infatti quando va nello studio di Victoria Cabello bacia tutti, si fa truccare come un attore, si guarda nello specchio senza sorridere, controlla lo stato del fondotinta, si traveste da Robespierre o da russo col colbacco e balla con contorsioni rigide e piegamenti ingessati nel video-parodia di “Cerco un centro di gravità permanente” – forse perché è amico di Franco Battiato. Franco Battiato comunque ha ricambiato (pare infatti che un giorno abbia detto: “Sono un Marco Travaglio un po’ più bastardo”).
A monte dell’intoccabilità, Travaglio ha attraversato un’infanzia studiosa e devota con papà ingegnere e mamma dell’Azione cattolica che guardavano con disapprovazione i “ladroni”, anzi i “latroni” (con accento torinese) che “cominciavano a vedersi in Italia”. Questo almeno racconta un amico di famiglia (e dunque pare di famiglia l’ossessione in scala industriale per i veri o presunti lestofanti che popolano l’universo travagliesco). D’inverno si andava in parrocchia e d’agosto, in cerca di frescura, si trascorreva qualche giorno nella frazione di San Martino di Castiglione Torinese, in una casa non appariscente e non distante dalla tenuta di un cognato degli Agnelli. Il piccolo Marco e suo fratello Franco cantavano, leggevano e suonavano in chiesa, “composti e gentilissimi”. Marco ha portato avanti l’impegno parrocchiale facendo talvolta il catechista, Franco ha continuato a suonare anche in età adulta, non per la chiesa ma per il teatro – sul suo curriculum c’è scritto “compositore e creatore di liriche per musical” (dal “Fantasma dell’Opera” a “Jesus Christ Superstar”), “regista di pop-opere dedicate a Marilyn Monroe” e “assistente alla regia” con Dario Fo. Tutto si tiene, ché pure Marco, come il fratello, adora la coppia Dario Fo-Franca Rame e pure Franco, come il fratello, ha collaborato a Repubblica.
Troppo grande per continuare a tirare pallonate ad Alba Parietti, il Marco Travaglio dei giardinetti divenne, al liceo, il Marco Travaglio ossessionato dai fatti (non sono bravo io, dice oggi, sono gli altri che si fermano alle opinioni). All’istituto salesiano Valsalice, infatti, il giovane Marco, ragazzo dinoccolato che vestiva senza troppe concessioni alla moda, era noto per la memoria formidabile sulle date in storia e sui dati in geografia, cosa che gli tornò utile nei primi anni di carriera giornalistica al settimanale cattolico il Nostro Tempo, quando al momento opportuno se ne usciva con tabelle aggiornatissime paese per paese. Nel mastodontico edificio Valsalice, arroccato in cima a una collina, in un’ala del palazzo a ferro di cavallo circondato dagli alberi, Travaglio aveva studiato il latino e il greco e si era preparato con sforzo matto e disperatissimo alla doppia laurea storico-letteraria (ma a voler interpellare gli ex professori sui trascorsi scolastici dell’ex alunno ci si imbatte in una sequela di amabili e prudenti “niet”: “Il professore non c’è”, “ho lasciato detto ma il professore forse non ha visto l’appunto”, “la farò richiamare se il professore decide che è il caso di parlare”). Poi Marco incontrò (tramite ambienti catechistici) la futura moglie Isabella, ragazza gentile e sobria – anche il matrimonio fu gentile, sobrio e poco alcolico, su un colle ai margini della città. Ai tempi in cui Marco cominciava a collaborare al Nostro Tempo, sotto la direzione di Domenico Agasso e Maria Pia Bonanate, la giovane Isabella era impiegata in un’agenzia viaggi nel centro di Torino. Marco scendeva a rotta di collo con una Panda rossa piena di carte e borsoni giù dalla collina di Chieri, andava a prendere Isabella o si industriava per qualche articolo. A turno con altri giovani redattori, faceva il ragazzo di bottega che assembla pagine, scrive pezzi, mette titoli, compila didascalie. Nello stesso palazzo, in Corso Matteotti 11, aveva sede Telesubalpina. Uno degli intervistati abituali della piccola tv, Massimo Introvigne, si ritrovò un giorno in studio un Marco Travaglio che faceva domande sulla musica satanica, oggetto di una ricerca dello stesso Introvigne – il quale tempo dopo, durante una tavola rotonda, fu colpito da quella che oggi chiama “metamorfosi di Travaglio da ragazzo semplice a simil-aristocratico che disprezza ‘er Pecora’”.
Negli anni degli esordi torinesi Travaglio, allora amico di Mario Giordano, si occupava soprattutto di esteri. Poi, con il passaggio al Giornale, di calcio – Giordano, che all’epoca era il “secondo” di Travaglio, ricorda le domeniche di spogliatoio al seguito della squadra minore, con Travaglio a tallonare la squadra maggiore. Fu in quegli anni che Travaglio cominciò a collezionare le “fanfaluche dei cronisti sportivi poi oggetto di due suoi libri”, ricorda l’ex collega Beppe Fossati, allora corrispondente da Torino (con Travaglio vicecorrispondente). In anni più recenti, lo juventino Travaglio è stato visto allo stadio a “gufare” la Juve in segno di protesta contro la triade Moggi-Bettega-Giraudo – ed è stato in chiave anti Moggi che, due giorni fa, Travaglio ha scritto sulla sua personale lavagna dei cattivi i nomi di Piero Ostellino, Beppe Severgnini e Pierluigi Battista, con il giudizio seguente: “Come se un giornalista, solo perché parla di calcio, potesse ridursi a trombetta della squadra del cuore, a prescindere dai fatti”.
Travaglio e Giordano a Torino erano amici, Travaglio e Fossati pure – poi Travaglio ha paragonato il Giornale diretto da Giordano a Topolino, e ha descritto il Fossati d’antan come “un bravo e simpatico” scansafatiche che lo faceva scrivere al posto suo dandogli cinquantamila lire. C’è da dire che Fossati, interpellato in proposito, ci ride su: “Nonostante quella battuta, io lo stimo molto. E’ un bravo inquisitore. Me lo ricordo come un ragazzo sveglio, volenteroso, spiritoso. Per me era come un fratello minore. L’ho perso di vista quando è diventato professionista, e negli anni ci siamo incontrati poco. ‘Ciao Beppone’ mi diceva ogni volta che ci si incrociava”.
Qualcuno a Torino ricorda un Travaglio che si occupa di economia anche nel pieno della partita Berlusconi-De Benedetti, con toni non teneri verso Carlo De Benedetti (Travaglio però su De Benedetti ha pronta la frase: ha avuto i suoi guai con la giustizia ma ha ammesso quel che doveva ammettere). La fissazione giudiziaria, per Travaglio, si sedimentò dopo l’incontro con Marcello Maddalena e si nutrì delle conversazioni tra colleghi alla redazione locale di Repubblica – si mangiava alla stessa tavola, si faceva sport (“affittavamo un campo al Circolo della stampa, e Marco arrivava trafelato, spesso in ritardo”, racconta l’ex collega Davide Banfo) e si confrontavano dati sul processo Fiat, oggetto di un libro di Marco Travaglio e Paolo Griseri.
