di Gigio Rancilio
La tv dei Vianello e dei Bongiorno – solo per fermarci agli ultimi due grandi che ci hanno lasciato – non è morta. Anche se la rimpiangiamo con dolore ancor più pungente in questi casi luttuosi, quella tv esiste ancora.
È la famosa televisione da servizio pubblico.
Quella che rispetta i telespettatori, che li fa divertire con garbo e che, spesso, li aiuta persino a crescere. Questa tv non è morta. Ma, sempre più spesso, viene tenuta ai margini dei palinsesti.
Piazzata in orari e su canali «di nicchia», magari per dare un contentino a certi politici e al tempo stesso non infastidirne altri.
Per spiegarci meglio, vi chiediamo di immaginare per qualche secondo un ipotetico quiz tv, con un conduttore qualunque e un concorrente qualunque. Ma con una domanda precisa: «I grandi della terra domenica sono attesi a Cracovia per le esequie del presidente polacco Lech Kaczynki e della moglie Maria, morti sabato mentre erano diretti a Katyn per commemorare le vittime polacche dell’eccidio sovietico del 1940.
Crede sia giusto che la Rai mandi in onda sabato il recente film di Wajda su Katyn, che ha svelato quel crimine, negato per anni?». La risposta non si farebbe attendere: «Certo. E sarebbe bello se lo facesse precedere o seguire da una parte giornalistica che ricostruisca gli avvenimenti, fino ai giorni nostri». Il pubblico a questo punto probabilmente applaudirebbe. Il conduttore si congratulerebbe col concorrente. E la sigla finale darebbe il giusto suggello ad una puntata felice.
Fin qui la fantasia. Nella realtà invece a chiedere al direttore generale della Rai di trasmettere «Katyn» è stato il capogruppo del Pdl al senato Gasparri, con una lettera. La risposta è arrivata dopo qualche ora. «Lo manderemo alle 21.30 su Rainews 24». Cioè su un canale, potenzialmente seguito da tutti i possessori del digitale terrestre (più o meno il 35% del totale), ma nei fatti seguito da un pubblico che oscilla attorno all’1% (meno di 200mila spettatori, quando tocca le punte massime).
«Katyn merita la prima serata su Raiuno. Così si fa il servizio pubblico» ha replicato Gasparri, ignorato dai grandi giornali. «È un bel film che ha riscritto con esattezza una verità che altri hanno per troppo tempo voluto occultare». Il punto sta proprio qui. Che qualunque scelta del servizio pubblico in questo Paese sembra dover essere per forza «politica». Un gesto «contro». Come se trasmettere un film come «Katyn» su Raiuno (o Raidue o Raitre) fosse un colpo da rifilare alla sinistra e non un momento di buona televisione e buon cinema. Per lo stesso motivo, se fosse stato programmato su uno dei canali Rai più visti, qualcuno in una qualche sinistra avrebbe probabilmente gridato alla strumentalizzazione.
Il risultato è un pastrocchio. Non potendo scontentare un importante esponente della maggioranza (e il ministro dei Beni culturali Bondi, che si è subito unito alla richiesta di Gasparri) la Rai ha tentato di accontentare un po’ tutti. «Katyn va in onda, ma su Rainews24». Cioè, un po’ defilato. Così da non disturbare troppo.
Peccato che così facendo non si sia tenuto conto di un terzo soggetto, quello che per un servizio pubblico dovrebbe essere il più importante: i cittadini. Tanto più che «Katyn» – forse lo ricorderete, visto che fu questo giornale a denunciarlo – è già stato penalizzato nei cinema.
Considerato troppo poco commerciale ha trovato una sua degna collocazione grazie soprattutto allo sforzo di illuminati gestori di cinema d’essai e parrocchiali.
Anche per questo il servizio pubblico avrebbe potuto e dovuto fare di più. In fondo a regolare gli obblighi della Rai verso lo Stato (cioè, verso ognuno di noi) c’è anche un Contratto di ben 43 articoli. Alcuni dei quali sembrano scritti apposta per la vicenda «Katyn».
