di Stefania Vitulli
La selezione naturale è ancora il meccanismo all’origine delle specie e delle loro mutazioni oppure rimane imprescindibile ma ormai inestricabilmente parte di una multifattorialità – in cui non è nemmeno accertato se essa sia uno dei fattori primari – di una complessità che spiega l’evoluzione ma che per ora è ancora da esplorare e a lungo con la ricerca? Il quesito epistemologico che abbiamo posto ad alcuni dei grandi nomi della scienza citati da Massimo Piattelli Palmarini e Jerry Fodor nel volume “Gli errori di Darwin”, in uscita per Feltrinelli, è molto chiaro e e altrettanto chiare sono state le risposte di chi ha accettato di esprimersi sul tema.
Il professor Carl Woese, ad esempio, ha le idee così nette che si esprime attraverso il paradossale assunto coniato da Pauli per liquidare con sprezzatura e anche un poco di tristezza un lavoro ininfluente: “Il grande fisico Wolfgang Pauli – spiega al Foglio Woese, che è scopritore, alla fine degli anni Settanta, di un “terzo dominio” di viventi al principio dell’albero della vita, oltre a Eucarioti e Batteri, ovvero gli Archea, e che oggi è professore di microbiologia all’Università dell’Illinois a Urbana-Champaign – è famoso per aver una volta detto, a proposito di una teoria che considerava di nessun valore scientifico ‘Non è nemmeno sbagliata’. Questo è quello che io sento per la teoria di Darwin. La selezione naturale è una di quelle ‘congetture’ che, per dirla con Erwin Schrodinger, sono anatemi scientifici poiché si tratta di ‘simulazioni’, per usare un termine caro a Schrodinger – che non servono a spiegare il problema, ma a trovarne una giustificazione”. Di Woese Piattelli Palmarini nel volume cita il passo in cui si rende esplicita una “distrazione” della comunità scientifica durata 150 anni: “La presunta spiegazione fondamentale del processo evolutivo, la selezione naturale, si è protratta senza cambiamenti e senza sfide dall’inizio alla fine del XX secolo. E’ successo, questo, perché non c’era nient’altro da capire nel processo evolutivo? Scherziamo! Piuttosto questo è successo perché al centro delle preoccupazioni non stava il processo evolutivo, bensì la diligente badanza alla sintesi moderna”.
Più cauta, anche se sempre in direzione della multifattorialità, è Eva Jablonka, docente al Cohn Institute for the History and Philosophy for Science and Ideas dell’Università di Tel Aviv, che ebbe già modo di spiegare al Foglio due anni fa, in occasione della sua presentazione in Italia del volume L’evoluzione in quattro dimensioni scritto con Marion Lamb e pubblicato da Utet, quella che il Guardian disse “finalmente” essere una interpretazione corretta del pensiero di Darwin, che evitava di ridurlo alla visione genocentrica di Dawkins e lo allargava a un meccanismo multidimensionale (fino a quattro dimensioni di ereditabilità, di cui quella genetica è solo una), secondo il quale quel che conta non è la trasmissione dei geni, ma quella delle loro variazioni: “Penso che la selezione naturale sia cruciale per comprendere gli adattamenti complessi e che ora non abbiamo alternative ad essa” ci dice Jablonka. “Ma questo non significa che sia l’unico fattore che dobbiamo tenere in considerazione quando discutiamo di evoluzione. Quando vogliamo spiegare perché un tratto particolare esista in una popolazione di organismi, dobbiamo considerare le origini delle variazioni ereditabili, le costrizioni e le possibilità offerte dall’ambiente e il ruolo del caso”.
“Non ho ancora letto il volume di Piattelli Palmarini e Fodor – ci risponde invece il professor Eugene Koonin, senior di uno dei più importanti laboratori sull’evoluzione, l’Evolutionary Genomics del National Institutes of Health di Bethesda. – ma è possibile in ogni caso rispondere alla domanda: è ovvio che ai giorni nostri, nessun biologo dell’evoluzione sosterrebbe seriamente che la selezione naturale sia l’unica forza che spinge l’evoluzione in generale e l’origine delle specie in particolare. Nemmeno Darwin, del resto, arrivò a tanto: la visione così fortemente dogmatica della questione è piuttosto caratteristica della sintesi moderna operata dalla biologia dell’evoluzione. Altri processi sono altrettanto importanti che la selezione per l’evoluzione, come la deriva genetica e più in generale, la nostra comprensione dell’evoluzione è molto più complessa e ricca di sfumature di quanto non lo sia stata ai tempi della sintesi moderna a metà del ventesimo secolo, se si escludono i tempi di Darwin. Alcuni dei processi che oggi noi consideriamo centrali per l’evoluzione, come il trasferimento genico orizzontale o l’endosimbiosi erano del tutto sconosciuti agli scienziati dell’epoca. Detto questo, non credo vi sia da prenderla così drammaticamente a proposito degli “errori di Darwin”. Non è che la selezione naturale sia “sbagliata”, anzi, è una grande scoperta. Semplicemente non racconta tutta la storia che sta dietro l’evoluzione della vita. Ci furono una serie di teorie su cui Darwin sbagliò davvero, questo è certo, come il meccanismo speculativo dell’eredità, ma in generale, visto il punto in cui era la biologia nel XIX secolo, è sorprendente che Darwin sia arrivato a conclusioni così ragionevoli”.