Soltanto al Giornale di Indro Montanelli Travaglio si fece notare anche come riepilogatore di fatti e recuperatore di citazioni. L’allora vicedirettore Paolo Granzotto fornisce l’esempio pratico: “Crollava una diga e Travaglio in men che non si dica scriveva un pezzo su tutte le dighe crollate negli ultimi vent’anni. Saliva agli onori delle cronache un politico e Travaglio aveva pronte tutte le frasi dette dal politico nel decennio appena trascorso. Montanelli era molto soddisfatto”. Sia Paolo Granzotto che Mario Cervi ricordano un Travaglio “talentuoso”, “ambizioso” e già propenso ad autoeleggersi se non allievo di Montanelli – guai a dirlo: Travaglio dice che nessuno può essere allievo di Montanelli – quantomeno uno dei pochi e forse l’unico fedele esegeta e seguace di Montanelli. Sul rapporto Montanelli-Berlusconi Travaglio ha scritto un libro di quattrocento e passa pagine (“Montanelli e il Cavaliere”) con citazioni iniziali di Leonardo Sciascia, Giorgio Gaber e Alexis de Tocqueville e con introduzione autobiografica e nostalgica sul primo incontro con Indro: lo scrittore Giovanni Arpino portò il giovane Travaglio a Milano in treno a conoscere “il Vecchio”, mangiarono al ristorante, il Vecchio quando si vide davanti Travaglio lo chiamò immediatamente “mammòzio” e Travaglio, già grato di quell’attenzione burbera e affettuosa, ammutolì e quasi ebbe un mancamento di fronte a un simile esempio di giornalismo (fu sentendo parlare il Vecchio, dice un amico di Travaglio, che Travaglio prese il vezzo di adoperare il termine dimenticato “strologare”). Il resto, si legge nel volume, è grande onore e ancora grande onore di collaborare con il Vecchio, è il Vecchio nel suo ufficio con il merlo regalatogli da Angelo Rizzoli, è “mobbing” dal Cavaliere, è lacrime e melodramma dei redattori di fronte al Vecchio che lascia la direzione e gioia immensa quando il Vecchio porta con sé il giovane Travaglio alla Voce. Esistono altre versioni, compresa quella dell’allora vicedirettore Granzotto, sulla fine dell’esperienza montanelliana al Giornale (una versione che diverge dalla tesi del “mobbing”, con cronaca dell’assemblea dell’8 gennaio 1994, giorno in cui Berlusconi intervenne davanti alla redazione). Esiste un filmato santoriano in cui Montanelli telefona alla trasmissione “Il Raggio Verde” e dà ragione a Travaglio. Esiste un’intervista fatta da Laura Laurenzi a Montanelli nel 2001, in cui Montanelli si riferisce alla versione di Granzotto e dice: “Paolo Granzotto scrisse un resoconto di come erano andate le cose. Ecco: andatevi a rileggere quella cronaca, coincide esattamente con le cose come le ho raccontate io”. Esiste la contestazione di Travaglio a Granzotto nella riedizione di “Montanelli e il Cavaliere”: Granzotto non fu “testimone oculare esclusivo”, scrive Travaglio; Montanelli quel giorno non voleva far salire in redazione il Cavaliere, aggiunge Travaglio citando l’ex capo del comitato di redazione Novarro Montanari.
Sia come sia, esiste soprattutto un Travaglio che dalla morte di Montanelli in poi parla da erede spirituale dell’unico “vero liberale” – a una commemorazione montanelliana a Perugia, ricorda Mario Cervi, Travaglio prese la parola e raccontò di quando Montanelli, accompagnato dal Berlusconi nel “mausoleo” di Arcore, si produsse “in scongiuri piuttosto plateali di fronte al Cavaliere che proponeva di riservargli una tomba accanto ai suoi cari”. “Travaglio non è da sottovalutare né come talento né come spregiudicatezza”, dice Cervi. Quanto alle prefazioni (due) che Montanelli scrisse per Travaglio, c’è chi dice, tra i vecchi colleghi, che “Montanelli era troppo buono e non sapeva dire no” e chi invece assicura che “Montanelli voleva un bene dell’anima a Travaglio e lo stimava moltissimo”. A ogni modo, nella prefazione del 1995 al travagliesco “Il Pollaio delle Libertà”, ripubblicata dallo stesso Travaglio, Montanelli prende in giro l’ex cronista tuttofare, definito scherzosamente un “grande inquisitore da far impallidireVishinsky”, e si diverte attorno al suo misterioso archivio: sarà per non doverlo trasferire che Travaglio, “ragazzo allegro, disposto a qualsiasi servizio di cronaca”, si è sempre rifiutato di traslocare da Torino a Milano?
Federico Orlando, ora condirettore di Europa e allora condirettore del Giornale e della Voce, ricorda un Travaglio “che da Torino inviava ottime corrispondenze sulla Fiat, tanto che ricevemmo sollecitazioni a calmarlo”. Travaglio dice sempre che Montanelli non si piegò neppure alla Fiat e, con somma soddisfazione, si definisce un giornalista che non ha avuto paura di parlare di Fininvest, di Fiat e di Massimo D’Alema (sottinteso: l’unico o quasi l’unico). Ci fu un giorno in cui Travaglio, collaboratore dell’Unità, salì su un palco girotondino e, parlando di governo D’Alema, disse (con poco piemontese sfoggio di parolaccia): “Sono entrati a Palazzo Chigi con le pezze al culo e ne sono usciti ricchi”. Il Corriere della Sera corse a intervistare i colleghi di Travaglio all’Unità (non il direttore Furio Colombo che intanto aveva messo in pagina un’intervista di D’Alema), con il risultato di riportare questo commento del caporedattore esperto Nuccio Ciconte, ora caporedattore al travagliesco Fatto: “Se Travaglio dice che D’Alema e i suoi furono dei disonesti deve spiegarci come e perché. Deve fare il giornalista, se no…”.
Vecchie storie, comunque. Oggi Ciconte e Travaglio convivono senza problemi al Fatto, dove Travaglio, fiero di stare nell’open space, giunge il giovedì, prima di Annozero. Con la mente invece è presente tutti i giorni e più che altro nottetempo, quando ingolfa la casella mail dei redattori con note di commento ai pezzi o con suggerimenti divisi per competenza (Travaglio di pomeriggio presenta libri, fino alle cinque del mattino lavora e fino a mezzogiorno dorme). Chi frequenta il Fatto descrive un Travaglio ansioso “di far lavorare i giovani” e desideroso di parlare di cinema con i giovani – soprattutto di Woody Allen.
Fatto salvo l’episodio delle “pezze al culo”, Travaglio all’Unità di Colombo e Padellaro si trovò benissimo, talmente bene che alla nomina di Concita De Gregorio scrisse un’invettiva contro Renato Soru: “L’editore dovrebbe spiegare in maniera chiara e trasparente, ai lettori e alla redazione dell’Unità, i motivi per i quali Antonio Padellaro lascia la direzione del quotidiano… di solito i direttori vengono mandati via se hanno fatto male, per la linea editoriale o per i conti. Sui conti, nulla si può rimproverare a Padellaro, costretto a fare un giornale con quattro soldi, le classiche nozze con i fichi secchi. Non riesco a capire quali siano le ragioni per le quali Padellaro debba andar via. La parola multimedialità non mi dice niente e, anzi, mi fa venire l’orticaria”. Travaglio aggiunse anche la frase “il problema non riguarda Concita De Gregorio, ottima giornalista”, fosse mai che qualcuno potesse alambiccare su una sua riserva sulla medesima.