È la famosa televisione da servizio pubblico.
Quella che rispetta i telespettatori, che li fa divertire con garbo e che, spesso, li aiuta persino a crescere. Questa tv non è morta. Ma, sempre più spesso, viene tenuta ai margini dei palinsesti.
Piazzata in orari e su canali «di nicchia», magari per dare un contentino a certi politici e al tempo stesso non infastidirne altri.
Per spiegarci meglio, vi chiediamo di immaginare per qualche secondo un ipotetico quiz tv, con un conduttore qualunque e un concorrente qualunque. Ma con una domanda precisa: «I grandi della terra domenica sono attesi a Cracovia per le esequie del presidente polacco Lech Kaczynki e della moglie Maria, morti sabato mentre erano diretti a Katyn per commemorare le vittime polacche dell’eccidio sovietico del 1940.
Crede sia giusto che la Rai mandi in onda sabato il recente film di Wajda su Katyn, che ha svelato quel crimine, negato per anni?». La risposta non si farebbe attendere: «Certo. E sarebbe bello se lo facesse precedere o seguire da una parte giornalistica che ricostruisca gli avvenimenti, fino ai giorni nostri». Il pubblico a questo punto probabilmente applaudirebbe. Il conduttore si congratulerebbe col concorrente. E la sigla finale darebbe il giusto suggello ad una puntata felice.
Fin qui la fantasia. Nella realtà invece a chiedere al direttore generale della Rai di trasmettere «Katyn» è stato il capogruppo del Pdl al senato Gasparri, con una lettera. La risposta è arrivata dopo qualche ora. «Lo manderemo alle 21.30 su Rainews 24». Cioè su un canale, potenzialmente seguito da tutti i possessori del digitale terrestre (più o meno il 35% del totale), ma nei fatti seguito da un pubblico che oscilla attorno all’1% (meno di 200mila spettatori, quando tocca le punte massime).
«Katyn merita la prima serata su Raiuno. Così si fa il servizio pubblico» ha replicato Gasparri, ignorato dai grandi giornali. «È un bel film che ha riscritto con esattezza una verità che altri hanno per troppo tempo voluto occultare». Il punto sta proprio qui. Che qualunque scelta del servizio pubblico in questo Paese sembra dover essere per forza «politica». Un gesto «contro». Come se trasmettere un film come «Katyn» su Raiuno (o Raidue o Raitre) fosse un colpo da rifilare alla sinistra e non un momento di buona televisione e buon cinema. Per lo stesso motivo, se fosse stato programmato su uno dei canali Rai più visti, qualcuno in una qualche sinistra avrebbe probabilmente gridato alla strumentalizzazione.
Il risultato è un pastrocchio. Non potendo scontentare un importante esponente della maggioranza (e il ministro dei Beni culturali Bondi, che si è subito unito alla richiesta di Gasparri) la Rai ha tentato di accontentare un po’ tutti. «Katyn va in onda, ma su Rainews24». Cioè, un po’ defilato. Così da non disturbare troppo.
Peccato che così facendo non si sia tenuto conto di un terzo soggetto, quello che per un servizio pubblico dovrebbe essere il più importante: i cittadini. Tanto più che «Katyn» – forse lo ricorderete, visto che fu questo giornale a denunciarlo – è già stato penalizzato nei cinema.
Considerato troppo poco commerciale ha trovato una sua degna collocazione grazie soprattutto allo sforzo di illuminati gestori di cinema d’essai e parrocchiali.
Anche per questo il servizio pubblico avrebbe potuto e dovuto fare di più. In fondo a regolare gli obblighi della Rai verso lo Stato (cioè, verso ognuno di noi) c’è anche un Contratto di ben 43 articoli. Alcuni dei quali sembrano scritti apposta per la vicenda «Katyn».
«Avvenire» del 16 aprile 2010
Nessun commento:
Posta un commento