Esce in libreria una nuova edizione dei Poemi conviviali di Pascoli curata da Maria Belponer (Rizzoli).
di Pietro Gibellini
Anticipiamo qui un passo dalla prefazione di Pietro Gibellini, centrata sul confronto Pascoli-D’Annunzio
Che alla mèta di un’arte nuova e antica i due scrittori aspirassero per vie diverse si ricava dalle due poetiche. Quella del più pensoso Pascoli è affidata alla prosa del Fanciullino (1897). Raccogliendo stimoli dell’amico Angelo Conti, Pascoli riprendeva l’immagine già classica del dèmone interiore che ispira il canto, costruendo il concetto dell’eterno fanciullo che abita dentro il poeta dandogli lo sguardo vergine che rende incantevole e commovente la realtà quotidiana e fa grandi anche le cose piccole. Ma attraverso l’amato Leopardi, e le sue radici vichiane, Pascoli sa che, ritrovando in sé l’eterno fanciullino, ritrova l’animo della Grecia antica, mitopoietica fanciullezza dell’umanità: e la prosa termina appunto con l’immagine antica del cieco Omero condotto per mano dal fanciullo. Obbedendo al suo istinto di verseggiatore, D’Annunzio formula invece la sua poetica nelle ballate di un componimento di Alcyone. Ideale risposta al Fanciullino, il Fanciullo alcyonio (1902) è il testo che meglio compendia il senso dell’intero poema: il deus puer tutto interiore si oggettiva in una divinità adolescente che ha i tipici tratti di Ermete (ma anche di Orfeo e di Pan) e che col suo flauto interpreta l’ambizione onnivora del poeta, cantore di ogni genere (lirico, epico, didattico) e di ogni stile e motivo (natura ed arte, luce ed ombra, anche se la parte solare dòmina in Alcyone e l’altra, qui solo sfiorata, caratterizzerà la tarda stagione, dalla prosa poetica del Notturno in poi).
Alla fine fugge alla vista del poeta: tornerà forse il «nudo fanciul pagano», ma dopo aver lasciato il flauto per por mano all’arco. In effetti la vera immersione nella classicità non avviene nell’itinerario turistico e archeologico di Maia, ma nell’ebbrezza di Alcyone, dove la mitopoiesi si fa visione, e il diario dell’estate marina diventa immersione nel mito, dove la compagna di una passeggiata prende figura di Ermione, e una cavalcata trasforma il poeta in centauro. La «mammella antica » cui si dice abbeverato il poeta di Alcyone gli fa travestire miticamente l’hic et nunc, gli fa guardare l’oggi da una remota antichità in cui tutto è fabula, traduzione latina di mythos: «la favola bella / che ieri / m’illuse, che oggi t’illude». Della civiltà greca resta, dunque, l’immaginario: poche o punte le reminiscenze storiche o letterarie (ché tra le fonti prevalgono semmai Ovidio e Régnier).
E, a sua volta, non è forse una risposta al Fanciullo, o ai tre libri delle Laudi, la prefazione ai Conviviali? Il verso virgiliano «nonnullos arbusta iuvant humilesque myricae », già utilizzato per il titolo della raccolta d’esordio, offre il suo primo emistichio per l’epigrafe dei Conviviali; arbusti maggiori delle tamerici, dunque poemetti diversi per estensione e tono dalle Myricae, ma pur sempre lontani dalla poetica del grande e dell’alto che trionfa nelle Laudi, nel poeta attratto dagli alberi dai nomi poco usati bossi, ligustri, acanti - cui Montale opporrà, pascolianamente, i suoi gialli e sempreverdi Limoni.