Nella vita di Marco Travaglio ci sono due costanti: il tennis e le vacanze con il pm Antonino Ingroia. A volte può comparire, come variante, una piscina; a volte Travaglio si adombra a sentir parlare delle sue vacanze (anzi di “ferie”, come le chiama lui forse in omaggio alla Torino delle fabbriche chiuse d’agosto). Passi per la vacanza di Travaglio con moglie e figli e Ingroia nella località turca di Bodrum, l’antica Alicarnasso, oggi meta di aspiranti passeggeri di caicchi, tedeschi in cerca di sole e visitatori di caravanserragli in pantaloncini corti. A quella vacanza fece accenno Filippo Facci su Libero, in risposta a una lettrice che, avendo notato Ingroia e Travaglio seduti allo stesso tavolo di un ristorante in corso D’Azeglio a Torino, aveva pensato “che i due, alla faccia dell’imparzialità della magistratura”, potessero, tra una portata e l’altra, discorrere degli argomenti dei libri di Travaglio. Sulla vacanza in Sicilia, però, Marco Travaglio non tollera. Il tutto ebbe origine non da un articolo di Facci bensì da un articolo del 2008 di Giuseppe D’Avanzo, vicedirettore di Repubblica (giornale con cui Travaglio allora collaborava). Travaglio era stato in tv da Fabio Fazio e aveva parlato di Renato Schifani e di presunte amicizie in odor di mafia. A quel punto D’Avanzo tirò fuori la vacanza sicula per contestare a Travaglio un “metodo di lavoro” da “agenzia del risentimento” (“Travaglio declina la conoscenza di Schifani con un tizio, quattro anni dopo indagato per mafia, come prossimità alla mafia”, scrisse). Il problema della vacanza non stava nelle località scelte da Travaglio e Ingroia nel 2002 e nel 2003 – trattavasi di due ridenti stazioni frequentate, dice un locale, “soprattutto dagli impiegati di Bagherìa”: Altavilla Milicia, zona di agrumeti, spiagge sabbiose e colline lussureggianti, e Trabìa, zona di produzione intensiva di spaghetti. Il problema stava bensì nel terzo villeggiante, il maresciallo della Finanza Pippo Ciuro, compagno di stanza di Ingroia al palazzo di giustizia di Palermo, successivamente condannato per aver favorito un prestanome di Bernardo Provenzano.
Ad Altavilla e Trabìa, nelle sere d’agosto, si andava a cena insieme, si chiacchierava a bordo piscina e ci si scambiava, all’occorrenza, macchinette del caffè e cuscini – merce rara in un residence dove già erano passate orde di vacanzieri selvaggi. Travaglio ignorava che Ciuro fosse già oggetto di indagine, Ingroia, si è poi scritto, doveva far finta di nulla per non compromettere le indagini (e Ciuro, in un recente colloquio palermitano riportato da Facci su Libero, ha detto che a quei tempi neppure Ingroia sapeva). Travaglio, dopo la pubblicazione dell’articolo di D’Avanzo, dimostrò online, con tanto di numero di assegno e di transazione Diners, che, al contrario di quanto era stato ventilato, il favoreggiatore di Provenzano non gli aveva mai offerto il soggiorno siciliano (pagato da Travaglio fino all’ultimo centesimo e persino, scrisse Travaglio, in una cifra superiore a quella pattuita). D’Avanzo disse di aver tirato fuori la storia in omaggio al principio del “tu quoque” (dopo aver appunto sentito Travaglio parlare di Schifani): “Aver trascorso una vacanza con un tipo che poi si è rivelato un criminale, e dunque in piena innocenza e senza alcuna consapevolezza, vuol dire davvero essere per riflesso un criminale?”, scrisse il vicedirettore di Repubblica.
Più di un lettore, nel frattempo, fu catturato da futili dettagli: la vacanza in quel residence isolano costava pochissimo, circa mille euro per quattro persone, roba da fiondarsi in massa, mentre l’albergo a cinque stelle era veramente troppo esoso, come assicurava Travaglio. Tutto pareva in teoria sistemato (persino Ciuro, nel suddetto colloquio con Facci, oggi dice che la faccenda delle ferie pagate a Travaglio dal favoreggiatore di Provenzano “è una minchiata di quelle grosse”). In pratica, però, a Travaglio non piace sentire la frase “dai, sarà capitato anche a te di frequentare persone che non si sarebbero dovute frequentare”. Nicola Porro, del Giornale, l’ha detta durante una puntata di Annozero in cui Travaglio contestava a Guido Bertolaso il non aver vigilato su chi sedeva nella stanza a fianco. Senza rimedio, l’arrabbiatura di Travaglio contro Porro e contro Maurizio Belpietro si è estesa quasi quasi pure a Michele Santoro che, smussando e smitizzando, non aveva difeso il suo opinionista a spada tratta (seguiva scambio di lettere aperte Travaglio-Santoro sul Fatto).
Cose che non succedono, queste, a bordo campo (da tennis). Perché il tennis per Travaglio è terreno idilliaco, fatto di rare pause al circolo e partite in doppio con l’amico Claudio Sabelli Fioretti contro Giancarlo Caselli e Salvatore Bragantini. Travaglio e Sabelli si conoscono da quando Sabelli dirigeva Cuore, si presentano reciprocamente i libri e restano in contatto a distanza (vivono in città diverse). Sabelli dice che i libri di Travaglio “uscivano nel silenzio generale delle sezioni politiche e culturali dei quotidiani. Scalavano le classifiche senza che nessuno ne parlasse. Marco girava come una trottola facendo anche tre o quattro presentazioni al giorno. Il suo successo se l’è conquistato da solo e non deve ringraziare nessuno. Avrebbe potuto montarsi la testa ma non l’ha fatto”. La prima intervista di Sabelli a Travaglio (per il Magazine del Corriere) si svolse, racconta Sabelli, “il giorno di Ferragosto, a casa mia in montagna sotto una grande betulla”. La seconda intervista, per il libro “Il rompiballe”, a casa di Travaglio “sulle colline di Superga”. Visto dal lato Sabelli, Travaglio è “sempre stato amichevole, sereno, tranquillo, sicuro di sé, forte di una memoria di ferro. Si vede che è felice del lavoro che fa, contento del successo e anche della visibilità che ottiene. Ha un grande senso del ritmo e dei tempi comici”.
Tra mille lodi, giunge a Travaglio da Sabelli un unico mite appunto: “Ultimamente appare più opinionista che cronista. Io lo preferisco quando riporta, registra, ricorda. Quando non consente alla gente di raccontare bugie grazie alla sua incredibile memoria”.
Chi non ha la memoria di Travaglio ricorda a spanne che Travaglio, oggi estimatore di Gianfranco Fini, anni fa parlò di una metamorfosi di Fini da “camerata a cameriere” e che Travaglio, un tempo elettore della Lega, ha più volte scelto nell’urna Antonio Di Pietro – adesso però preferisce Beppe Grillo e Luigi De Magistris. Soprattutto, oggi Travaglio si sente “ospite” della sinistra extra Pd. “E come fa?”, si chiede un vecchio conoscente, sottolineando “la deliziosa tortura cui si sottopone Travaglio trascorrendo le sue giornate in mezzo a schiere di neo gruppettari post sessantottardi modello Sabina Guzzanti. Come fa a reggere, lì, lui che è una specie di signor Veneranda, di destra in senso piemontese, tutto legge, ordine, rigore, guardie, ladri e frugalità?”.
