L’esule dalmata Ottavio Missoni: «Liberazione? Ma che differenza tra l’essere stati liberati dagli americani o da Tito...»
di Ottavio Missoni
Il «Giorno del ricordo» è un momento di riflessione che accomuna tutti coloro che hanno subito la tragedia adriatica e vuole essere una compensazione per i troppi che non hanno una sepoltura nota e degna di questo nome, sulla quale parenti e amici possano deporre un fiore.
Personalmente questa storia potrei iniziarla dal Natale 1941, l’ultimo che ho passato a Zara.
Subito dopo, gennaio 1942, militare. Quindi in Africa settentrionale, combattente sul fronte di El Alamein, quindi prigioniero degli inglesi, quattro anni in Egitto. Al rientro, settembre 1946, la mia famiglia, mamma, papà e un fratello, dopo circa cinque anni li ho rivisti non a Zara ma a Trieste. Così arriviamo al nostro dramma di esuli. L’opinione pubblica italiana solo di recente è venuta pienamente a conoscenza dell’esodo che ha costretto noi Dalmati, unitamente a Fiumani e Istriani, a lasciare Zara e le altre terre della Dalmazia. Le cifre dicono che gli esuli sono stati 360mila, senza mettere in conto i morti, infoibati in Istria e affogati nel mare Adriatico in Dalmazia. 360mila significa che l’esodo è stato totale. Oggi si parlerebbe di «pulizia etnica».
In Italia si festeggia la giornata della «Liberazione» ma c’è una piccola differenza tra l’essere stati liberati dagli americani e l’essere stati liberati dai nazional-comunisti di Tito. Mi è stato chiesto che torti abbiamo subito noi esuli: stabilito che la guerra non si dovrebbe mai fare, ma se la si fa bisogna vincerla, il nostro vero torto fu di averla persa, ma è anche vero che per colpa di questa guerra che «non si doveva fare» gli istriani giuliano-dalmati hanno pagato un conto spaventoso, sia materialmente che moralmente, che non è possibile quantificare. Con tutto ciò i profughi hanno dato nel complesso un grande esempio di dignità, di apertura, di moderazione, di intelligenza e politica. Cinquant’anni dopo la loro tragica odissea, dimenticata e ignorata da quasi tutti, hanno trovato, nella fedeltà alle loro origini e al loro destino, parole di conciliazione che dovrebbero essere un esempio per tutti. Oggi ci si chiede come mai questo dramma sia stato ignorato per cinquant’anni. Evidentemente a molti la «verità» non faceva comodo e i molti dovevano essere in tanti. Così i tanti hanno semplicemente mistificato la «verità» tacendo.
Dopo cinquant’anni se ne parla, il Parlamento ha istituzionalizzato votando all’unanimità il «Giorno del ricordo». L’onorevole Fini ci ha chiesto scusa, a nome del Governo, per averci dimenticati per cinquant’anni; gli ho detto che se aspettavano ancora un po’, non so a chi chiedevano scusa. Si sono aperti dibattiti del perché solamente adesso, dopo cinquant’anni. Anche se il perché è abbastanza chiaro. Ma non ha importanza. Come si usa dire: «Meglio tardi che mai». Così si può sperare che i nostri pronipoti abbiano l’opportunità di apprendere queste vicende dai libri di storia. Ho detto all’inizio che al mio rientro dalla prigionia, settembre 1946, ho trovato i miei genitori a Trieste non a Zara. Zara, una città che più non esiste. Alla voce «Zara» dell’enciclopedia Treccani si legge tra l’altro: «La città fu sottoposta a ben cinquantaquattro durissimi bombardamenti aerei angloamericani ed ebbe a subire gravissimi danni: oltre l’85% degli edifici fu distrutto o danneggiato; 3.000 cittadini vi lasciarono la vita; i superstiti, dopo l’ottobre 1944, completarono l’esodo iniziato un anno prima». Giustamente Enzo Bettiza l’ha definita la piccola «Dresda dell’Adriatico».
Zara, una città che più non esiste. Noi siamo esuli «permanenti». L’emigrante può sempre sognare che un giorno tornerà al suo paese, ritroverà il suo «borgo», la sua osteria, i quattro amici. Ma come sognare una cosa che non esiste? Per far rivivere Zara a noi rimangono solo i ricordi: una magica favola di una città che alla fine ti fa sorgere il dubbio che non sia mai esistita. Zara forse esiste ormai solo nel cuore e nel disperato amore dei suoi cittadini dispersi nel mondo.
Sarà forse impossibile, come teme il mio amico Enzo Bettiza, o quanto meno molto difficile, ricostruire l’unità e l’armonia che regnava un tempo fra i diversi popoli dalmati. Per quanto mi riguarda, i Dalmati, a qualunque etnia appartengano, per me saranno sempre i «fratelli della costa». E io spero che questo mare Adriatico, che per secoli ha unito le due sponde, sia culturalmente che economicamente, e che per più di cinquant’anni le ha divise, torni a unirle nel millenario solco della cultura mediterranea.