Sicché anche la scelta del bicchiere in luogo dell’ànfora professata nel proemio appare, ancora una volta, una presa di distanza dal Vate abruzzese, specie là dove afferma che l’avidità spinge gli uomini a lottare condannando tutti alla sete: un assunto sviluppato nei versi del Poeta degli Iloti, che appare un chiaro controcanto al superomismo guerresco di Maia (e alla preconizzata conversione del Fanciullo dal flauto all’arco, programma del futuro passaggio dal ruolo di Imaginifico a quello di Poeta- soldato). E assumendosi la taccia di arcade, Pascoli ricorda certo i versi del Commiato alcyonio nel quale Gabriele lo immaginava assorto nella lettura delle Georgiche o delle vicende del pius Enea, guerriero suo malgrado. Sottesa, c’è l’implicita precisazione del suo esser «figlio di Virgilio»: un grande ideale non solo campestre, ma irenico e pre-cristiano. Non per questo egli si sente meno «figlio degli Elleni»: i suoi Conviviali attraversano la civiltà greca dai primordi omerici fino all’ellenismo e all’incipiente cristianesimo; e Pascoli sa che quei Poemi (come i paralleli studi danteschi di Minerva oscura) sopravviveranno al loro autore.
Alla fine fugge alla vista del poeta: tornerà forse il «nudo fanciul pagano», ma dopo aver lasciato il flauto per por mano all’arco. In effetti la vera immersione nella classicità non avviene nell’itinerario turistico e archeologico di Maia, ma nell’ebbrezza di Alcyone, dove la mitopoiesi si fa visione, e il diario dell’estate marina diventa immersione nel mito, dove la compagna di una passeggiata prende figura di Ermione, e una cavalcata trasforma il poeta in centauro. La «mammella antica » cui si dice abbeverato il poeta di Alcyone gli fa travestire miticamente l’hic et nunc, gli fa guardare l’oggi da una remota antichità in cui tutto è fabula, traduzione latina di mythos: «la favola bella / che ieri / m’illuse, che oggi t’illude». Della civiltà greca resta, dunque, l’immaginario: poche o punte le reminiscenze storiche o letterarie (ché tra le fonti prevalgono semmai Ovidio e Régnier).
E, a sua volta, non è forse una risposta al Fanciullo, o ai tre libri delle Laudi, la prefazione ai Conviviali? Il verso virgiliano «nonnullos arbusta iuvant humilesque myricae », già utilizzato per il titolo della raccolta d’esordio, offre il suo primo emistichio per l’epigrafe dei Conviviali; arbusti maggiori delle tamerici, dunque poemetti diversi per estensione e tono dalle Myricae, ma pur sempre lontani dalla poetica del grande e dell’alto che trionfa nelle Laudi, nel poeta attratto dagli alberi dai nomi poco usati bossi, ligustri, acanti - cui Montale opporrà, pascolianamente, i suoi gialli e sempreverdi Limoni.
Sicché anche la scelta del bicchiere in luogo dell’ànfora professata nel proemio appare, ancora una volta, una presa di distanza dal Vate abruzzese, specie là dove afferma che l’avidità spinge gli uomini a lottare condannando tutti alla sete: un assunto sviluppato nei versi del Poeta degli Iloti, che appare un chiaro controcanto al superomismo guerresco di Maia (e alla preconizzata conversione del Fanciullo dal flauto all’arco, programma del futuro passaggio dal ruolo di Imaginifico a quello di Poeta- soldato). E assumendosi la taccia di arcade, Pascoli ricorda certo i versi del Commiato alcyonio nel quale Gabriele lo immaginava assorto nella lettura delle Georgiche o delle vicende del pius Enea, guerriero suo malgrado. Sottesa, c’è l’implicita precisazione del suo esser «figlio di Virgilio»: un grande ideale non solo campestre, ma irenico e pre-cristiano. Non per questo egli si sente meno «figlio degli Elleni»: i suoi Conviviali attraversano la civiltà greca dai primordi omerici fino all’ellenismo e all’incipiente cristianesimo; e Pascoli sa che quei Poemi (come i paralleli studi danteschi di Minerva oscura) sopravviveranno al loro autore.
Giovanni Pascoli, POEMI CONVIVIALI, Rizzoli, pp. 376, € 7,50
«Avvenire» del 24 aprile 2010
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