A occhio, Lele Mora non dev’essersi fatto benvolere da Travaglio favorendo in tv la diffusione di un pettegolezzo assolutamente non veritiero sulla showgirl Ana Laura Ribas e Travaglio stesso – tutte illazioni senza fondamento, ché Travaglio non ha tempo per la mondanità ed è felicemente sposato e padre di famiglia (due figli educatissimi). Tutte “balle”, insomma, per dirla con un termine molto amato dal giornalista con più “balle” nei titoli dei suoi libri: “Le mille balle Blu” e, con leggera variante, “Palle mondiali”, cui si aggiunge “Il rompiballe”, titolo del libro intervista a Travaglio firmato da Claudio Sabelli Fioretti. Non è un mistero invece che la Ribas, politicamente e professionalmente pazza di Travaglio, avesse chiesto al giornalista Massimo Fini, amico comune, di intercedere per farle incontrare il suo idolo dal vivo anche solo per cinque minuti – l’abbiamo fatto tutti da ragazzini: papà ti prego di’ al tuo amico della Rai se mi trova un posto da Pippo Baudo che ci sono i Duran Duran. D’altronde anche Travaglio ha i suoi miti e non nasconde ai colleghi di essere un fan fervente dell’attrice Isabella Ferrari.
Fatto sta che è la seconda volta che Lele Mora appare a Travaglio in circostanze funebri – la prima fu alle esequie del comune conoscente Vittorio Corona, giornalista, padre del noto Fabrizio e antico collega di Travaglio alla Voce di Indro Montanelli. Chi era presente in chiesa ricorda un singolare trio avanzare in silenzio verso l’altare per la comunione: Marco Travaglio, Lele Mora e Massimo Donelli (“un’intera Italia in una sola fila”, dice la fonte anonima). Grande era il rispetto di Travaglio per Corona senior, tanto grande che ne ha beneficiato indirettamente anche Corona junior: un frequentatore di studi televisivi ricorda un saluto caloroso tra i due, nonostante Corona junior, idolo nero delle folle troniste – più che mai venerato nei giorni del carcere e del processo – sfoggi idee e abitudini non proprio in linea con il Travaglio che chiede trasparenza negli affari e manetta certa (ma quando gli danno di manettaro non sembra gradire e aggiunge: “Per chi la merita!”).
Quando maligne balle, secondo Travaglio, cadono su Travaglio, Travaglio solitamente dice “ci mancherebbe”, un “ci mancherebbe” rabbuiato e molto diverso dal “ci mancherebbe” educatissimo e torinesissimo che pronuncia quando qualcuno lo ringrazia di qualcosa, qualsiasi cosa, dall’intervista rilasciata a un giornale non amico all’invettiva contro i troppo molli difensori della Costituzione (i fan di Travaglio adorano il Travaglio che dipietrescamente borbotta contro il Quirinale). Di sicuro i fan di Travaglio hanno adorato l’editoriale del Fatto in cui il Marco editorialista stigmatizzava la firma “dell’undicesima legge vergogna” al grido di “chissà se” Napolitano “va a bere” al Vinitaly “per festeggiare o per dimenticare”. Ma forse era soltanto la solenne disapprovazione dell’astemio, ché Travaglio non tocca alcolico e predilige la Coca-Cola. C’è chi in passato ha affermato di averlo visto sorseggiare chinotto e aranciata a ora di pranzo, ma lui si è affrettato a smentire.
Quando Travaglio perde una causa per diffamazione, può capitare che la colpa ricada su altri (accadde a proposito di un articolo su Cesare Previti scritto da Travaglio sull’Indipendente: il responsabile della mancata assoluzione, spiegò Travaglio a Sabelli Fioretti, era appunto l’avvocato dell’Indipendente che aveva omesso di dimostrare il dimostrabile). I fan di Travaglio non si soffermano su simili dettagli e, a questo punto della storia d’Italia, raccontata nei suoi ultimi quindici anni da Travaglio a teatro, appenderebbero senza indugio il poster del divo Marco sul muro della cameretta. Basta andare alla presentazione di un libro dell’opinionista di Annozero – opinionista nel cui mondo è vietato mettere le opinioni davanti ai fatti – per vedere orde di ammiratori prostrarsi ai piedi dell’idolo che, spuntando aguzzo al di sopra della camicia bianca o celestina, gentilmente piega la testa, sorride, si sporge, stringe la mano e preferisce non fare foto (ma se gli ammiratori proprio insistono si concede). Poi l’idolo sgrana gli occhi, abbassa la fronte e si guarda attorno (“è un ex timido”, dice un giovane amico giornalista; “è contento di sé ma annoiato dagli altri”, dice un vecchio amico giornalista). Basta assistere a una replica della pièce-monologo “Promemoria”, da due anni in tournée, per vedere gente che si accalca all’ingresso degli artisti con la speranza di imbattersi nel Travaglio rockstar, magari solo per gridare la parola più pronunciata dai travaglisti: “Coraggio” (non si sa bene se è lode o esortazione). Certo è che Ruggero Cara, regista di “Promemoria”, si mostra estasiato da Travaglio almeno quanto le persone che si accalcano all’ingresso artisti. Alla domanda “come avete costruito lo spettacolo lei e Travaglio?” il regista parla con estrema reverenza di “un uomo di professionalità sconcertante”, di una rappresentazione-racconto lunga tre ore “costruita come una scommessa attorno allo scritto di un grande giornalista e di un grande narratore”, di simboli inequivocabili come “la zattera bianca della memoria” che coadiuvano “lo sforzo scenico di un non attore incredibilmente efficace” e di “un pubblico che contribuisce alla colorazione della tragicommedia che prende forma attraverso il racconto”. Pare che lo spettatore medio di Travaglio, a differenza dello spettatore medio di altri autori, non si azzardi a far scrocchiare in sala cartacce di patatine fritte (“non si sente nemmeno un colpo di tosse”, dice il regista).
Silenzio, applauso, “bravooo”, altro applauso, altro silenzio, qualche “vergoooogna” urlato al delinquente, mafioso, bugiardo o dittatore di turno, d’attualità o d’epoca cui Travaglio dedica brani del monologo: ecco la sequenza delle reazioni in sala o in strada quando a parlare è Marco Travaglio. E siccome qualsiasi cosa Travaglio tocchi diventa oro in senso letterale – pile di volumi intitolati “Regime” o “Inciucio” ornano, all’ennesima edizione, gli scaffali delle librerie, felici di ospitare colui che ha venduto più di un milione e mezzo di copie; picchi di audience premiano il conduttore che inviti il castigatore universale di “balle”; migliaia di biglietti se ne vanno per i suoi show-invettiva – gli imprenditori riconoscono a Travaglio il “fiuto per gli affari”. “Grande fiuto per gli affari, sì, e non è un delitto”, dice il signor Carlo Cimini, piccolo proprietario d’azienda che assicura di aver letto “tutti i saggi scritti da Travaglio negli ultimi dieci anni” e che, dopo qualche incursione in piazza ai V-day, ora vorrebbe iscriversi a uno dei gruppi pro Travaglio su Facebook (genere “Salvate il soldato Travaglio”). Ancora vivo nella memoria del signor Cimini è il giorno in cui ha avuto “l’onore di incontrare Travaglio in treno” – a quel punto Cimini non ha resistito e, pur non arrivando al punto di autopresentarsi al suo profeta, intento a leggere in un posto-corridoio, ha finto di andare al bar, gli è passato accanto e gli ha detto a mezza voce “complimenti”. Travaglio ha risposto come di consueto “grazie, ci mancherebbe” (il “ci mancherebbe” educatissimo e torinesissimo) e il signor Cimini oggi rimpiange di non aver aggiunto: “Dottor Travaglio, ricordi più spesso in tv che gli imprenditori non sono tutti marci”.