Il professor Carl Woese, ad esempio, ha le idee così nette che si esprime attraverso il paradossale assunto coniato da Pauli per liquidare con sprezzatura e anche un poco di tristezza un lavoro ininfluente: “Il grande fisico Wolfgang Pauli – spiega al Foglio Woese, che è scopritore, alla fine degli anni Settanta, di un “terzo dominio” di viventi al principio dell’albero della vita, oltre a Eucarioti e Batteri, ovvero gli Archea, e che oggi è professore di microbiologia all’Università dell’Illinois a Urbana-Champaign – è famoso per aver una volta detto, a proposito di una teoria che considerava di nessun valore scientifico ‘Non è nemmeno sbagliata’. Questo è quello che io sento per la teoria di Darwin. La selezione naturale è una di quelle ‘congetture’ che, per dirla con Erwin Schrodinger, sono anatemi scientifici poiché si tratta di ‘simulazioni’, per usare un termine caro a Schrodinger – che non servono a spiegare il problema, ma a trovarne una giustificazione”. Di Woese Piattelli Palmarini nel volume cita il passo in cui si rende esplicita una “distrazione” della comunità scientifica durata 150 anni: “La presunta spiegazione fondamentale del processo evolutivo, la selezione naturale, si è protratta senza cambiamenti e senza sfide dall’inizio alla fine del XX secolo. E’ successo, questo, perché non c’era nient’altro da capire nel processo evolutivo? Scherziamo! Piuttosto questo è successo perché al centro delle preoccupazioni non stava il processo evolutivo, bensì la diligente badanza alla sintesi moderna”.
Più cauta, anche se sempre in direzione della multifattorialità, è Eva Jablonka, docente al Cohn Institute for the History and Philosophy for Science and Ideas dell’Università di Tel Aviv, che ebbe già modo di spiegare al Foglio due anni fa, in occasione della sua presentazione in Italia del volume L’evoluzione in quattro dimensioni scritto con Marion Lamb e pubblicato da Utet, quella che il Guardian disse “finalmente” essere una interpretazione corretta del pensiero di Darwin, che evitava di ridurlo alla visione genocentrica di Dawkins e lo allargava a un meccanismo multidimensionale (fino a quattro dimensioni di ereditabilità, di cui quella genetica è solo una), secondo il quale quel che conta non è la trasmissione dei geni, ma quella delle loro variazioni: “Penso che la selezione naturale sia cruciale per comprendere gli adattamenti complessi e che ora non abbiamo alternative ad essa” ci dice Jablonka. “Ma questo non significa che sia l’unico fattore che dobbiamo tenere in considerazione quando discutiamo di evoluzione. Quando vogliamo spiegare perché un tratto particolare esista in una popolazione di organismi, dobbiamo considerare le origini delle variazioni ereditabili, le costrizioni e le possibilità offerte dall’ambiente e il ruolo del caso”.
“Non ho ancora letto il volume di Piattelli Palmarini e Fodor – ci risponde invece il professor Eugene Koonin, senior di uno dei più importanti laboratori sull’evoluzione, l’Evolutionary Genomics del National Institutes of Health di Bethesda. – ma è possibile in ogni caso rispondere alla domanda: è ovvio che ai giorni nostri, nessun biologo dell’evoluzione sosterrebbe seriamente che la selezione naturale sia l’unica forza che spinge l’evoluzione in generale e l’origine delle specie in particolare. Nemmeno Darwin, del resto, arrivò a tanto: la visione così fortemente dogmatica della questione è piuttosto caratteristica della sintesi moderna operata dalla biologia dell’evoluzione. Altri processi sono altrettanto importanti che la selezione per l’evoluzione, come la deriva genetica e più in generale, la nostra comprensione dell’evoluzione è molto più complessa e ricca di sfumature di quanto non lo sia stata ai tempi della sintesi moderna a metà del ventesimo secolo, se si escludono i tempi di Darwin. Alcuni dei processi che oggi noi consideriamo centrali per l’evoluzione, come il trasferimento genico orizzontale o l’endosimbiosi erano del tutto sconosciuti agli scienziati dell’epoca. Detto questo, non credo vi sia da prenderla così drammaticamente a proposito degli “errori di Darwin”. Non è che la selezione naturale sia “sbagliata”, anzi, è una grande scoperta. Semplicemente non racconta tutta la storia che sta dietro l’evoluzione della vita. Ci furono una serie di teorie su cui Darwin sbagliò davvero, questo è certo, come il meccanismo speculativo dell’eredità, ma in generale, visto il punto in cui era la biologia nel XIX secolo, è sorprendente che Darwin sia arrivato a conclusioni così ragionevoli”.
«Il Foglio» del 18 aprile 2010
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