Personalmente questa storia potrei iniziarla dal Natale 1941, l’ultimo che ho passato a Zara.
Subito dopo, gennaio 1942, militare. Quindi in Africa settentrionale, combattente sul fronte di El Alamein, quindi prigioniero degli inglesi, quattro anni in Egitto. Al rientro, settembre 1946, la mia famiglia, mamma, papà e un fratello, dopo circa cinque anni li ho rivisti non a Zara ma a Trieste. Così arriviamo al nostro dramma di esuli. L’opinione pubblica italiana solo di recente è venuta pienamente a conoscenza dell’esodo che ha costretto noi Dalmati, unitamente a Fiumani e Istriani, a lasciare Zara e le altre terre della Dalmazia. Le cifre dicono che gli esuli sono stati 360mila, senza mettere in conto i morti, infoibati in Istria e affogati nel mare Adriatico in Dalmazia. 360mila significa che l’esodo è stato totale. Oggi si parlerebbe di «pulizia etnica».
In Italia si festeggia la giornata della «Liberazione» ma c’è una piccola differenza tra l’essere stati liberati dagli americani e l’essere stati liberati dai nazional-comunisti di Tito. Mi è stato chiesto che torti abbiamo subito noi esuli: stabilito che la guerra non si dovrebbe mai fare, ma se la si fa bisogna vincerla, il nostro vero torto fu di averla persa, ma è anche vero che per colpa di questa guerra che «non si doveva fare» gli istriani giuliano-dalmati hanno pagato un conto spaventoso, sia materialmente che moralmente, che non è possibile quantificare. Con tutto ciò i profughi hanno dato nel complesso un grande esempio di dignità, di apertura, di moderazione, di intelligenza e politica. Cinquant’anni dopo la loro tragica odissea, dimenticata e ignorata da quasi tutti, hanno trovato, nella fedeltà alle loro origini e al loro destino, parole di conciliazione che dovrebbero essere un esempio per tutti. Oggi ci si chiede come mai questo dramma sia stato ignorato per cinquant’anni. Evidentemente a molti la «verità» non faceva comodo e i molti dovevano essere in tanti. Così i tanti hanno semplicemente mistificato la «verità» tacendo.
Dopo cinquant’anni se ne parla, il Parlamento ha istituzionalizzato votando all’unanimità il «Giorno del ricordo». L’onorevole Fini ci ha chiesto scusa, a nome del Governo, per averci dimenticati per cinquant’anni; gli ho detto che se aspettavano ancora un po’, non so a chi chiedevano scusa. Si sono aperti dibattiti del perché solamente adesso, dopo cinquant’anni. Anche se il perché è abbastanza chiaro. Ma non ha importanza. Come si usa dire: «Meglio tardi che mai». Così si può sperare che i nostri pronipoti abbiano l’opportunità di apprendere queste vicende dai libri di storia. Ho detto all’inizio che al mio rientro dalla prigionia, settembre 1946, ho trovato i miei genitori a Trieste non a Zara. Zara, una città che più non esiste. Alla voce «Zara» dell’enciclopedia Treccani si legge tra l’altro: «La città fu sottoposta a ben cinquantaquattro durissimi bombardamenti aerei angloamericani ed ebbe a subire gravissimi danni: oltre l’85% degli edifici fu distrutto o danneggiato; 3.000 cittadini vi lasciarono la vita; i superstiti, dopo l’ottobre 1944, completarono l’esodo iniziato un anno prima». Giustamente Enzo Bettiza l’ha definita la piccola «Dresda dell’Adriatico».
Zara, una città che più non esiste. Noi siamo esuli «permanenti». L’emigrante può sempre sognare che un giorno tornerà al suo paese, ritroverà il suo «borgo», la sua osteria, i quattro amici. Ma come sognare una cosa che non esiste? Per far rivivere Zara a noi rimangono solo i ricordi: una magica favola di una città che alla fine ti fa sorgere il dubbio che non sia mai esistita. Zara forse esiste ormai solo nel cuore e nel disperato amore dei suoi cittadini dispersi nel mondo.
Sarà forse impossibile, come teme il mio amico Enzo Bettiza, o quanto meno molto difficile, ricostruire l’unità e l’armonia che regnava un tempo fra i diversi popoli dalmati. Per quanto mi riguarda, i Dalmati, a qualunque etnia appartengano, per me saranno sempre i «fratelli della costa». E io spero che questo mare Adriatico, che per secoli ha unito le due sponde, sia culturalmente che economicamente, e che per più di cinquant’anni le ha divise, torni a unirle nel millenario solco della cultura mediterranea.
«Avvenire» del 22 aprile 2010
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