Travaglio in treno praticamente ci vive, e a volte capita – come ha scritto lo stesso Travaglio – che la sorte gli presenti proprio in treno un bel saltafosso. Che cosa fare infatti se, in piena nevicata e in pieno lancio dell’Eurostar no stop Milano-Roma, Marco Travaglio e decine di viaggiatori, dimentichi della mancanza di fermate intermedie, si accorgono troppo tardi di non poter scendere a Bologna? Non si può fare come il passeggero che nervosamente chiede al controllore di consentire l’eccezione solo per questa volta, vista la neve, pena l’immediato inserimento di Travaglio nella casella di chi predica bene la legalità e razzola male chiedendo la deroga. Non si può fare sebbene a Travaglio, scrive Travaglio, fosse venuto in quel frangente lo sghiribizzo di imitare il dirimpettaio di carrozza. La tentazione era tanta, e Travaglio, alla vista dell’attrice Francesca Neri che, nei pressi della toilette del convoglio, cercava di minimizzare la ferita provocatale da una testata contro un vetro troppo pulito, si era chiesto se non fosse il caso di sfruttare l’incidente per convincere il capotreno alla resa (la fermata a metà strada).
C’è da dire che Travaglio, oltreché in treno, vive pure in aereo, tanto che quando la nube vulcanica si è palesata nei cieli sopra Milano l’amico Peter Gomez si è trovato a dover rispondere al posto suo su Facebook: “Buongiorno, sono Peter Gomez, Marco Travaglio è stato bloccato dall’eruzione islandese, non perché si trovi in Islanda, ma perché si trovava in giro per l’Italia per una serie di presentazioni, quindi oggi cercherò di parlarvi io delle cose di cui vi avrebbe parlato Marco”. Chi frequenta gli aeroporti (tratta Torino-Roma o Milano-Roma) può facilmente scorgere Travaglio seduto davanti al gate, con i giornali sulle ginocchia, intento a strappare con estrema cura un articolo indispensabile per il suo archivio – non si sa mai. Scene di delirio divistico travaglista su un volo Torino-Roma si sono invece offerte agli occhi di Massimo Massano, editore del Borghese ai tempi in cui al Borghese dirigeva Daniele Vimercati e redigeva, tra gli altri, un giovane Travaglio: “Non squatter o strani figuri ma noti personaggi e addirittura un costruttore si alzavano in volo per andare a omaggiare Marco”, racconta Massano con la mente agli anni in cui Travaglio “chiudeva da solo mezzo Borghese, lavoratore indefesso quale è”. Accadeva allora che Massano si presentasse in riunione di redazione facendo presente a Vimercati che gli articoli di Travaglio e Massimo Fini facevano perdere “ogni volta mille copie”. Accadeva pure, dice Massano, che Travaglio “si facesse comprensivo e capisse che i suoi pezzi erano eccentrici per le aspettative dei lettori del Borghese”. All’epoca, racconta l’editore, Travaglio “non aveva ancora avviato la carriera di anti-Berlusconi. Poi ha trovato una chiave professionale che gli porta fama e guadagni – anche se si schermisce dicendo ‘se non mi portano via tutto con le querele’ – e ha assunto un ruolo anche politico che cavalca con successo. Pur non condividendo le sue idee, continuo a stimarlo molto come professionista”. Al Borghese in ogni caso finì presto: “Travaglio ce lo scipparono”, dice Massano rispolverando una gara di contratti giornalistici: “Il Borghese offriva l’articolo 1, Repubblica l’articolo 2”. Travaglio scelse il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari.
Se non ci fossero gli aerei, la memoria di Travaglio, a suo agio negli archivi, non troverebbe il pane che trova persino nel tempo libero-obbligato tra una presentazione e l’altra, perché è in aereo che Travaglio stuzzica vecchi colleghi e vecchi amici alla gara dell’aneddoto – Alba Parietti, ex compagna di asilo ed elementari nella natìa Torino, dice di aver riportato alla mente episodi dimenticati grazie a Marco che un giorno in volo le ha “ricordato tutto” (sorge il dubbio che Travaglio si sia ispirato al Nanni Moretti di “Bianca”, munito di schedario su vicini e conoscenti). La piccola Alba e il piccolo Marco erano entrambi allievi delle suore, entrambi “infatuati della meravigliosa suor Nazarena”, dice Parietti, e frequentavano gli stessi giardinetti. Marco, di qualche anno più giovane di Alba, appariva a quell’epoca “uguale a ora, con qualche capello in più”, ed era molto dispettoso. I due, passati dall’asilo alle elementari “Gaspare Gozzi”, frequentavano “una zona elegante della città, nei pressi di Corso Quintino Sella”, e il pomeriggio si ritrovavano “nel parco al centro della grande piazza”. Appena passava Alba Parietti, già appariscente, già un po’ ragazza, Marco Travaglio e i suoi amici – tutti più piccoli di lei – tiravano pallonate. Marco era “magro e riservato”. Alba “se la tirava un po’”. Alba oggi pensa che Marco “indossi la maschera da cattivo, ma in realtà sia un caro amico e un vero torinese: impenetrabile e aristocratico”. Di sicuro c’è che Marco, crescendo, non ha abbandonato due tipiche abitudini da giardinetto: lo sfottò sui difetti fisici (da Al Tappone-Berlusconi in giù) e la mania di appioppare appellativi di non sempre sicuro effetto comico. E insomma non si capisce come mai nel mondo di Marco Travaglio la gente, i luoghi e i gruppi politici non compaiano quasi mai col proprio nome. Ecco allora James Bondi, Anna La Garofana, Lucky Luciano (Luciano Moggi), Polito Margherito, Zebra nel Pugno, Angelo Panegrigio, Viale Pizzini, “quello con le méches” (il giornalista Filippo Facci).
Va detto che non ci si salva neppure quando Travaglio fa i nomi per esteso – ne sanno qualcosa Walter Veltroni (uno che secondo Travaglio era “in coma vigile” agli albori del Pd), Gianni Cuperlo (definito “uno sfigato”), Giovanni Floris (a lungo chiamato “Vespino”, con somma disapprovazione per Vespa) e Fausto Bertinotti (a lungo additato per la partecipazione a feste nobiliari e per l’amicizia della moglie con Valeria Marini). Lui, invece, Marco Travaglio, appare pressoché intoccabile, sebbene non ancora intoccabile quanto Roberto Saviano – persino i nemici di Travaglio, interpellati, premettono “sia chiaro che nutro una grande stima professionale per lui” (un osservatore burlone nota: “Ti credo, quelli magari pensano: ‘Chissà che cosa tira fuori dall’archivio, con o senza montaggio creativo’”). L’intoccabile Travaglio arriva nello studio di Annozero con il quadernino degli appunti in mano, serissimo, e il pubblico esplode in boati di puro amore – a Michele Santoro arrivano caldi ma più contenuti applausi. L’intoccabile Travaglio si rende spesso impermeabile all’ironia (non la sua, profusa in ogni direzione con mannaia pignola, bensì quella proveniente dai suoi detrattori, considerata il più delle volte vile offesa o balla tra le balle). Pochi, ma degni di nota, i cedimenti di umana vanità: Travaglio mette cravatte enormi, compra giacche spallute e taglia i capelli che un giorno Maria Laura Rodotà definì con orrore “lunghi dietro”. A volte Travaglio è colto da impeto hollywoodiano. Dice: “Nel tempo libero se voglio cazzeggiare cazzeggio” e infatti quando va nello studio di Victoria Cabello bacia tutti, si fa truccare come un attore, si guarda nello specchio senza sorridere, controlla lo stato del fondotinta, si traveste da Robespierre o da russo col colbacco e balla con contorsioni rigide e piegamenti ingessati nel video-parodia di “Cerco un centro di gravità permanente” – forse perché è amico di Franco Battiato. Franco Battiato comunque ha ricambiato (pare infatti che un giorno abbia detto: “Sono un Marco Travaglio un po’ più bastardo”).
A monte dell’intoccabilità, Travaglio ha attraversato un’infanzia studiosa e devota con papà ingegnere e mamma dell’Azione cattolica che guardavano con disapprovazione i “ladroni”, anzi i “latroni” (con accento torinese) che “cominciavano a vedersi in Italia”. Questo almeno racconta un amico di famiglia (e dunque pare di famiglia l’ossessione in scala industriale per i veri o presunti lestofanti che popolano l’universo travagliesco). D’inverno si andava in parrocchia e d’agosto, in cerca di frescura, si trascorreva qualche giorno nella frazione di San Martino di Castiglione Torinese, in una casa non appariscente e non distante dalla tenuta di un cognato degli Agnelli. Il piccolo Marco e suo fratello Franco cantavano, leggevano e suonavano in chiesa, “composti e gentilissimi”. Marco ha portato avanti l’impegno parrocchiale facendo talvolta il catechista, Franco ha continuato a suonare anche in età adulta, non per la chiesa ma per il teatro – sul suo curriculum c’è scritto “compositore e creatore di liriche per musical” (dal “Fantasma dell’Opera” a “Jesus Christ Superstar”), “regista di pop-opere dedicate a Marilyn Monroe” e “assistente alla regia” con Dario Fo. Tutto si tiene, ché pure Marco, come il fratello, adora la coppia Dario Fo-Franca Rame e pure Franco, come il fratello, ha collaborato a Repubblica.
Troppo grande per continuare a tirare pallonate ad Alba Parietti, il Marco Travaglio dei giardinetti divenne, al liceo, il Marco Travaglio ossessionato dai fatti (non sono bravo io, dice oggi, sono gli altri che si fermano alle opinioni). All’istituto salesiano Valsalice, infatti, il giovane Marco, ragazzo dinoccolato che vestiva senza troppe concessioni alla moda, era noto per la memoria formidabile sulle date in storia e sui dati in geografia, cosa che gli tornò utile nei primi anni di carriera giornalistica al settimanale cattolico il Nostro Tempo, quando al momento opportuno se ne usciva con tabelle aggiornatissime paese per paese. Nel mastodontico edificio Valsalice, arroccato in cima a una collina, in un’ala del palazzo a ferro di cavallo circondato dagli alberi, Travaglio aveva studiato il latino e il greco e si era preparato con sforzo matto e disperatissimo alla doppia laurea storico-letteraria (ma a voler interpellare gli ex professori sui trascorsi scolastici dell’ex alunno ci si imbatte in una sequela di amabili e prudenti “niet”: “Il professore non c’è”, “ho lasciato detto ma il professore forse non ha visto l’appunto”, “la farò richiamare se il professore decide che è il caso di parlare”). Poi Marco incontrò (tramite ambienti catechistici) la futura moglie Isabella, ragazza gentile e sobria – anche il matrimonio fu gentile, sobrio e poco alcolico, su un colle ai margini della città. Ai tempi in cui Marco cominciava a collaborare al Nostro Tempo, sotto la direzione di Domenico Agasso e Maria Pia Bonanate, la giovane Isabella era impiegata in un’agenzia viaggi nel centro di Torino. Marco scendeva a rotta di collo con una Panda rossa piena di carte e borsoni giù dalla collina di Chieri, andava a prendere Isabella o si industriava per qualche articolo. A turno con altri giovani redattori, faceva il ragazzo di bottega che assembla pagine, scrive pezzi, mette titoli, compila didascalie. Nello stesso palazzo, in Corso Matteotti 11, aveva sede Telesubalpina. Uno degli intervistati abituali della piccola tv, Massimo Introvigne, si ritrovò un giorno in studio un Marco Travaglio che faceva domande sulla musica satanica, oggetto di una ricerca dello stesso Introvigne – il quale tempo dopo, durante una tavola rotonda, fu colpito da quella che oggi chiama “metamorfosi di Travaglio da ragazzo semplice a simil-aristocratico che disprezza ‘er Pecora’”.
Negli anni degli esordi torinesi Travaglio, allora amico di Mario Giordano, si occupava soprattutto di esteri. Poi, con il passaggio al Giornale, di calcio – Giordano, che all’epoca era il “secondo” di Travaglio, ricorda le domeniche di spogliatoio al seguito della squadra minore, con Travaglio a tallonare la squadra maggiore. Fu in quegli anni che Travaglio cominciò a collezionare le “fanfaluche dei cronisti sportivi poi oggetto di due suoi libri”, ricorda l’ex collega Beppe Fossati, allora corrispondente da Torino (con Travaglio vicecorrispondente). In anni più recenti, lo juventino Travaglio è stato visto allo stadio a “gufare” la Juve in segno di protesta contro la triade Moggi-Bettega-Giraudo – ed è stato in chiave anti Moggi che, due giorni fa, Travaglio ha scritto sulla sua personale lavagna dei cattivi i nomi di Piero Ostellino, Beppe Severgnini e Pierluigi Battista, con il giudizio seguente: “Come se un giornalista, solo perché parla di calcio, potesse ridursi a trombetta della squadra del cuore, a prescindere dai fatti”.
Travaglio e Giordano a Torino erano amici, Travaglio e Fossati pure – poi Travaglio ha paragonato il Giornale diretto da Giordano a Topolino, e ha descritto il Fossati d’antan come “un bravo e simpatico” scansafatiche che lo faceva scrivere al posto suo dandogli cinquantamila lire. C’è da dire che Fossati, interpellato in proposito, ci ride su: “Nonostante quella battuta, io lo stimo molto. E’ un bravo inquisitore. Me lo ricordo come un ragazzo sveglio, volenteroso, spiritoso. Per me era come un fratello minore. L’ho perso di vista quando è diventato professionista, e negli anni ci siamo incontrati poco. ‘Ciao Beppone’ mi diceva ogni volta che ci si incrociava”.
Qualcuno a Torino ricorda un Travaglio che si occupa di economia anche nel pieno della partita Berlusconi-De Benedetti, con toni non teneri verso Carlo De Benedetti (Travaglio però su De Benedetti ha pronta la frase: ha avuto i suoi guai con la giustizia ma ha ammesso quel che doveva ammettere). La fissazione giudiziaria, per Travaglio, si sedimentò dopo l’incontro con Marcello Maddalena e si nutrì delle conversazioni tra colleghi alla redazione locale di Repubblica – si mangiava alla stessa tavola, si faceva sport (“affittavamo un campo al Circolo della stampa, e Marco arrivava trafelato, spesso in ritardo”, racconta l’ex collega Davide Banfo) e si confrontavano dati sul processo Fiat, oggetto di un libro di Marco Travaglio e Paolo Griseri.
Soltanto al Giornale di Indro Montanelli Travaglio si fece notare anche come riepilogatore di fatti e recuperatore di citazioni. L’allora vicedirettore Paolo Granzotto fornisce l’esempio pratico: “Crollava una diga e Travaglio in men che non si dica scriveva un pezzo su tutte le dighe crollate negli ultimi vent’anni. Saliva agli onori delle cronache un politico e Travaglio aveva pronte tutte le frasi dette dal politico nel decennio appena trascorso. Montanelli era molto soddisfatto”. Sia Paolo Granzotto che Mario Cervi ricordano un Travaglio “talentuoso”, “ambizioso” e già propenso ad autoeleggersi se non allievo di Montanelli – guai a dirlo: Travaglio dice che nessuno può essere allievo di Montanelli – quantomeno uno dei pochi e forse l’unico fedele esegeta e seguace di Montanelli. Sul rapporto Montanelli-Berlusconi Travaglio ha scritto un libro di quattrocento e passa pagine (“Montanelli e il Cavaliere”) con citazioni iniziali di Leonardo Sciascia, Giorgio Gaber e Alexis de Tocqueville e con introduzione autobiografica e nostalgica sul primo incontro con Indro: lo scrittore Giovanni Arpino portò il giovane Travaglio a Milano in treno a conoscere “il Vecchio”, mangiarono al ristorante, il Vecchio quando si vide davanti Travaglio lo chiamò immediatamente “mammòzio” e Travaglio, già grato di quell’attenzione burbera e affettuosa, ammutolì e quasi ebbe un mancamento di fronte a un simile esempio di giornalismo (fu sentendo parlare il Vecchio, dice un amico di Travaglio, che Travaglio prese il vezzo di adoperare il termine dimenticato “strologare”). Il resto, si legge nel volume, è grande onore e ancora grande onore di collaborare con il Vecchio, è il Vecchio nel suo ufficio con il merlo regalatogli da Angelo Rizzoli, è “mobbing” dal Cavaliere, è lacrime e melodramma dei redattori di fronte al Vecchio che lascia la direzione e gioia immensa quando il Vecchio porta con sé il giovane Travaglio alla Voce. Esistono altre versioni, compresa quella dell’allora vicedirettore Granzotto, sulla fine dell’esperienza montanelliana al Giornale (una versione che diverge dalla tesi del “mobbing”, con cronaca dell’assemblea dell’8 gennaio 1994, giorno in cui Berlusconi intervenne davanti alla redazione). Esiste un filmato santoriano in cui Montanelli telefona alla trasmissione “Il Raggio Verde” e dà ragione a Travaglio. Esiste un’intervista fatta da Laura Laurenzi a Montanelli nel 2001, in cui Montanelli si riferisce alla versione di Granzotto e dice: “Paolo Granzotto scrisse un resoconto di come erano andate le cose. Ecco: andatevi a rileggere quella cronaca, coincide esattamente con le cose come le ho raccontate io”. Esiste la contestazione di Travaglio a Granzotto nella riedizione di “Montanelli e il Cavaliere”: Granzotto non fu “testimone oculare esclusivo”, scrive Travaglio; Montanelli quel giorno non voleva far salire in redazione il Cavaliere, aggiunge Travaglio citando l’ex capo del comitato di redazione Novarro Montanari.
Sia come sia, esiste soprattutto un Travaglio che dalla morte di Montanelli in poi parla da erede spirituale dell’unico “vero liberale” – a una commemorazione montanelliana a Perugia, ricorda Mario Cervi, Travaglio prese la parola e raccontò di quando Montanelli, accompagnato dal Berlusconi nel “mausoleo” di Arcore, si produsse “in scongiuri piuttosto plateali di fronte al Cavaliere che proponeva di riservargli una tomba accanto ai suoi cari”. “Travaglio non è da sottovalutare né come talento né come spregiudicatezza”, dice Cervi. Quanto alle prefazioni (due) che Montanelli scrisse per Travaglio, c’è chi dice, tra i vecchi colleghi, che “Montanelli era troppo buono e non sapeva dire no” e chi invece assicura che “Montanelli voleva un bene dell’anima a Travaglio e lo stimava moltissimo”. A ogni modo, nella prefazione del 1995 al travagliesco “Il Pollaio delle Libertà”, ripubblicata dallo stesso Travaglio, Montanelli prende in giro l’ex cronista tuttofare, definito scherzosamente un “grande inquisitore da far impallidireVishinsky”, e si diverte attorno al suo misterioso archivio: sarà per non doverlo trasferire che Travaglio, “ragazzo allegro, disposto a qualsiasi servizio di cronaca”, si è sempre rifiutato di traslocare da Torino a Milano?
Federico Orlando, ora condirettore di Europa e allora condirettore del Giornale e della Voce, ricorda un Travaglio “che da Torino inviava ottime corrispondenze sulla Fiat, tanto che ricevemmo sollecitazioni a calmarlo”. Travaglio dice sempre che Montanelli non si piegò neppure alla Fiat e, con somma soddisfazione, si definisce un giornalista che non ha avuto paura di parlare di Fininvest, di Fiat e di Massimo D’Alema (sottinteso: l’unico o quasi l’unico). Ci fu un giorno in cui Travaglio, collaboratore dell’Unità, salì su un palco girotondino e, parlando di governo D’Alema, disse (con poco piemontese sfoggio di parolaccia): “Sono entrati a Palazzo Chigi con le pezze al culo e ne sono usciti ricchi”. Il Corriere della Sera corse a intervistare i colleghi di Travaglio all’Unità (non il direttore Furio Colombo che intanto aveva messo in pagina un’intervista di D’Alema), con il risultato di riportare questo commento del caporedattore esperto Nuccio Ciconte, ora caporedattore al travagliesco Fatto: “Se Travaglio dice che D’Alema e i suoi furono dei disonesti deve spiegarci come e perché. Deve fare il giornalista, se no…”.
Vecchie storie, comunque. Oggi Ciconte e Travaglio convivono senza problemi al Fatto, dove Travaglio, fiero di stare nell’open space, giunge il giovedì, prima di Annozero. Con la mente invece è presente tutti i giorni e più che altro nottetempo, quando ingolfa la casella mail dei redattori con note di commento ai pezzi o con suggerimenti divisi per competenza (Travaglio di pomeriggio presenta libri, fino alle cinque del mattino lavora e fino a mezzogiorno dorme). Chi frequenta il Fatto descrive un Travaglio ansioso “di far lavorare i giovani” e desideroso di parlare di cinema con i giovani – soprattutto di Woody Allen.
Fatto salvo l’episodio delle “pezze al culo”, Travaglio all’Unità di Colombo e Padellaro si trovò benissimo, talmente bene che alla nomina di Concita De Gregorio scrisse un’invettiva contro Renato Soru: “L’editore dovrebbe spiegare in maniera chiara e trasparente, ai lettori e alla redazione dell’Unità, i motivi per i quali Antonio Padellaro lascia la direzione del quotidiano… di solito i direttori vengono mandati via se hanno fatto male, per la linea editoriale o per i conti. Sui conti, nulla si può rimproverare a Padellaro, costretto a fare un giornale con quattro soldi, le classiche nozze con i fichi secchi. Non riesco a capire quali siano le ragioni per le quali Padellaro debba andar via. La parola multimedialità non mi dice niente e, anzi, mi fa venire l’orticaria”. Travaglio aggiunse anche la frase “il problema non riguarda Concita De Gregorio, ottima giornalista”, fosse mai che qualcuno potesse alambiccare su una sua riserva sulla medesima.
Nella vita di Marco Travaglio ci sono due costanti: il tennis e le vacanze con il pm Antonino Ingroia. A volte può comparire, come variante, una piscina; a volte Travaglio si adombra a sentir parlare delle sue vacanze (anzi di “ferie”, come le chiama lui forse in omaggio alla Torino delle fabbriche chiuse d’agosto). Passi per la vacanza di Travaglio con moglie e figli e Ingroia nella località turca di Bodrum, l’antica Alicarnasso, oggi meta di aspiranti passeggeri di caicchi, tedeschi in cerca di sole e visitatori di caravanserragli in pantaloncini corti. A quella vacanza fece accenno Filippo Facci su Libero, in risposta a una lettrice che, avendo notato Ingroia e Travaglio seduti allo stesso tavolo di un ristorante in corso D’Azeglio a Torino, aveva pensato “che i due, alla faccia dell’imparzialità della magistratura”, potessero, tra una portata e l’altra, discorrere degli argomenti dei libri di Travaglio. Sulla vacanza in Sicilia, però, Marco Travaglio non tollera. Il tutto ebbe origine non da un articolo di Facci bensì da un articolo del 2008 di Giuseppe D’Avanzo, vicedirettore di Repubblica (giornale con cui Travaglio allora collaborava). Travaglio era stato in tv da Fabio Fazio e aveva parlato di Renato Schifani e di presunte amicizie in odor di mafia. A quel punto D’Avanzo tirò fuori la vacanza sicula per contestare a Travaglio un “metodo di lavoro” da “agenzia del risentimento” (“Travaglio declina la conoscenza di Schifani con un tizio, quattro anni dopo indagato per mafia, come prossimità alla mafia”, scrisse). Il problema della vacanza non stava nelle località scelte da Travaglio e Ingroia nel 2002 e nel 2003 – trattavasi di due ridenti stazioni frequentate, dice un locale, “soprattutto dagli impiegati di Bagherìa”: Altavilla Milicia, zona di agrumeti, spiagge sabbiose e colline lussureggianti, e Trabìa, zona di produzione intensiva di spaghetti. Il problema stava bensì nel terzo villeggiante, il maresciallo della Finanza Pippo Ciuro, compagno di stanza di Ingroia al palazzo di giustizia di Palermo, successivamente condannato per aver favorito un prestanome di Bernardo Provenzano.
Ad Altavilla e Trabìa, nelle sere d’agosto, si andava a cena insieme, si chiacchierava a bordo piscina e ci si scambiava, all’occorrenza, macchinette del caffè e cuscini – merce rara in un residence dove già erano passate orde di vacanzieri selvaggi. Travaglio ignorava che Ciuro fosse già oggetto di indagine, Ingroia, si è poi scritto, doveva far finta di nulla per non compromettere le indagini (e Ciuro, in un recente colloquio palermitano riportato da Facci su Libero, ha detto che a quei tempi neppure Ingroia sapeva). Travaglio, dopo la pubblicazione dell’articolo di D’Avanzo, dimostrò online, con tanto di numero di assegno e di transazione Diners, che, al contrario di quanto era stato ventilato, il favoreggiatore di Provenzano non gli aveva mai offerto il soggiorno siciliano (pagato da Travaglio fino all’ultimo centesimo e persino, scrisse Travaglio, in una cifra superiore a quella pattuita). D’Avanzo disse di aver tirato fuori la storia in omaggio al principio del “tu quoque” (dopo aver appunto sentito Travaglio parlare di Schifani): “Aver trascorso una vacanza con un tipo che poi si è rivelato un criminale, e dunque in piena innocenza e senza alcuna consapevolezza, vuol dire davvero essere per riflesso un criminale?”, scrisse il vicedirettore di Repubblica.
Più di un lettore, nel frattempo, fu catturato da futili dettagli: la vacanza in quel residence isolano costava pochissimo, circa mille euro per quattro persone, roba da fiondarsi in massa, mentre l’albergo a cinque stelle era veramente troppo esoso, come assicurava Travaglio. Tutto pareva in teoria sistemato (persino Ciuro, nel suddetto colloquio con Facci, oggi dice che la faccenda delle ferie pagate a Travaglio dal favoreggiatore di Provenzano “è una minchiata di quelle grosse”). In pratica, però, a Travaglio non piace sentire la frase “dai, sarà capitato anche a te di frequentare persone che non si sarebbero dovute frequentare”. Nicola Porro, del Giornale, l’ha detta durante una puntata di Annozero in cui Travaglio contestava a Guido Bertolaso il non aver vigilato su chi sedeva nella stanza a fianco. Senza rimedio, l’arrabbiatura di Travaglio contro Porro e contro Maurizio Belpietro si è estesa quasi quasi pure a Michele Santoro che, smussando e smitizzando, non aveva difeso il suo opinionista a spada tratta (seguiva scambio di lettere aperte Travaglio-Santoro sul Fatto).
Cose che non succedono, queste, a bordo campo (da tennis). Perché il tennis per Travaglio è terreno idilliaco, fatto di rare pause al circolo e partite in doppio con l’amico Claudio Sabelli Fioretti contro Giancarlo Caselli e Salvatore Bragantini. Travaglio e Sabelli si conoscono da quando Sabelli dirigeva Cuore, si presentano reciprocamente i libri e restano in contatto a distanza (vivono in città diverse). Sabelli dice che i libri di Travaglio “uscivano nel silenzio generale delle sezioni politiche e culturali dei quotidiani. Scalavano le classifiche senza che nessuno ne parlasse. Marco girava come una trottola facendo anche tre o quattro presentazioni al giorno. Il suo successo se l’è conquistato da solo e non deve ringraziare nessuno. Avrebbe potuto montarsi la testa ma non l’ha fatto”. La prima intervista di Sabelli a Travaglio (per il Magazine del Corriere) si svolse, racconta Sabelli, “il giorno di Ferragosto, a casa mia in montagna sotto una grande betulla”. La seconda intervista, per il libro “Il rompiballe”, a casa di Travaglio “sulle colline di Superga”. Visto dal lato Sabelli, Travaglio è “sempre stato amichevole, sereno, tranquillo, sicuro di sé, forte di una memoria di ferro. Si vede che è felice del lavoro che fa, contento del successo e anche della visibilità che ottiene. Ha un grande senso del ritmo e dei tempi comici”.
Tra mille lodi, giunge a Travaglio da Sabelli un unico mite appunto: “Ultimamente appare più opinionista che cronista. Io lo preferisco quando riporta, registra, ricorda. Quando non consente alla gente di raccontare bugie grazie alla sua incredibile memoria”.
Chi non ha la memoria di Travaglio ricorda a spanne che Travaglio, oggi estimatore di Gianfranco Fini, anni fa parlò di una metamorfosi di Fini da “camerata a cameriere” e che Travaglio, un tempo elettore della Lega, ha più volte scelto nell’urna Antonio Di Pietro – adesso però preferisce Beppe Grillo e Luigi De Magistris. Soprattutto, oggi Travaglio si sente “ospite” della sinistra extra Pd. “E come fa?”, si chiede un vecchio conoscente, sottolineando “la deliziosa tortura cui si sottopone Travaglio trascorrendo le sue giornate in mezzo a schiere di neo gruppettari post sessantottardi modello Sabina Guzzanti. Come fa a reggere, lì, lui che è una specie di signor Veneranda, di destra in senso piemontese, tutto legge, ordine, rigore, guardie, ladri e frugalità?”.
«Il Foglio» del 26 aprile 2010
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